Opere minori (Ariosto)/I Cinque Canti/Canto I

Canto I

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I Cinque Canti I Cinque Canti - Canto II
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CANTO PRIMO.




ARGOMENTO.


               Alcina delle Fate al gran consiglio
          Chiede vendetta dell’offeso onore;
          E con l’Invidia ria preso consiglio,
          Move di Gano a tanto effetto il core;
          Mentre l’imperator dall’aureo Giglio
          Di tutti i suoi guerrier premia il valore:
          Poi Gano tratto a forza ov’era Alcina,
          Trama di Carlo alfin l’alta ruina.

1 Sorge tra il duro Scita e l’Indo molle
Un monte1 che col ciel quasi confina,
E tanto sopra gli altri il giogo estolle,
Ch’alla sua nulla altezza s’avvicina:
Quivi, sul più solingo e fiero colle,
Cinto d’orrende balze e di ruina,
Siede un tempio il più bello e meglio adorno
Che vegga il sol, fra quanto gira intorno.

2 Cento braccia è d’altezza, dalla prima
Cornice misurando insin’ in terra;
Altre cento di là verso la cima
Della cupola d’or ch’ in alto il serra:
Di giro è dieci tanto, se l’estima2

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Di chi a grand’agio il misurò, non erra:
E un bel cristallo intero, chiaro e puro,
Tutto lo cinge, e gli fa sponda e muro.

3 Ha cento facce, ha cento canti, e quelli
Hanno tra l’uno e l’altro uguale ampiezza;
Due colonne ogni spigolo, puntelli
Dell’alta fronte, e tutte una grossezza;
Di cui sono le basi e i capitelli
Di quel ricco metal che più s’apprezza;
Ed esse di smeraldo e di zaffiro,
Di diamante e rubin splendono in giro.

4 Gli altri ornamenti, chi m’ascolta o legge
Può immaginar senza ch’io ’l canti o scriva.
Quivi Demogorgon,3 che frena e regge
Le Fate, e dà lor forza e le ne priva,
Per osservata usanza e antica legge,
Sempre ch’al lustro ogni quint’anno arriva,
Tutte chiama a consiglio, e dall’estreme
Parti del mondo le raguna insieme.

5 Quivi s’intende, si ragiona e tratta
Di ciò che ben o mal sia loro occorso:
A cui sia danno od altra ingiuria fatta,
Non vien consiglio manco nè soccorso:
Se contesa è tra lor, tosto s’addatta,4
E tornar fassi addietro ogni trascorso;
Sì che si trovan sempre tutte unite
Contra ogn’altro di fuor, con chi abbian lite.

6 Venuto l’anno e ’l giorno che raccôrre
Si denno insieme al quinquennal consiglio,
Chi dall’Ibero e chi dall’Indo corre,
Chi dall’Ircano e chi dal mar vermiglio;
Senza frenar cavallo e senza porre
Giovenchi al giogo e senza oprar naviglio,
Dispregiando venían per l’aria oscura
Ogni uso umano, ogni opra di natura.

7 Portate alcune in gran navi di vetro
Dai fier demonî, cento volte e cento

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Con mantici soffiar si facean dietro,
Che mai non fu per l’aria il maggior vento:
Altre, come al contrasto di san Pietro
Tentò in suo danno il Mago, onde fu spento,5
Veníano in collo agli angeli infernali:
Alcune, come Dedalo, avean l’ali.

8 Chi d’oro e chi d’argento e chi si fece
Di varie gemme una lettica adorna:
Portávanne alcuna otto, alcuna diece
Dello stuol che sparir suol quando aggiorna,
Ch’erano tutti più neri che pece,
Con piedi strani e lunghe code e corna:
Pegasi, griffi ed altri uccei bizzarri
Molte traean sopra volanti carri.

9 Queste, ch’or Fate, e dagli antichi fôro
Già dette Ninfe e Dee con più bel nome,
Di prezïose gemme e di molt’oro
Ornate per le vesti e per le chiome,
S’appresentaro all’alto concistoro,
Con bella compagnia, con ricche some,
Studiando ognuna ch’altra non l’avanzi
Di più ornamenti o d’esser giunta innanzi.

