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264 | pensieri e discorsi |
straniero parla e l’interprete sa. E di queste interpretazioni è buono se ne facciano in iscritto e a voce, specialmente a voce; e si usi pur la lingua più intelligibile, nel quarto d’ora o di secolo, ai più, e sia questa quant’ella voglia essere, sciatta e scinta. Ma all’interpretazione, nella scuola, deve tener dietro la traduzione: ossia il morto scrittore di cui è morta la gente e la lingua, deve venire innanzi e dire nella nostra lingua nuova, dire esso, non io o voi, il suo pensiero che già espresse nella sua lingua antica. Dire esso a modo suo, bene o men bene che dicesse già: semplice, se era semplice, e pomposo se era pomposo, e se amava le parole viete, le cerchi ora, le parole viete, nella nostra favella, e se preferiva le frasi poetiche, non scavizzoli ora i riboboli nel parlar della plebe. Saranno essi ben altro nelle nostre, di quel che nelle loro pagine: oh! sì, morti spesso o sempre, invece che vivi; ombre e non corpi; ma le ombre assomigliano ai corpi perfettamente; le ombre come degli eroi così dei poeti conservano nell’Elisio gli stessi gusti che avevano in terra. Se vogliamo evocarli nella nostra lingua, essi, quando obbediscano, vogliono essere e parere quel che furono; e noi non solo non dobbiamo menomarli e imbruttirli, ma nemmeno (quel che spesso ci sognamo di fare) correggerli e imbellezzirli; come a dire, togliere a Omero gli aggiunti oziosi di cantore erede di cantori, e a Erodoto le sue lungaggini di narratore chiaro, e a Cicerone le sue ridondanze di oratore armonioso, e a Tacito i suoi colori poetici di scrittore schivo del vulgo. Ognuno faccia indovinare, se non sentire, le predilezioni che ebbe da vivo, quanto a lingua e a stile e a numero e a ritmo.