Opere minori (Ariosto)/I Cinque Canti/Canto II

Canto II

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I Cinque Canti - Canto I I Cinque Canti - Canto III
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CANTO SECONDO.




ARGOMENTO.


               Per volontà d’Alcina, entra il Sospetto
          Nel cor di Desiderio: ond’ei per quello
          Ogni estraneo signor, con empio effetto,
          Al Franco imperator rende ribello.
          Ma Carlo al rio pensier tronca ogni effetto:
          Manda in Italia Orlando; e, or questo or quello
          Vincendo, assedia Praga: e in questa guerra,
          Della maga Medea le selve atterra.

1 Pensar cosa miglior non si può al mondo,
D’un signor giusto e in ogni parte buono,
Che del debito suo non getti il pondo,
Benchè talor ne vada curvo e prono:
Che curi ed ami i popoli, secondo
Che da’ lor padri amati i figli sono;
Che l’opre e le fatiche pei figliuoli
Fan quasi sempre, e raro per sè soli:

2 Ponga ai perigli ed alle cose strette
Il petto innanzi, e faccia agli altri schermo:
Che non sia il mercenario il qual non stette,
Poi che venir vide a sè il lupo, fermo;
Ma sì bene il pastor vero, che mette
La vita propria pel suo gregge infermo,
Il qual conosce le sue pecorelle
Ad una ad una, e lui conoscon elle.1

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3 Tal fu in terra Saturno, Ercole e Giove,
Bacco, Polluce, Osiri e poi Quirino,
Che con giustizia e virtüose prove,
E con soave e a tutti ugual domino
Fûr degni in Grecia, in India, in Roma, e dove
Corse lor fama, avere onor divino;
Che riputar non si potrían defunti,
Ma a più degno governo in cielo assunti,

4 Quando il signor è buono, i sudditi anco
Fa buoni; chè ognun imita2 chi regge:
E s’alcun pur riman col vizio, manco
Lo mostra fuor, o in parte lo corregge.
O beati li regni a chi un uom franco
E sciolto da ogni colpa abbia a dar legge!
Così infelici sono3 e miserandi,
Ove un ingiusto, ove un crudel comandi;

5 Che sempre accresca e più gravi la soma,
Come in Italia molti a’ giorni nostri,
De’ quali il biasmo in questo e in altro idioma
Faran sentir anco i futuri inchiostri;
Che migliori non son che Gaio a Roma,
O Neron fosse, o fosser gli altri mostri:4
Ma se ne tace, perchè è sempre meglio
Lasciar i vivi, e dir del tempo veglio.

6 E dir qual sotto Fallari Agrigento,
Qual fu sotto i Dionigi Siracusa,
Qual Tebe in man del suo tiran cruento;5
Dai quali e senza colpa e senza accusa
La gente ogni dì quasi a cento a cento
Era troncata,6 o in lungo esiglio esclusa.
Ma nè senza martír sono essi ancora,
Chè al cor lor sta non minor pena ognora.

7 Sta lor la pena della qual si tacque
Il nome dianzi, e della qual dicea
Che nacque quando la brutt’Ira nacque,

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La Crudeltade e la Rapina rea:
E quantunque in un ventre con lor giacque,
Di tormentarle mai non rimanea.
Or dirò il nome, ch’io non l’ho ancor detto;
Nomata questa pena era il Sospetto.

8 II Sospetto, peggior di tutti i mali,
Spirto peggior d’ogni maligna peste,
Che l’infelici menti de’ mortali
Con venenoso stimolo moleste;
Non le povere o l’umili, ma quali
S’aggiran dentro alle superbe teste
Di questi scellerati, che per opra
Di gran fortuna agli altri stan di sopra.

9 Beato chi lontan da questi affanni
Nuoce a nessun, perchè a nessun è odioso!
Infelici altrettanto e più i tiranni,
A cui nè notte mai nè dì riposo
Dà questa peste, e lor raccorda i danni,
E morti date o in palese o in ascoso!
Quinci dimostra che timor sol d’uno
Han tutti gli altri, ed essi n’han d’ognuno.

10 Non v’incresca di starmi un poco a udire,
Chè non però dal mio sentier mi scosto;
Anzi farò questo ch’or narro, uscire
Dove poi vi parrà che sia a proposto.
Uno di questi, il qual prima a nudrire
Usò la barba, per tener discosto
Chi gli potea la vita a un colpo tôrre,7
Nel suo palazzo edificò una torre,

11 Che, d’alte fosse cinta e grosse mura,
Avea un sol ponte che si leva e cala;
Fuor ch’un balcon, non v’era altra apertura,
Ove a pena entra il giorno e l’aria esala:
Quivi dormía la notte, ed era cura
Della moglier di mandar giù la scala:
Di quella entrata è un gran mastin custode,
Ch’altri mai che lor due non vede ed ode.

12 Non ha nella moglier però sì grande
Fede il meschin, che prima ch’a lei vada,
Quand’uno e quand’un altro suo non mande,

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Che cerchi i luoghi onde a temer gli accada.
Ma ciò poco gli val, che le nefande
Man della donna, e la sua propria spada
Fêr d’infinito mal tarda vendetta,
E all’inferno volò suo spirto in fretta.8

13 E Radamanto, giudice del loco,
Tutto il cacciò sotto il bollente stagno,
Dove non pianse e non gridò: i’ mi cuoco,
Come gridava ogn’altro suo compagno;
E la pena mostrò curar sì poco,
Che disse il giustiziere: io te la cagno;9
E lo mandò nelle più oscure cave,
Ov’è un martir d’ogni martir più grave.

14 Nè quivi parve ancor che si dolesse;
E domandato, disse la cagione:
Che quando egli vivea, tanto l’oppresse
E tal gli diè il Sospetto afflizïone
(Che nel capo quel giorno se gli messe,
Che si fece signor contra ragione),
Che sol ora il pensar d’esserne fuore,
Sentir non gli lasciava altro dolore.

15 Si consigliaro i saggi dell’inferno,
Come potesse aver degno tormento;
Che saría contra l’instituto eterno
Se peccator là giù stesse contento;
E di nuovo mandarlo al caldo e al verno
Concluso fu da tutto il parlamento;
E di nuovo al Sospetto in preda darlo,
Ch’entrasse in lui senza più mai lasciarlo.

16 Così di nuovo entrò il Sospetto in questa
Alma, e di sè e di lui fece tutt’uno,
Come in ceppo salvatico s’innesta
Pomo diverso, e ’l nespilo sul pruno;
O di molti colori un color resta,
Quando un pittor ne piglia di ciascuno
Per imitar la carne, e ne riesce
Un differente a tutti quei che mesce.

17 Di sospettoso che ’l tiràn fu in prima,

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Or divenuto era il Sospetto istesso;
E, come morte la ragion di prima
Avesse in lui, gli parea averla appresso.
Ma ritornando al mio parlar di prima,
Che per questo in oblio non l’avea messo;
Alcina se ne va dove sul tergo
D’un alto scoglio ha questo spirto albergo.