10 Sola Morgana, come l’altre volte,
Nè ben ornata v’arrivò nè in fretta;
Ma quando tutte l’altre eran raccolte,
E già più d’una cosa aveano detta,
Mesta, con chiome rabbuffate e sciolte,
Alfin comparve squallida e negletta,
Nel medesmo vestir ch’ella avea quando
Le diè la caccia, e poi la prese, Orlando.6

11 Con atti mesti il gran collegio inchina,
E si ripon nel luogo più di sotto;
E, come fissa in pensier alto, china
La fronte e gli occhi a terra, e non fa motto.
Tacendo l’altre di stupor, fu Alcina

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Prima a parlar, ma non così di botto;
Ch’una o due volte gli occhi intorno volse,
E poi la lingua a tai parole sciolse:

12 — Poi che da forza temeraria astretta,
Non può senza spergiur costei dolerse,
Nè domandar nè procacciar vendetta
Dell’onta ria che già più dì sofferse;
Quel ch’ella non può far, far a noi spetta,
Che le occorrenze prospere e l’avverse
Convien ch’abbiam comuni; e si provveggia
Di vendicarla, ancor ch’ella noi chieggia.

13 Non accade ch’io narri e come e quando
(Perchè la cosa a tutto il mondo è piana)
E quante volte e in quanti modi Orlando,
Con comune onta, offeso abbia Morgana;
Dalla prima fiata incominciando
Che ’l drago e i tori uccise alla fontana,
Fin che le tolse Zilïante7 il biondo,
Ch’amava più di ciò ch’ella avea al mondo.

14 Dico di quel che non sapete forse;
E s’alcuna lo sa, tutte nol sanno:
Più che l’altre soll’io, perchè m’occorse
Gire al suo lago quel medesimo anno:
Alcune sue (ma ben non se n’accorse
Morgana) raccontato il tutto m’hanno:
A me ch’a punto il so, sta ben ch’io ’l dica,
Tanto più che le son sorella e amica.

15 A me convien meglio chiarirvi quella
Parte, che dianzi io vi dicea confusa.
Poi che Orlando ebbe presa mia sorella,
Rubata, afflitta e in ogni via delusa,
Di tormentarla non cessò, fin ch’ella
Non gli fe il giuramento il qual non s’usa
Tra noi mai vïolar; nè ci soccorre
Il dir che forza altrui cel faccia tôrre.

16 Non è particolare e non è sola
Di lei l’ingiuria, anzi appartiene a tutte;
E quando fosse ancora di lei sola,
Debbiamo unirci a vendicarla tutte,
E non lasciarla ingiurïata sola;

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Chè siam compagne e siam sorelle tutte:8
E quando anco ella il nieghi con la bocca,
Quel che il cor vuol, considerar ci tocca.

17 Se tolleriam l’ingiuria, oltra che segno
Mostriam di debolezza o di viltade,
Ed oltra che si tronca al nostro regno
Il nervo principal, la maestade,
Facciam ch’osi9 di nuovo, e che disegno
Di farci peggio in altri animo cade:
Ma chi fa sua vendetta, oltra che offende
Chi offeso l’ha, da molti si difende. —

18 E seguitò parlando, e disponendo
Le Fate a vendicare il comun scorno:
Chè s’io volessi il tutto ir raccogliendo,
Non avrei da far altro tutto un giorno.
Che non facesse questo, non contendo,
Per Morgana e per l’altre ch’avea intorno;
Ma ben dirò che più il proprio interesse,
Che di Morgana a d’altre, la movesse.

19 Levarsi Alcina non potea dal core,
Che le fosse Ruggier così fuggito:10
Non so se da più sdegno o da più amore
Le fosse il cor la notte e ’l dì assalito;
E tanto era più grave il suo dolore,
Quanto men lo potea dir espedito,
Perchè del danno che patito avea,
Era la fata Logistilla rea.

20 Nè potuto ella avría, senza accusarla,
Del ricevuto oltraggio far doglianza:
Ma perch’ivi di liti non si parla
Che sian tra lor, nè se n’ha ricordanza,
Parlò dell’onta di Morgana, e farla
Vendicar procacciò con ogn’instanza;
Chè senza dir di sè, ben vede ch’ella

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Fa per sè ancor, se fa per la sorella.

21 Ella dicea, che come universale
Biasmo di lor, son di Morgana l’onte,
Far se ne debbe ancor vendetta tale,
Che sol non abbia da patirne il Conte,
Ma che n’abbassi ognun che sotto l’ale
Dell’aquila superba11 alzi la fronte:
Propone ella così, così disegna,
Perchè Ruggier di nôvo in sua man vegna.

