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262 | pensieri e discorsi |
veste nuova, che meno lo faccia parere diverso e anche ridicolo e goffo. Dobbiamo, insomma, osservare, traducendo, la stessa proporzione che è nel testo, del pensiero con la forma, dell’anima col corpo, del di dentro col di fuori. A ciò bisogna studiare e ingegnarsi: svecchiare, sovente, ciò che nella nostra lingua pareva morto; trovare, non di rado, qualche cosa che nella nostra letteratura non è ancora. Dico, noi, e dico, nella nostra: forse gli altri popoli non hanno bisogno di tanto lavorìo. E sì: qualche volta a noi manca ciò che ad altri abbonda.
Di che io mi consolo tanto, perchè c’è ancora da fare, c’è ancora dell’avvenire avanti noi, c’è qualche tesoro da scoprire, qualche statua da dissotterrare, qualche gioia da godere. Per esempio, il verso sciolto del Caro e del Monti è troppo sciolto; cioè, pur non potendo con ogni singolo endecasillabo comprendere un esametro, non cura di comprenderne due con tre, sempre, metodicamente, monotonicamente, come mi par che dovrebbe? Ebbene proveremo noi; faremo noi le terzine o rimate o assonanti o libere. O proveremo a tradurre con l’esametro italico. Ma ci sembrerà, l’esametro Carducciano, troppo libero d’accenti? E noi c’ingegneremo di farlo tanto regolare, tanto sonoro, quanto almeno quelli del Voss e del Geibel. Parlo soltanto del compito di quest’anno; dell’epica cioè e della narrazione in prosa. Ebbene: dovremo noi tradurre con lo stesso materiale linguistico Erodoto e Tito Livio? Ridurre, anzi, tutti gli scritti e tutti gli scrittori al comun denominatore della nostra lingua odierna? E in questo anzi è molto da pensare. Qual è la lingua dell’uso d’oggi? Si dice che la questione è risolta da un pezzo; e invece ricomincia con ogni scrittore che si