18 Lo scoglio ove ’l Sospetto fa soggiorno,
È dal mar alto da seicento braccia,
Di rovinose balze cinto intorno,
E da ogni canto di cader minaccia.
Il più stretto sentier che vada al Forno,
Là dove il Garfagnino il ferro caccia,10
La via Flaminia o l’Appia nomar voglio,
Verso quel che dal mar va in sullo scoglio.

19 Prima che giunghi alla suprema altezza,
Sette ponti ritrovi e sette porte:
Tutte hanno con lor guardie una fortezza;
La settima dell’altre è la più forte.
Là dentro, in grande affanno e in gran tristezza,
Chè gli par sempre a’ fianchi aver la morte,
Il Sospetto meschin sempre s’annida;
Nessun vuol seco e di nessun si fida.

20 Grida da’ merli e tien le guardie deste,
Nè mai riposa al sol nè al cielo oscuro;
E ferro sopra ferro e ferro veste:
Quanto più s’arma, è tanto men sicuro.
Muta ed accresce or quelle cose or queste
Alle porte, al serraglio, al fosso, al muro:
Per darne altrui, munizïon gli avanza;
E non gli par che mai n’abbia a bastanza.

21 Alcina, che sapea ch’indi il Sospetto
Nè a prieghi nè a minacce vorría uscire,
E trarnelo era forza al suo dispetto,
Tutto pensò ciò che potea seguire.
Avea seco arrecato a questo effetto
L’acqua del fiume che fa l’uom dormire,

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Ed entrando invisibil nella rôcca,
Con essa nelle tempie un poco il tocca.

22 Quel cade addormentato; Alcina il prende,
E scongiurando gli spirti infernali,
Fa venir quivi un carro, e su ve ’l stende,
Che tiran duo serpenti c’hanno l’ali;
Poi verso Italia in tanta fretta scende,
Che con la più non van di Giove i strali.
La medesima notte è in Lombardia,
In ripa di Ticin dentro a Pavia;

23 Là dove il re de’ Longobardi allora
L’antico seggio, Desiderio, avea.
Nel cielo orïental sorgea l’aurora
Quando perdè il vigor l’acqua letea:
Lasciò il sonno il Sospetto; e quel che fuora
E lontan dal castel suo si vedea,
Morto saría, se non fosse già morto;
Ma la Fata ebbe presta al suo conforto.

24 Gli promise ella in dietro rimandarlo
Senza alcun danno; e in guisa gli promesse,
Che potè in qualche parte assicurarlo,
Non sì però che in tutto lo credesse:
Ma pria, che in Desiderio, che di Carlo
Temea le forze, entrasse gli commesse,
E che non se gli levi mai del seno,
Fin che tutto di sè non l’abbia pieno.

25 Mentre fu Carlo i giorni innanzi astretto
Dal re d’Africa a un tempo e da Marsiglio,
Il re de’ Longobardi, per negletto
E per perduto avendo posto il Giglio,
Non curando nè papa nè interdetto,
Alla Romagna avea dato di piglio;
Poi entrando in la Marca,11 con battaglia
E Pesaro avea preso e Sinigaglia.

26 Indi sentendo ch’era il foco spento,
Morto Agramante e il re Marsilio rotto,
Della temerità sua mal contento,
Si reputò a mal termine condotto.
Or viene Alcina, e accrescegli tormento;
Chè fa il rio spirto entrar in lui di botto,

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Che notte e dì l’affligge, cruccia ed ange,
E più che sopra un sasso in letto il frange.

27 Gli par veder che lasci il Reno e l’Erra
Il popol già trojano e poi sicambro,12
Ed apra l’Alpi e scenda nella terra
Che riga il Po, l’Adda, il Ticino e l’Ambro:13
Veder s’aspetta in casa sua la guerra,
E sua ruina più chiara che un ambro;
Nè più certo rimedio al suo mal trova,
Che centra Francia ogni vicin commova.

28 E come quel che gran tesori uniti
Avea d’esazïoni e di rapine,
Ed avea i sacri argenti convertiti
In uso suo dalle cose divine;
Con doni e con proferte e gran partiti
Collegò molte nazïon vicine,
Come già il conte di Pontier gli scrisse
Prima che dalla corte si partisse.

29 Tutta avea Gano questa tela ordita,
Che ’l Longobardo dovea tesser poi;
E quella poi non era oltre seguita,
E fin qui stava ne’ principii suoi.
Or la mente, d’un stimolo ferita
Peggior di quel che caccia asini e buoi,
Conchiuse e fece nascer come un fungo
Quel che più giorni avea menato in lungo.

30 Fe in pochi dì che Tassillone, ch’era
Suo genero e cugin del duca Namo,
Tutta la stirpe sua fuor di Baviera
Cacciò, senza lasciarvene un sol ramo:
Fe similmente ribellar la fera
Sansogna, e ritornare al re Gordamo:
E trasse, per pôr Carlo in maggior briga,
Con gli Ungheri i Boemi in una liga;14

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31 E ’l re di Dacia e il re delle due Marche
Pôr15 tra la Frisa e ’l termine d’Olanda
Tante fuste e galee, caracche e barche,
Per gir nell’Inghilterra e nell’Irlanda,
Che per fuggir avean le some carche
Molte terre da mar da quella banda.
Da un’altra parte si sentiva il vecchio
Nemico in Spagna far grande apparecchio.

32 Tutto seguì ciò ch’avea ordito Gano,
Ch’era d’insidie e tradimenti il padre.
Fu suscitato Unuldo l’aquitano
A soldar genti fazïose e ladre:
Mettendo terre a sacco, capitano
Di ventura16 era detto dalle squadre;
Nascosamente da Lupo ajutato,
Di Bertolagi di Bajona nato.

33 Fêr queste nuove, per diversi avvisi
Venute, a Carlo abbandonar le feste,
E a donne e a cavalieri i giochi e i risi,
E mutar le leggiadre in scure veste.
De’ saccheggiati popoli ed uccisi
Per ferro, fiamme, oppressïoni e peste,
Le memorie passate ad ora ad ora
Prometteano altrettanto e peggio ancora.

34 O vita nostra di travaglio piena,
Come ogni tua allegrezza poco dura!
Il tuo gioir è come aria serena,
Che alla fredda stagion troppo non dura:
Fu chiaro a terza il giorno, e a vespro mena
Subito pioggia ed ogni cosa oscura.
Parea ai Franchi esser fuor d’ogni periglio,
Morto Agramante e rotto il re Marsiglio;

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35 Ed ecco un’altra volta che ’l ciel tuona
Da un’altra parte, e tutto arde di lampi,
Sì che ogni speme i miseri abbandona
Di poter frutto côr delli lor campi.
E così avvien ch’una novella buona
Mai più di venti o trenta dì non campi,
Perchè vien dietro un’altra che l’uccide;
E piangerà doman l’uom ch’oggi ride.

36 Per le cittadi uomini e donne errando,
Con visi bassi e d’allegrezza spenti,
Andavan taciturni sospirando,
Nè si sentíano ancor chiari lamenti:
Qual nelle case attonite avvien, quando
Mariti o figli o più cari parenti
Si veggon travagliar nell’ore estreme,
Che infinito è il timor, poca è la speme.