22 Sapeva ben che fatto era cristiano,
Fatto barone e paladin di Carlo;
Chè se fosse, qual dianzi era, pagano,
Miglior speranza avría di ricovrarlo:
Ma poi che armato era di fede, in vano
Senza l’ajuto altrui potría tentarlo;
Chè se sola da sè vuol fargli offesa,
Gli vede appresso troppo gran difesa.

23 Per questo avea fier odio, acerbo sdegno,
Inimicizia dura e rabbia ardente
Contra re Carlo e ogni baron del regno,
Contra i popoli tutti di Ponente;
Parendo a lei che troppo al suo disegno
Lor bontà fosse avversa e renitente;
Nè sperar può che mai Ruggier s’opprima,
Se non distrugge Carlo insieme, o prima.

24 Odia l’imperator, odia il nipote,
Ch’era l’altra colonna a tener dritto
Sì, che tra lor Ruggier cader non puote,
Nè da forza d’incanto essere afflitto.
Parlato ch’ebbe Alcina, nè ancor vôte
Restâr d’udir l’orecchie altro delitto,
Chè Fallerina pianse il drago morto,
E la distruzïon del suo bell’orto.

25 Poi ch’ebbe acconciamente Fallerina
Detto il suo danno e chiestone vendetta,
Entrò l’arringo e tennel Dragontina
Fin che tutt’ebbe la sua causa detta;
E quivi raccontò l’alta rapina
Ch’Astolfo ed alcun altro di sua setta
Fatto le avea dentro alle proprie case,

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De’ suoi prigion, sì ch’un non vi rimase.

26 Poi l’Aquilina e poi la Silvanella,
Poi la Montana e poi quella dal Corso;
La fata Bianca, e la Bruna sorella,
Ed una a cui tese le reti Borso;
Poi Griffonetta, e poi questa e poi quella
(Chè far di tutte io non potrei discorso)
Dolendosi venian, chi d’Oliviero,
Chi del figlio d’Amone e chi d’Uggiero:

27 Chi di Dudone e chi di Brandimarte,
Quand’era vivo, e chi di Carlo istesso.
Tutti chi in una e chi in un’altra parte
Avean lor fatto danno e oltraggio espresso,
Rotti gl’incanti e disprezzata l’arte
A cui natura e il ciel talora ha cesso:
A pena d’ogni cento trovasi una
Che non avesse avuto ingiuria alcuna.

28 Quelle che da dolersi per sè stesse
Non hanno, sì dell’altre il mal lor pesa,
Che non men che sia suo proprio interesse,
Si duol ciascuna e se ne chiama offesa:
Non eran per patir che si dicesse
Che l’arte lor non possa far difesa
Contra le forze e gli animi arroganti
De’ Paladini e cavalieri erranti.

29 Tutte per questo (eccettüando solo
Morgana, ch’avea fatto il giuramento
Che mai nè a viso aperto nè con dolo
Procaccería ad Orlando nocumento),
Quante ne son fra l’uno e l’altro polo,
Fra quanto il sol riscalda e affredda12 il vento,
Tutte approvâr quel ch’avea Alcina detto,
E tutte instâr che se gli desse effetto.

30 Poi che Demogorgon, principe saggio
Del gran consiglio, udì tutto il lamento,
Disse: — Se dunque è general l’oltraggio,
Alla vendetta general consento;
Che sia Orlando, sia Carlo, sia il lignaggio
Di Francia, sia tutto l’imperio spento;

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E non rimanga segno nè vestigi,
Nè pur si sappia dir: Qui fu Parigi. —

31 Come nei casi perigliosi spesso
Roma e l’altre repubbliche fatt’hanno,
C’hanno il poter di molti a un solo cesso,
Che faccia sì che non patiscan danno;13
Così quivi ad Alcina fu commesso,
Che pensasse qual forza o qual inganno
S’avesse a usar; ch’ogn’una d’esse presta
Avría in ajuto ad ogni sua richiesta.

32 Come chi tardi i suoi denar dispensa
Nè d’ogni compra tosto si compiace,
Cerca tre volte e più tutta la Sensa,14
E va mirando in ogni lato, e tace;
Si ferma alfin dove ritrova immensa
Copia di quel ch’al suo bisogno face,
E quivi or questa or quella cosa volve,
Cento ne piglia, e ancor non si risolve:

33 Questa mette da parte e quella lassa,
E quella che lasciò di novo piglia;
Poi la rifiuta e ad un’altra passa;
Muta e rimuta, e ad una alfin s’appiglia:
Così d’alti pensieri una gran massa
Rivolge Alcina, e lenta si consiglia;
Per cento strade col pensier discorre,
Nè sa veder ancor dove si porre.

34 Dopo molto girar, si ferma alfine,
E le par che l’Invidia esser dee quella
Che l’alto impero occidental ruine;
Faccia ch’a punto sia come s’appella:15
Ma di chi dar più tosto l’intestine
A roder debbia a questa peste fella,
Non sa veder, nè che piacer più al gusto
Creda16 di lei, che ’l cor di Gano ingiusto.

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35 Stato era grande appresso a Carlo Gano
Un tempo sì, che alcun non gl’iva al paro:
Poi con Astolfo quel di Mont’Albano,
Orlando e gli altri che virtù mostraro
Contra Marsilio e contra il re africano,
Fêr sì che tanta altezza gli levaro;
Onde il meschin, che di fumo e di vento
Tutto era gonfio, vivea mal contento.

36 Gano superbo, livido e maligno
Tutti i grandi appo Carlo odiava a morte;
Non potea alcun veder, che senza ordigno,
Senza opra sua si fosse acconcio in corte:
Sì ben con umil voce e falso ghigno
Sapea finger bontade, ed ogni sorte
Usar d’ipocrisía, che chi i costumi
Suoi non sapea, gli porria a’ piedi i lumi.17

37 Poi, quando si trovava appresso a Carlo
(Chè tempo fu ch’era ogni giorno seco),
Rodea nascosamente come tarlo,
Dava mazzate a questo e a quel da cieco:
Sì raro dicea il vero, e sì offuscarlo
Sapea, che da lui vinto era ogni Greco.
Giudicò Alcina, com’io dissi, degno
Cibo all’Invidia il cor di vizî pregno.

38 Fra i monti inaccessibili d’Imavo,18
Che il ciel sembran tener sopra le spalle,
Fra le perpetue nevi e ’l ghiaccio ignavo19
Discende una profonda e oscura valle;
Onde da un antro orribilmente cavo
All’Inferno si va per dritto calle:
E questa è l’una delle sette porte,
Che conducono al regno della Morte.

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39 Le vie, l’entrate principal son sette,20
Per cui l’anime van dritto all’Inferno;
Altre ne son, ma torte, lunghe e strette,
Come quella di Tenaro e d’Averno:
Questa delle più usate una si mette,
Di che la infame Invidia avea il governo:
A questo fondo orribile si cala
Súbito Alcina, e non vi adopra scala.

40 S’accosta alla spelonca spaventosa,
E percôte a gran colpo con un’asta
Quella ferrata porta, mezzo rosa
Da’ tarli e dalla ruggine più guasta.
L’Invidia, che di carne venenosa
Allora si pascea d’una cerasta,
Levò la bocca alla percossa grande
Dalle amare e pestifere vivande.

41 E di cento ministri ch’avea intorno,
Mandò senza tardar uno alla porta;
Che, conosciuta Alcina, fa ritorno
E di lei nuova indietro le rapporta.
Quella pigra si leva, e contra il giorno
Le viene incontra, e lascia l’aria morta;
Chè ’l nome delle Fate sino al fondo
Si fa temer del tenebroso mondo.

42 Tosto che vide Alcina così ornata
D’oro e di seta e di ricami gai;
Chè riccamente era a vestire usata,
Nè si lasciò non culta veder mai;
Con guardatura oscura e avvenenata
I lividi occhi alzò, piena di guai;
E fêro il cor dolente manifesto
I sospiri ch’uscian dal petto mesto.

43 Pallido più che bosso, e magro e afflitto,
Arido e secco ha il dispiacevol viso;
L’occhio, che mirar mai non può diritto;
La bocca, dove mai non entra riso,
Se non quando alcun sente esser proscritto,
Di stato espulso, tormentato e ucciso

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(Altramente non par ch’unqua s’allegri);
Ha lunghi i denti, rugginosi e negri.