37 E quella poca pur spegnere il gelo
Vuol della tema, e dentro il cor si caccia:
Ma come può d’un picciolin candelo
Fuoco scaldar dov’alta neve agghiaccia?
Chi leva a Dio, chi leva a’ Santi in cielo
Le palme giunte e la smarrita faccia,
Pregandoli che, senza più martire,
Basti il passato a disfogar lor ire.

38 Come che il popol timido per tema
Disperi, e perda il côre e venga manco,
Nel magnanimo Carlo non iscema
L’ardir, ma cresce, e nei Paladini anco:
Chè la virtù di grande fa suprema,
Quanto travaglia più l’animo franco;
E gloria ed immortal fama ne nasce,
Che me’ d’ogni altro cibo il guerrier pasce.

39 Carlo, a chi ritrovar difficilmente,
La terra e ’l mar cercando a parte a parte,
Si potría par di santa e buona mente,
E d’ogni finzïon netta e d’ogni arte
(E lascio ancor ch’oltre l’età presente
Volghi l’antiche e più famose carte);
A Dio raccomandò sè, i figli e ’l stato,
Nè più curò ch’esser di fede armato.

40 Nè men saggio che buono, poi che avuto
Ebbe ricorso alla Maggior possanza,

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Che non mancò nè mancherà d’ajuto
Ad alcun mai che ponga in lei speranza,
Fece che, senza indugio, provveduto
Fu a tutti i luoghi ov’era più importanza:
I capitani suoi per ogni terra
Mandò a far scelta d’uomini da guerra.

41 Non si sentiva allor questo rumore
De’ tamburi, com’oggi, andare in volta,
Invitando la gente di più côre,
O forse (per dir meglio) la più stolta,
Che per tre scudi e per prezzo minore
Vada ne’ luoghi ove la vita è tolta:
Stolta più tosto la dirò che ardita,
Che a sì vil prezzo venda la sua vita.

42 Alla vita l’onor s’ha da preporre;
Fuor che l’onor non altra cosa alcuna:
Prima che mai lasciarti l’onor tôrre,
Dêi mille vite perdere, non ch’una.
Chi va per oro e vil guadagno a porre
La sua vita in arbitrio di fortuna,
Per minor prezzo crederò che dia,
Se troverà chi compri, anco la mia.

43 O, com’io dissi, non sanno che vaglia
La vita quei che sì l’estiman poco;
O c’han disegno, innanzi alla battaglia,
Che ’l piè li salvi a più sicuro loco.
La mercenaria mal fida canaglia
Prezzâr gli antiqui imperatori poco:
Della lor nazïon più tosto venti
Volean, che cento di diverse genti.17

44 Non era a que’ buon tempi18 alcuno escluso
Che non portasse l’armi e andasse in guerra,
Fuor che fanciul da sedici anni in giuso,
O quel che già l’estrema etade afferra:
Ma tal milizia solo era per uso
Di bisogno e d’onor della sua terra:
Sempre sua vita esercitando sotto
Buon capitani, in arme era ognun dotto.

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45 Carlo per tutta Francia e per la Magna,
Per ogni terra a’ suoi regni soggetta,
Fa scriver gente, e poi la piglia e cagna19
Secondo che gli pare atta ed inetta;
Sì che fa in pochi giorni alla campagna
Un esercito uscir di gente eletta,
Da far che Marte fin su nel ciel treme,
Non che a’ nemici l’impeto non sceme.

46 Gli elmi, gli arnesi, le corazze e scudi,
Che poco dianzi fur messi da parte,
E di lor fatte ampie officine ai studi
Dell’ingegnose aragne era gran parte,
Sì che forse tornar in su le incudi
Temeano, e farsi ordigni a più vil’arte;
Or imbruniti,20 fuor d’ogni timore,
Godeano esser riposti al primo onore.

47 Sônan di qua, di là, tanti martelli,
Che n’assorda del strepito ogni orecchia:
Quei batton piastre e le rifanno, e quelli
Vanno acconciando l’armatura vecchia:
Altri le barde torna alli pennelli,21
Coprirle altri di drappo s’apparecchia:
Chi cerca questa cosa, e chi ritrova
Quell’altra; altri racconcia, altri rinnova.

48 Poi che Carlo al tesor ruppe il serraglio,
Ebbon da travagliar tutti i mestieri:
Ma nè maggior nè più comun travaglio
Era però, che di trovar destrieri;
Chè li disagi e delle spade il taglio
Tolto n’avean dalle decine i zeri:
Quali si fosson (chè i buoni eran rari),
Come il sangue e la vita erano cari.

49 Carlo, oltra l’ordinario che solea
Aver d’uomini d’arme alle frontiere,

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E della gente che a piè combattea,
Che per pace era usato anco tenere,
Dall’un canto e dall’altro fatto avea
Che pieno era ogni cosa di bandiere:
Trenta sei mila armati in sugli arcioni,
E quattro tanti e più furo i pedoni.

50 E per li molti esempî che già letto
De’ capitani avea del tempo veglio,
Com’uom che amava sopra ogni diletto
D’udir le istorie e farne al viver speglio;
E più perchè vedutone l’effetto
Per propria esperïenza, il sapea meglio;
Conobbe, a tempo la prestezza usata
Aver più volte la vittoria data:

51 E ch’era molto meglio ch’egli andasse
I nemici a trovar nella lor terra,
E sopra li lor campi s’alloggiasse,
E desse lor de’ frutti della guerra;
Che dentro alle confine gli aspettasse
Che l’Alpi e ’l Pireneo fra duo mar serra.
Fatta la mostra, i popoli divise
In molte parti, e a’ lor capi commise.

52 In quel tempo era in Francia il cardinale
Di santa Maria in Portico22 venuto,
Per Leon terzo23 e pel seggio papale,
Contra Lombardi a domandargli ajuto;
Chè mal era tra spada e pastorale,
E con gran disvantaggio combattuto.
L’imperador, dunque, il primier stendardo
Che fe espedir, fu contra il Longobardo.

53 Era Carlo amator sì della Chiesa,
Sì d’essa protettor e di sue cose,
Che sempre l’augumento e la difesa,

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Sempre l’util di quella al suo prepose:
Però, dopo molt’ altre, questa impresa
Nome di Cristianissimo gli pose,
E dal santo Pastor meritamente
Sacrato imperador fu di Ponente.

54 Mandò il nepote Orlando, e mandò fanti
Seco, e cavalli e una gran schiera d’ archi.24
Subito Orlando a pigliar l’ Alpi innanti
Fece ir li suoi più d’ armatura scarchi;
Ma trovâr che i nemici vigilanti
Avean prima di lor pigliati i varchi,
E fûr costretti d’ aspettar il Conte
Con tutto l’altro campo a piè del monte:

55 Orlando quei dall’ arme più leggiere,
Quando pedoni e quando gente equestre,
Cominciò alla sua giunta a far vedere
Or sulle-manche or sulle piagge destre;
E far fuochi avvampar tutte le sere,
Di qua e di là, per quelle cime alpestre;
E di voler passar mostra ogni segno
Fuor ch’ ove di passar forse ha disegno.

56 A Monginevra, a Monsenise avea,
E a tutti i monti ove la via più s’ usa,
Provvisto il Longobardo, e vi tenea
Con fanti e cavalieri ogni via chiusa:
Sopra Saluzzo i monti difendea
Un suo figliuolo, ed esso quei di Susa.
Per tutti questi passi, or basso or alto,
Orlando movea loro ogni dì assalto:

57 Spesso fa dar all’ armi, e mai non lassa
L’inimico posar nè dì nè notte:
Nè però l’ un su quel dell’ altro passa,
E ben si pôn segnar pari le bôtte.
Ma sarebb’ ita in lungo e forse cassa
D’ effetto sua fatica in quelle grotte,
Se non gli avesse la vittoria in mano
Fatta cader un novo caso strano.

58 Nel campo longobardo un giovane era,
Signor di Villafranca a piè de’ monti,
Capitan degli armati alla leggiera,

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Che n’avea mille ad ogni impresa pronti,
Di tanto ardir, d’audacia così fiera,
Che sempre innanzi iva alle prime fronti;
E sue degne opre non pur fra gli amici,
Ma laude anco trovâr dagl’inimici.

59 Era il suo nome Otton da Villafranca,
Di lucid’arme e ricche vesti adorno,
Che la fida moglier, nomata Bianca,
In ricamar avea speso alcun giorno.
La destra parte era oro, era la manca
Argento, ed anco avean dentro e d’intorno,
Quella d’argento e questa in nodi d’oro,
Le note incomincianti i nomi loro.

60 Avea un caval sì snello e sì gagliardo,
Che par non avea al mondo, ed era côrso,
Sparso di rosse macchie, il col leardo,
L’un fianco e l’altro, e dal ginocchio al dorso.
Men sicuro di lui parea e più tardo,
Volga alla china o drizzi all’erta il corso,
Quell’animal che dalle balze cozza
Coi duri sassi,25 e lenta la camozza.

61 Su quel destrier Ottone, or alto or basso
Correndo, era per tutto in un momento;
Quando lanciando un dardo, e quando un sasso,
Chè la persona sua ne valea cento.
Or s’opponeva a questo, or a quel passo;
Nè sol valea di forza e d’ardimento,
Ma facea con la lingua e con la fronte
Audaci mille cor, mille man pronte.

62 Poichè Fortuna a quell’audacia arriso
Ebbe cinque o sei giorni, entrò in gran sdegno;
Chè pur troppa baldanza l’era avviso
Che Otton pigliasse nel suo instabil regno,
Che avendo di lontano alcuno ucciso,
D’entrar nel stuol facesse anco disegno;
E gli ruppe in un tratto, come vetro,
Ogni speranza di tornare a dietro.

63 Baldovin con molt’altri glie la tolse,
Ch’a un stretto passo il colse per sciagura:
Il cavallo a voltar dietro gli colse,

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Dove i stinchi e le cosce hanno giuntura;
Sì che lo fe prigion, volse o non volse,
Quantunque il cavalier senza paura
Non si rendette mai, fra la tempesta
Di mille colpi, fin ch’ebbe elmo in testa.

64 Perduto l’elmo, non fe più contrasto,
Ma disse: — Io mi vi rendo; — e lasciò il brando,
Molto più del destrier che vedea guasto,
Che del maggior suo danno sospirando.
La presa di quest’uomo venne il basto,
Com’io vi dirò appresso, rassettando,
Sul qual fûr poi le gravi some poste,
Che a Desiderio sì rupper le coste.

65 Lasciato a Villafranca avea la fida,
Casta, bella, gentil, diletta moglie,
Quando di quella schiera si fe guida,
Seguendo più l’altrui che le sue voglie:
Or restando prigion, n’andâr le grida
Là dove più poteano arrecar doglie;
Alla moglie n’andâr casta e fedele,
Che mandò al cielo i pianti e le querele.

66 Sparso la Fama avea, com’è sua usanza
Di sempre aggrandir cosa che rapporte,
Che Otton preso e ferito era, non sanza
Grandissimo periglio della morte.
Perciò il figliuol del re, ch’avea la stanza
Vicino a lei con parte di sua corte,
Andò per visitarla e trar di pianto,
Se valesse il conforto però tanto.

67 Penticon (chè quel nome avea il figliuolo
Del re de’ Longobardi) poi che venne
A veder la beltà che prima, solo
Conoscendo per fama, minor tenne;
Come augel ch’entra nelle panie a volo,
Nè può dal visco poi ritrar le penne,
Si ritrovò nel cieco laccio preso,
Che nel viso di lei stava ognor teso.

68 E dove era venuto a dar conforto,
Non si partì che più bisogno n’ebbe.
Dal cammin dritto immantinente al torto
Voltò il disio, che smisurato crebbe:
Or, non che preso, ma che fosse morto

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Otton suo amico, intendere vorrebbe:
L’uom che pur dianzi con ragione amava,
Contra ragione or mortalmente odiava.

69 Nè può d’un mutamento così iniquo
Render la causa o far scusa migliore,
Che attribuirlo all’ordine che, obliquo
Da tutti gli umani ordini, usa amore;
Di cui per legge e per costume antiquo
Gli effetti son d’ogni altro esempio fuore.
Non potea Penticone al disio folle
Far resistenza; o se potea, non volle.

70 E lasciandosi tutto in preda a quello,
Senza altra scusa e senza altro rispetto,
Cominciò a frequentar tanto il castello,
Che a tutto il mondo dar potea sospetto:
Indi fatto più audace, col più bello
Modo che seppe, a palesarle il petto,
A pregar, a promettere, a venire
A’ mezzi onde aver speri il suo disire.

71 La bella donna, che non men pudica
Era che bella, e non men saggia e accorta,
Prima che farsi oltre il dovere amica
Di sì importuno amante, esser vuol morta.
Ma quegli, avvegna ch’ella sempre dica
Di non voler, però non si sconforta;
Ed è disposto di far altre prove,
Quando il pregar e proferir non giove.

72 Ella conosce ben di non potere
Mantener lungamente la contesa;
E stando quivi, se non vuol cadere,
Non può, se non da morte, esser difesa.
Ma questa suol, fra l’aspre, orride e fiere
Condizïon, per ultima esser presa:
Quindi, prima fuggir, e perder prima
Ciò che altro ha al mondo, che l’onor, fa stima.

73 Ma dove può ella andar, ch’ogni cittade
Che tra il mar, l’Alpi e l’Apennino siede,
Del padre dell’amante è in potestade,
Nè sicuro per lei luogo ci vede?
Passar l’Alpi non può, ch’ivi le strade
Chiude la gente, chi a caval, chi a piede:
Non ha il destrier che fe alle Muse il fonte,

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Nè il carro in che Medea fuggì Creonte.

74 Di questo fe tra sè lungo discorso,
Nè mai seppe pigliare util consiglio.
Ad un suo vecchio al fin ebbe ricorso,
Che amava Otton come signore e figlio.
Costui s’immaginò tosto il soccorso
Di trar l’afflitta donna di periglio,
E le propose per segreti calli
Salva ridurla alla città dei Galli.