44 — O degl’imperatori imperatrice,
Cominciò Alcina, o delli re regina,
O de’ principi invitti domatrice,
O de’ Persi e Macedoni ruina,
O del romano e greco orgoglio ultrice,
O gloria a cui null’altra s’avvicina,
Nè sarà mai per appressarsi, s’anco
Il fasto levi all’alto imperio franco;

45 Una vil gente che fuggì da Troja21
Sino all’alte paludi della Tana,22
Dove ai vicini così venne a noja,
Che la spinser da sè tosto lontana;
E quindi ancora in ripa alla Danoja
Cacciata fu dall’aquila romana;
Ed indi al Reno, ove in discorso d’anni23
Entrò con arte in Francia e con inganni:

46 Dove ajutando or questo or quel vicino
Incontra agli altri, e poi, con altro ajuto,
Questi ch’ora gli avean dato il domino
Scacciando, a parte a parte ha il tutto avuto,
Finchè il nome regal levò Pipino
Al suo signor poco all’incontro astuto;
Or Carlo suo figliuol l’imperio regge,
E dà all’Europa e a tutto il mondo legge:

47 Puoi tu patir che la già tante volte
Di terra in terra discacciata gente,
A cui le sedie or questi or quelli han tolte,
Nè lasciato in riposo lungamente;
Puoi tu patir ch’or signoreggi molte
Provincie, e freni omai tutto il Ponente,
E che dall’Indo all’onde maure estreme
La terra e il mar al suo gran nome treme?

48 Alle mortal grandezze un certo fine
Ha Dio prescritto, a cui si può salire;

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Chè, passandol, sarían come divine:
Il che natura o il ciel non può patire;
Ma vuol che giunto a quel, poi si decline.
A quello è giunto Carlo, se tu mire.
Or questa ogni tua gloria antica passa,
Se tanta altezza per tua man s’abbassa. —

49 E seguitò mostrando alta24 cagione
Ch’avea di farlo, e mostrò insieme il modo;
Però ch’avría un gran mezzo, Ganellone,
D’ogni inganno capace e d’ogni frodo:
Poi le soggiunse, che d’obbligazione,
Facendol, le porrebbe al cor un nodo
In suoi servigi sì tenace e forte,
Che non lo potría sciôrre altro che morte.

50 Al detto della Fata, brevemente
Diè l’Invidia risposta, che farebbe.
I suoi ministri ha separatamente,
Che ciascun sa per sè quel che far debbe:
Tutti hanno impresa di tentar la gente;
Ognun guadagnar anime vorrebbe:
Stimula altri i signori, altri i plebei;
Chi fa li vecchi e chi i fanciulli rei.

51 E chi li cortigiani e chi gli amanti,
E chi li monachetti e i loro abati:
Quei che le donne tentano, son tanti
Che saríano a fatica noverati.
Ella venir se li fe tutti innanti,
E poi che ad un ad un gli ebbe mirati,
Stimò sè sola a sì importante effetto
Sufficïente, e ciascun altro inetto.

52 E de’ suoi brutti serpi venenosi
Fatto una scelta, in Francia corre in fretta;
E giugner mira in tempo ch’ai focosi
Destrieri il fren la bionda Aurora metta,
Allor ch’i sogni men son fabulosi,
E nascer veritade se n’aspetta:
Con novo abito quivi e nove larve
Al conte di Maganza in sogno apparve.

53 Le fantastiche forme seco tolto
L’Invidia avendo, apparve in sogno a Gano;

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E gli fece veder tutto raccolto
In larga piazza il gran popol cristiano,
Che gli occhi lieti avea fissi nel volto
D’Orlando e del signor di Mont’Albano,
Ch’in veste trionfal, cinti d’alloro,
Sopra un carro venían di gemme e d’oro.

54 Tutta la nobiltà di Chiaramonte
Sopra bianchi destrier lor venía intorno:
Ognun di lauro coronar la fronte,
Ognun vedea di spoglie ostili adorno;
E la turba con voci a lodar pronte
Gli parea udir, che benediva il giorno
Che, per far Carlo a null’altro secondo,
La valorosa stirpe venne al mondo.

55 Poi di veder il popolo gli è avviso,
Che si rivolga a lui con grand’oltraggio,
E dir si senta molta ingiuria in viso,
E codardo nomar, senza coraggio;
E con batter di man, sibilo e riso,
S’oda beffar con tutto il suo lignaggio;
Nè quei25 di Chiaramonte aver più loda,
Che li suoi biasmo, par che vegga ed oda.