75 Stato era cacciator tutta sua vita,
Ma molto più quand’eran gli anni in fiore;
Ed avea per quei monti ogni via trita,
Di qua errando e di là, dentro e di fuore.
Pur che non fosse nel partir sentita,
La condurrebbe salva al suo signore:
Solo si teme che la prima mossa
Occulta a Penticon esser non possa;

76 Che, non che un dì, ma poche ore interpone
Che non sia seco, e va sempre messaggio.26
Mentre va d’una in altra opinïone
Come abbia a provveder il vecchio saggio,
Vede che lei salvare, e con ragione
Otton può vendicar di tanto oltraggio,
Portar facendo al folle amante pena
Di quel desir che a tanto obbrobrio il mena.

77 Esorta lei ch’anco duo dì costante
Stia, fin che di là torni ove andar vuole;
E, come saggia, in tanto al sciocco amante
Prometta largamente e dia parole.
Fatto il pensier, si parte in uno istante
Per una via che in uso esser non suole,
Con lunghi avvolgimenti, ma assai destra
Quanto creder si può d’una via alpestra.

78 Tosto arrivò dove occupava il monte
La gente del figliuol del re Pipino,
E dimandò voler parlar col Conte;
Ma la guardia il condusse a Baldovino,
Che del campo tenea la prima fronte.
Costui d’Orlando frate era uterino:

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Vuo’ dir ch’ambi eran nati d’una madre;
Ma l’un Milon, l’altro avea Gano padre.

79 II Maganzese, poichè di costui
Attentamente ebbe il parlare inteso,
Di liberare il signor suo, e per lui
Dargli il figliuol del re nimico preso;
Non lasciò che parlasse al Conte, in cui
Di virtù vera era un disio sì acceso,
Che di ciò non saría stato contento,
Che aver gli parría odor di tradimento.

80 E dubitava non facesse Orlando
Quel che Fabrizio e che Camil già fêro,
Che l’uno a Pirro, e l’altro già assediando
Falisci, in mano i traditor lor diero.
Finse voler la notte occupar (quando
La strada avea imparata) un poggio altiero
Che si vedea all’incontro oltre la valle,
E i nimici assalir dietro alle spalle.

81 Con volontà d’Orlando, in sulla sera
Baldovin se ne va con buona scòrta
De’ cavalieri armati alla leggiera,
E un fante ognun di lor dietro si porta.
La luna in mezzo il ciel, che ritonda era,
Vien lor mostrando ogni via dritta e torta:
Appresso a terza, si trovâr dal loco
Dove s’hanno a condur, lontani poco.

82 Si fermâr quivi, e ricrearo alquanto
Sè coi cavalli in un’occulta piaggia;
Chè seco vettovaglia aveano quanto
Bastar potea per quella via selvaggia.
Il vecchio corre alla sua donna intanto,
E le divisa ciò ch’ordinato aggia.
A Villafranca Penticon rimena
Il suo desio, che ’l giorno spunta a pena.

83 La donna, che dal dì che le fu tolto
Il suo marito, andò sempre negletta;
Questo, che spera di vederlo sciolto,
E far d’ogni sua ingiuria alta vendetta,
Ritrova i panni allegri, e il crine e ’l volto,
Quanto più sa, per più piacer rassetta;
E fe quel dì, quel che non fe più innante,
Grata accoglienza al poco cauto amante.

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84 E con onesta forza, la mattina,
E dolci preghi, a mangiar seco il tenne.
Il vecchio intanto a Baldovin cammina,
Che al venir ratto aver parve le penne:
Piglia tosto ogni uscita, indi declina
Ove il dì si facea lieto e solenne;
E quivi, senza poter far difese,
E Penticone27 e de’ suoi molti prese.

85 Lasciato avea chi subito al fratello
La vera causa del suo andar narrassi;
Che avea per prender Penticon, non quello
Monte occupar, volti la sera i passi;
Sì che per l’orme sue verso il castello
Pregava che col resto il seguitassi.
Benchè non piacque al Conte che taciuto
Questo gli avesse, pur non negò ajuto:

86 E con tutti gli altri ordini si mosse,
Senza che tromba o che tambur s’udisse;
E perchè inteso il suo partir non fosse,
Lasciò chi ’l foco insino al dì nutrisse.
La presa del figliuol, non sol28 percosse,
Ma al vecchio padre in modo il cor trafisse,
Che si levò dell’Alpi; e mezza rotta
Salvò a Chivasco ed a Vercei la frotta.

87 Nè a Vercei nè a Chivasco il paladino
Di voler dar l’assalto ebbe disegno;
Anzi i passi volgea dritto al Ticino,
Alla città che capo era del regno.
Desiderio, per chiudergli il cammino,
Lo va a trovar, ma non gli fa ritegno;
Ed è sì inferïor nel gran conflitto,
Che ne riman perpetuamente afflitto.

88 Quivi cadèr de’ Longobardi tanti,
E tanta fu quivi la strage loro,
Che ’l loco della pugna gli abitanti
Mortara da poi sempre nominoro.29

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Ma prima che seguir questo più innanti,
Ritornar voglio agli altri Gigli d’oro,
Che Carlo ai capitani raccomanda,
Che alle sue giuste imprese altrove manda.

89 Con diece mila fanti e settecento
Lance e due mila arcieri andò Rinaldo
Verso Guascogna, per far mal contento
Di sua perfidia l’Aquitan ribaldo.
Bradamante e Ruggier, che ’l reggimento
Avean del lito esposto al fiato caldo,
Ebbon di fanti non so quante milia,
E legni armati a guardia di Marsilia.

90 Come chi guardi il mar, così si pone
Chi a cavallo, chi a piè, che guardi il lito.
Olivier guardò Fiandra, Salomone
Bretagna, Piccardia Sansone ardito:
Dico per terra; ch’altra provvisione,
Altro esercito al mar fu statuito.
Con grossa armata cura ebbe Riccardo
Dalla foce del Reno al mar Piccardo.

91 E dal Piccardo in capo di Bretagna
Avendo uomini e legni in abbondanza,
Uscì Carlo col resto alla campagna,
E venne al Reno, e lo passò a Costanza;
Ed arrivò sì presto nella Magna,
Che la fama al venir poco l’avanza;
Passò il Danubio, e si trovò in Baviera,
Che mosso Tassillone anco non s’era.

92 Tassillon, de’ Boemi e de’ Sassoni
Esercito aspettando e d’Ungheria,
Alle squadre di Francia e legïoni
Tempo di prevenirli dato avia.
Carlo fermò ad Augusta i gonfaloni,
E mandò all’inimico ambasceria,
A saper se volesse esperïenza
Far di sua forza o pur di sua clemenza.

93 Tassillo impaurito della presta
Giunta di Carlo, che improvviso il colse,
Con tutto il stato se gli diè in podesta,
E Carlo umanamente lo raccolse;
Ma che rendesse alla prima richiesta
Il tolto a Namo ed a’ consorti, volse;

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E che lor d’ogni danno ed interesse
Ch’avean per questo avuto, soddisfesse:

94 E settecento lance per un anno,
E dieci mila fanti gli pagasse;
La qual gente volea che allora a danno
Di Desiderio in Lombardia calasse.
Cogli statichi i Franchi se ne vanno;
E prima che ’l passaggio altri vietasse
(Chè de’ Boemi prossimi avean dubio),
Tornâr nell’altra ripa del Danubio.

95 E verso Praga in tanta fretta andaro,
Di nostra fede a quella età nimica
(Ben che nè ancora a questa nostra ho chiaro
Che le sia tutta la contrada amica),
Che a prima giunta i varchi le occuparo,
Cacciato e rotto con poca fatica
Re Cardorano, che mezzo in fracasso
Quivi era accorso a divietare il passo.

96 I Franceschi cacciâr fin sulle porte
Di Praga li Boemi in fuga e in rotta.
Quella città, di fosse e mura forte,
Salvò col suo signor la maggior frotta:
Le diè Carlo l’assalto; ma la sorte
Al suo disegno mal rispose allotta,
Chè a gran colpi di lance il popol fiero
Fe ritornar la gente dello Impero.

97 Chè mentre era difeso ed assalito
Da un lato il muro, il forte Cardorano
(Di cui se si volesse un uom più ardito,
Si cerchería forse pel mondo in vano)
Fuor d’una porta era da un altro uscito,
Ed avea fatto un bel menar di mano;
E dentro, con prigioni e preda molta,
Sua gente seco salva avea raccolta.

98 E fe che Carlo andò più ritenuto,
Ed ebbe miglior guardia alle sue genti,
Avendo lor d’un sito provveduto
Da porvi più sicuri alloggiamenti,
Dove il fiume di Molta30 è ricevuto

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Dall’acque d’Albi all’Oceàn correnti:
La barbara cittade in loco siede,
Che quinci un fiume e quindi l’altro vede.

99 Tra le due ripe, alla città distanti
Un tirar d’arco, s’erano alloggiati,
Sì che s’avean la città messa innanti,(1)
Che gli due fiumi avea dietro e dai lati.
Carlo, perchè dai luoghi circostanti
Non abbian vettovaglia gli assediati,
E perchè il campo suo stia più sicuro,
Tra un fiume e l’altro in lungo tirò un muro;

100 Ch’era di fuor di travi e di testura
Di grossi legni, e dentro pien di terra:
E perchè non uscisson delle mura
Dal canto ove la doppia acqua li serra,
Sulle ripe di fuori ebbe gran cura
Di pôr nelle bastie genti da guerra,
Che con velette e ascolte a nessun’ora
Lasciassin uomo entrare o venir fuora.

101 Quindi, una lega appresso, era un’antica
Selva di tassi e di fronzuti cerri,
Che mai sentito colpo d’inimica
Secure non avea nè d’altri ferri:
Quella mai non potesti fare aprica,
Nè quando n’apri il dì nè quando il serri;
Nè al solstizio; nè al tropico, nè mai,
Febo, vi penetrâr tuoi chiari rai.

102 Nè mai Diana; nè mai Ninfa alcuna,
Nè Fauno mai, nè Satir, nè Sileno
Si venne a ricreare all’ombra bruna
Di questo bosco di spavento pieno;
Ma scelerati spirti ed importuna
Religïon quivi dominio avieno,
Dove di sangue umano a Dei non noti
Si facean empî sacrifici e voti.

103 Quivi era fama che Medea, fuggendo
Dopo tanti inimici al fin Teseo,
Che fu, con modo a ricontrarlo orrendo,
Quasi ucciso per lei dal padre Egeo;
Nè più per tutto il mondo loco avendo
Ove tornar se non odioso e reo,
In quelle allora inabitate parti

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Venne, e portó le sue malefiche arti.

104 So ch’alcun scrive che la via non prese,
Quando fuggì dal suo figliastro audace,
Verso Boemia, ma andò nel paese
Che tra i Caspî l’Oronte e Ircania giace,
E che ’l nome di Media da lei scese:
Il che a negar non sarò pertinace;
Ma dirò ben, ch’anco in Boemia venne
O dopo o allora, e signoría vi tenne;

105 E fece in mezzo a questa selva oscura,
Dove il sito le parve esser più ameno,
La stanza sua di così grosse mura,
Che non verran31 per molti secol meno;
E per potervi star meglio sicura,
Di spirti intorno ogni arbor avea pieno,
Che rispingean con morti e con percosse
Chi d’ir ne’ suoi segreti ardito fosse.

106 E perchè, per virtù d’erbe e d’incanti,
Delle Fate una ed immortal fatt’era,
Tanto aspettò, che trionfar di quanti
Nemici avea, vide al fin morte fiera:
Indi a grand’agio ripensando a tanti
A quai fatt’avea notte innanzi sera,
All’ingiurie sofferte, affanni e lutto,
Vide esser stato amor cagion di tutto.

107 E fatta omai per lunga età più saggia
(Che van di par l’esperïenze e gli anni),
Pensa per l’avvenir come non caggia
Più negli error che avea passati, e danni;
E vede, quando amor poter non v’aggia,
Che in lei, nè ancor avran poter gli affanni;
E studia e pensa e fa novi consigli,
Come di quel tiran fugga gli artigli.

108 Ma, perchè, essendo della stirpe antica
Che già la irata Vener maledisse,
Vide che non potea viver pudica,
Ed era forza che ’l destin seguisse;
Pensò come d’amor ogni fatica,
Ogni amarezza, ogni dolor fuggisse;
Come gaudî e piacer, quanti vi sono,

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Prender potesse, e quanto v’è di buono.

109 Cagion della sua pena l’era avviso
Che fosse, come avea visto l’effetto,
Il tener l’occhio tuttavia pur fiso,
E l’animo ostinato in un oggetto;
Ma quando avesse l’amor suo diviso
Fra molti e molti, ardería manco il petto:
Se l’un fosse per trarla in pena e in noja,
Cento sarían per ritornarla in gioja.

110 Di quel paese poi fatta regina,
Che venne a lungo andar pieno e frequente,
Perchè ammirando ognun l’alta dottrina,
Le facea omaggio volontariamente;
Nova religïone e disciplina
Instituì, da ogni altra differente;
Che, senza nominar marito o moglie,
Tutti empiano sossopra le lor voglie.

111 E delli diece giorni aveva usanza
Di ragunarsi il popolo li sei,
Femmine e maschi, tutti in una stanza,
Confusamente i nobili e i plebei:
In questa domandavan perdonanza
D’ogni gaudio intermesso alli lor Dei,
Ch’era a guisa d’un tempio fabbricata
Di varî marmi, e di molt’oro ornata.

112 Finita l’orazion, facean due stuoli,
Da un lato l’un, dall’altro l’altro sesso;
Indi levati i lumi, a corsi e a voli
Veníano al nefandissimo complesso;
E meschiarsi le madri coi figliuoli,
Con le sorelle i frati accadea spesso:
E quella usanza ch’ebbe inizio allora,
Tra gli Boemi par che duri ancora.

113 Deh! perchè quando, o figlia del re Oeta,
O di Atene o di Media tu fuggisti,
Deh! perchè a far l’Italia nostra lieta
Con sì gioconda usanza non venisti?
Ogni mente per te saría quïeta,
Senza cordoglio e senza pensier tristi;
E quella gelosia che sì tormenta
Li nostri cor, saría cacciata e spenta.

114 Oh come, donne, miglior parte avreste

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D’un dolce, almo piacer, che non avete!
Dove voi digiunate, e senza feste
Fate vigilie in molta fame e sete,
Tal satolle e sì fatte prendereste,
Che grasse vi vedrei più che non siete.
Ma bene io stolto a porre in voi disire
Da farvi, per gir là, da noi fuggire!

115 Visse più d’una età leggiadra e bella,
Regina di quei popoli, Medea;
Che ad ogni suo piacer si rinnovella,
E da sè caccia ogni vecchiezza rea;
E questo per virtù d’un bagno ch’ella
Per incanto nel bosco fatto avea;
Al qual, perchè nissun altro s’accosti,
Avea mille demonî a guardia posti.

116 Questa Fata del popolo boemme32
Ebbe per tanti secoli governo,
Che ’l tempo non potría segnar coll’emme,33
E quasi credea ognun che fosse eterno:
Ma poi che a partorir in Bettelemme
Maria venne il figliuol del Re superno,
Quivi regnar più non potè, o non volse,
E di vista degli uomini si tolse.

117 E nell’antica selva fra la torma
Delli demoni suoi tornò a celarsi,
Dove ogni ottavo di sua bella forma
In bruttissima serpe avea a mutarsi.
Per questa opinïon, vestigio ed orma
Di piede uman nissun potea trovarsi
Innanzi a questo dì di ch’io vi parlo,
Che l’aurea fiamma34 alzò in Boemia Carlo.

118 L’imperador comanda che dal piede
Taglin le piante a lor bisogno ed uso:
L’esercito non osa, perchè crede,
Da lunga fama e vano error deluso,

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Che chi ferro alza contra il bosco, fiede
Sè stesso e môre, e nell’inferno giuso
Visibilmente in carne e in ossa è tratto,
O resta cieco o spiritato o attratto.

119 Carlo, fatta cantare una solenne
Messa dall’arcivescovo Turpino,
Entra nel bosco, ed alza una bipenne,
E ne percote un olmo più vicino:
L’arbor, che tanta forza non sostenne,
Chè Carlo un colpo fe da paladino,
Cadde in duo tronchi, come fu percosso,
E sette palmi era d’intorno grosso.

120 Chi si ricorda il dì di san Giovanni,35
Che sotto Ercole o Borso era sì allegro?
Chè poi veduto non abbiam molt’anni,
Come nè ancora altro piacere integro;
Da poi che cominciàr gli assidui affanni
Dei quali è in tutta Italia ogni core egro:36
Parlo del dì che si facea contesa
Di saettar dinanzi alla sua chiesa.

121 Quel dì innanzi alla chiesa del Battista
Si ponean tutti i sagittarî in schiera;
Nè colpo uscía fin che al bersaglio vista
La saetta del principe non era;
Poi colla nobiltà la plebe mista
L’aria di frecce a gara facea nera:
Così ferito ch’ebbe il bosco Carlo,
Fu presto tutto il campo a seguitarlo.

122 Sotto il continuo suon di mille accette
Trema la terra, e par che ’l ciel rimbombi;
Or quella pianta or questa in terra mette
Il capo, e rompe all’altre braccia e lombi.
Fuggon da’ nidi lor gufi e civette,
Che vi son più che tortore o colombi;
E, con le code fra le gambe, i lupi
Lascian l’antiche insidie e i lochi cupi.

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123 Per la molta bontà ch’era in effetto
E vera in Carlo, non mendace e finta,
Fu sì la forza al diavol maledetto
Dall’ajuto di Dio quivi rispinta,
Che a lui non nocque, nè, per suo rispetto,
A chi s’avea per lui la spada cinta:
Sì che mal grado dell’Inferno tutto,
Alli demonî il nido era distrutto.

124 Un fremito, qual suol dall’irate onde
Del tempestoso mar venire a’ lidi,
Cotal si udì fra le turbate fronde,
Mischio di pianti e spaventosi gridi;
Indi un vento per l’aria si diffonde,
Che ben appar che Belzebù lo guidi:
Ma nè per questo avvien ch’al saldo e fermo
Valor di Carlo abbia la selva schermo.

125 Cade l’eccelso pin, cade il funebre
Cipresso, cade il venenoso tasso,
Cade l’olmo atto a riparar che l’ebre
Viti non giaccian sempre a capo basso;
Cadono, e fan cadendo le latebre
Libero agli occhi ed alle gambe il passo:
Piangon sopra le mura i Pagan stolti,
Vedendo alli lor Dei li seggi tolti.

126 Alcun dentro ne gode, chè n’aspetta
Di veder sopra a Carlo e tutti i Franchi
Scender dal ciel così dura vendetta,
Che a seppellirli il popolo si stanchi.
Com’è troncato un arbore, si getta
Nel fiume che alla selva bagna i fianchi;
E quello, ubbidïente, ai corni sopra
Lo porta al loco ov’è poi messo in opra.

127 In questo tempo avea l’iniquo Gano,
Per dare a Carlo in ogni parte briga,
Composto il re d’Arabia e il Sorïano
Col calife d’Egitto in una liga;
E dopo il colpo per celar la mano,
In guisa d’uom che conscïenza instiga,
Per voto a cui già s’obbligasse innanti,
Era andato al Sepolcro, ai Luoghi santi.

128 Quivi da Sansonetto ricevuto,
Che da Carlo in governo avea la terra,

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Era stato alcun giorno, e poi venuto
Verso Costantinopoli per terra;
Dove certa notizia avendo avuto
Di Carlo che in Boemia facea guerra,
S’era voltato, per la dritta via
Di Servia e di Belgrado, in Ungheria.

129 Ritrovò, essendo già Filippo morto,
Avere il regno un figlio d’Ottacchiero,
Che come l’avol dritto, così ei torto
Ebbe l’animo sempre dallo Impero.
Gano gli venne in tempo a dar conforto,
Ch’era pel re di Francia in gran pensiero,
Del qual nimico discoperto s’era
Per la casa del duca di Baviera:

130 E molto si dolea di Tassillone,
Ch’avesse senza lui fatta la pace,
Di che ’l Boemme e l’Ungaro e il Sassone
Restava in preda alla francesca face.
Avea d’ajutar Praga intenzïone,
Ma dello assunto si vedea incapace:
Impossibil gli par che in così breve
Tempo far possa quel che in ciò far deve.

131 Ma se lo assedio si potea produrre,
Se potea andar in lungo ancora un mese,
Tanta gente era certo di condurre,
Oltre il soccorso che daría il paese,
Che i Gigli d’ôr nelle bandiere azzurre
Quivi restar faría coll’altro arnese:
Ma s’ora andasse, non farebbe effetto
Se non d’attizzar Carlo a più dispetto.

132 Gano promise che farebbe ogni opra,
Che Praga ancor un mese si terrebbe;
E poi che molto han ragionato sopra
Quanto far ciascun d’essi in questo debbe,
Parte Gano da Buda, e tra via adopra
Lo ’ngegno che molt’atto a tradir ebbe:
Va da Strigonia in Austria, indi si tiene
A destra mano ed in Boemia viene.

133 Il peregrino di Gerusalemme,
Con quanti avea condotti a’ suoi servigî,
Umilmente, senz’oro e senza gemme,
Ma di panni vestiti grossi e bigî,

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Nel campo tolto al popolo boemme
Baciò la mano al buon re di Parigi,
Ch’avendolo raccolto nelle braccia,
Di qua e di là gli ribaciò la faccia.

134 Era inclinato di natura molto
A Gano Carlo, e ne facea gran stima,
E poche cose fatte avría, che tolto
Il suo consiglio non avesse prima;
Come ogni signor quasi in questo è stolto,
Che lascia il buono ed il peggior sublima;
Nè, se non fuor del stato, o dato in preda
Degl’inimici, par che il suo error veda.

135 Per non saper dal finto il vero amico
Scernere, in tale error misero incorre.
Di questo vi potrei, ch’ora vi dico,
Più d’un esempio innanzi agli occhi porre;
E senza ritornar al tempo antico
N’avrei più d’uno a nostra età da tôrre:
Ma se più versi a questo Canto giungo,
Temo vi offenda il suo troppo esser lungo.




Note

  1. In questa seconda stanza è parafrasata la parabola che trovasi nel vangelo di San Giovanni, cap. X, v. 11. — (Molini.)
  2. Come gl’Italiani proferiscono edúca ed éduca, così all’Ariosto piacque, per comodità del metro, rinnovare in questo verbo il suono usato dai Latini.
  3. Il Barotti legge: «infelici ancora.»
  4. Parrebbe da questo passo, che il concetto dei contemporanei intorno ai principi italiani dei tempi dell’Ariosto, foss’anche peggiore di quello che le storie ci tramandarono.
  5. Creonte, di cui anche nel c. XIX, st. 12 del Furioso. — (Barotti.)
  6. Altro esempio notabile. Vedi Furioso, c. III, st. 33.
  7. Ciò narrasi anche di Dionigi, tiranno di Siracusa. — (Molini).
  8. Quanto qui segue dà chiaramente a conoscere esser questa, più ch’altro, una poetica parabola.
  9. Per cangio; come cagna per cangia nella seg. st. 45. (Barotti.) — Licenze ingrate e non imitabili.
  10. Dice che, al confronto di quel viottolo per cui si saliva allo scoglio abitato dal Sospetto, poteva darsi il nome di via Flaminia e di via Appia al più stretto e difficile sentieruolo che conduce al villaggio detto il Forno Volasco nella Garfagnana, nel quale a’ giorni dell’Ariosto il ferro cavato dai vicini monti, si separava ne’ forni della terra. — (Barotti.)
  11. Il Barotti: «Po’ entrando ne la Marca.»
  12. «L’opinione che i Franchi o Francesi derivassero dai Trojani (da Francione figlio di Ettore) perseverò fino al secolo 16°, come fu anche notato dal signor Agostino Thierry.» (Centofanti, Frammento di lezione sul Veltro Allegorico di Dante, pag. 68.)
  13. L’Ambro (comunemente il Lambro) è un picciol fiume che scorre al levante di Milano, e irriga buon tratto della Lombardia. Al v. 6, ambro per ambra in forza della rima. — (Molini.)
  14. Le sollevazioni e le leghe contro alla Francia e all’Inghilterra, che in questa e nelle ottave seguenti si accennano dall’Ariosto, avvennero veramente, e quasi tutte, a’ tempi di Carlo Magno. — (Barotti.)
  15. Riuscirebbe questa stanza d’impossibile interpretazione, ove così non si leggesse col Barotti e con altri (il Molini ha Poi, con una dichiarazione che non arriviamo ad intendere). Nel qual modo torna, secondo noi, facile il senso: E fece (Gano) il re di Dacia e il re delle due Marche porre (o che i re ec. ponessero) tra la Frisa ec. tante fuste e galee ec. per andare nell’Inghilterra e nell’Irlanda, che molte terre marittime da quella banda (gli abitanti delle coste inglesi e irlandesi) avevano già caricate le some per fuggire.
  16. Idee, come ognun vede, di tempi posteriori.
  17. Il lettore erudito non potrà non porre attenzione a questa mirabile consonanza della poesia dell’Ariosto colla politica insegnata dal Segretario fiorentino. Si vedano ancora le seguenti st. 50-51.
  18. Il Barotti: «a quelli tempi.»
  19. Vedi la nota 2 a pag. 32.
  20. Imbrunito per Brunito, manca di spiegazione e d’esempio nei vocadolari.
  21. Tornar le barde alli pennelli, crediamo che significhi: Tornare a dipingere, quasi Rinfrescarle di colori. E le barde a que’ tempi si dipingevano veramente, come c’insegna l’autore del Morgante: «E le spade e gli scudi e le corazze, E le barde a dipinger pagonazze.» Se a quel luogo avessero posto mente i compilatori del Vocabolario di Bologna, non avrebbero allogato quest’esempio dell’Ariosto sotto la dichiarazione di Bandiera o Banderuola.
  22. «Mi viene in pensiero (scrive il Barotti) che in questa finta spedizione in Francia del cardinale di Santa Maria in Portico fatta da Leone III, volesse alluder l’Ariosto alla vera spedizione che Leone X, del 1518, fece di Bernardo Dovizio da Bibiena, cardinale per l’appunto di Santa Maria in Portico, amico singolarissimo del poeta, a pubblicare in Francia una crociata contro de’ Turchi.» E vorrebbe inferirne, che Lodovico componesse questo Canto tra il 1518 o il 1520, quando il Bibiena, tornando in novembre da quella nunziatura, morì; non parendogli verisimile che dopo la morte dell’amico, pensasse il poeta a fare una tale allusione.
  23. Non già Leone III, ma Adriano I era il pontefice sedente ne’ tempi qui adombrati dal nostro autore.
  24. Metonimicamente, per arcieri.
  25. La capra. La camozza è la capra salvalica, che più dell’altra credevasi veloce al corso.
  26. Altri editori prescelsero. «V’ha.» A noi piace d’intendere come: Messaggi vanno; cioè sempre innanzi e indietro.
  27. Non faremo osservazioni nè sulla falsata istoria, nè sul bel nome di Adelgiso o Adelchi tromutato in Penticone.
  28. Il Barotti: non che.
  29. Si trova scritto che fosse così detto quel luogo, dove Desiderio fu rotto e preso da Carlo Magno, collo sterminio e uccisione de’ Longobardi. Ferrar. Lez. Geogr. — (Barotti.)
  30. Il fiume Molta (Moldau) scorre presso Praga, e poco lungi entra nell’Elba, detta Albi dall’Ariosto. — (Molini.)
  31. Nel Barotti: «non verria.»
  32. Desinenza o licenza che molto piacque al nostro autore, il quale più volte la usò in questi Canti anche fuori di rima; come ancora nelle Commedie, e nel Furioso, c. 28, st. 15.
  33. La lettera M è fra i Latini il segno del mille. Vuol dire, dunque, che i secoli furono più di dieci. — (Molini.)
  34. L’aurea fiamma, cioè l’orifiamma, bandiera del figlio di Costantino imperatore, e poi dei re di Francia. — (Molini.)
  35. Parlasi in questa stanza del pubblico divertimento di tirare a segno con saette, che praticavasi in Ferrara, il dì di San Giovanni, sotto Borso, primo duca, e sotto Ercole I che gli succedette; il qual divertimento fu poi, per le gravi circostanze d’Italia, intermesso. — (Molini.)
  36. Cioè dalla calata di Carlo VIII, nel 1494.