56 In questa visïon l’Invidia il core
Con man gli tocca più fredda che neve;
E tanto spira in lui del suo furore,
Che ’l petto più capir non può nè deve.
Al cor pon delle serpi la peggiore,
Un’altra onde l’udito si riceve,
La terza agli occhi; onde di ciò che pensa,
Di ciò che vede ed ode ha doglia immensa.

57 Dell’aureo albergo essendo il sol già uscito,
Lasciò la visïon e il sonno Gano,
Tutto pien di dolor dove sentito
Toccar s’avea con la gelata mano.
Ciò che vide dormendo, gli è scolpito
Già nella mente, e non l’estima vano;
Non false illusïon, ma cose vere
Gli par che gli abbia Dio fatto vedere.

58 Da quell’ora il meschin mai più riposo

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Non ritrovò, non ritrovò più pace:
Dall’occulto veneno il cor gli è roso,
Che notte e giorno sospirar lo face:
Gli par che liberale e grazïoso
Sia a tutti gli altri, ed a nessun tenace,
Se non a’ Maganzesi, il re di Francia;
Fuor che la lor, premiata abbia ogni lancia.

59 Già fuor di tende, fuor di padiglioni
In Parigi tornata era la corte,
Avendo Carlo i principi e baroni
E tutti i forestier di miglior sorte
Fatto, con gran proferte e ricchi doni,
Contenti accompagnar fuor delle porte;
E tra’ più arditi cavalier del mondo
Stava a godere il suo stato giocondo.

60 E come saggio padre di famiglia,
La sera dopo le fatiche a mensa,
Tra gli operarî con ridenti ciglia
Le giuste parti a questo e a quel dispensa;
Così, poi che di Libia e di Castiglia
Spentasi intorno avea la face accensa,
Rendea a’ signori e cavalieri merto
Di quanto in armi avean per lui sofferto.

61 A chi collane d’oro, a chi vasella
Dava d’argento, a chi gemme di pregio;
Cittadi aveano alcuni, altri castella:
Ordine alcun non fu, non fu collegio,
Borgo, villa nè tempio nè cappella,
Che non sentisse il beneficio regio:
E per dieci anni fe tutte le genti
Ch’avean patito, dai tributi esenti.

62 A Rinaldo il governo di Guascogna
Diede, e pension di molti mila franchi,26
Tre castella a Olivier donò in Borgogna,
Che del suo antiquo stato erano a’ fianchi;
Donò ad Astolfo in Piccardia Bologna:
Non vi dirò ch’al suo nipote manchi;
Diede al nipote principe d’Anglante
Fiandra in governo, e donò Brugia e Gante;

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63 E promise lo scettro e la corona,
Poi che n’avesse il re Marsilio spinto,
Del regno di Navarra e di Aragona,
La qual’impresa allor era in procinto.
Ebbe la figlia d’Amon di Dordona
Da quello del fratel dono distinto;
Le diè Carlo in dominio quel che darle
In governo solea, Marsilia ed Arle.

64 In somma, ogni guerrier d’alta virtute,
Chi città, chi castella ebbe, e chi ville.
A Marfisa e a Ruggier fûr provvedute27
Larghe provvisïoni a mille a mille.
Se dallo imperator le grazie avute
Tutte ho a notar, farò troppe postille:
Nessun, vi dico, o in comune o in privato,
Partì da lui, che non fosse premiato.

65 Nè feudi nominando nè livelli,
Fûr senza obbligo alcun liberi i doni;
Acciò il non sciôrre28 i canoni di quelli
O non ne tôrre a tempo investigioni,
Potesse li lor figli o li fratelli
Eredi far cader di lor ragioni:29
Liberi fûro e veri doni, e degni
D’un re che degno era d’imperio e regni.

66 Or, sopra gli altri, quei di Chiaramonte
Nei real doni avean tanto vantaggio,
Che sospirar facean dì e notte il conte
Gan di Maganza, e tutto il suo lignaggio:
Come gli onori d’un fossero l’onte
Dell’altra parte, lor pungea il coraggio;30
E questa invidia all’odio, e l’odio all’ira,
E l’ira alfine al tradimento il tira.

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67 E perchè, d’astio e di veneno pregno,
Potea nasconder male il suo dispetto,
E non potea non dimostrar lo sdegno
Che contra il re per questo avea concetto;
E non men per fornire alcun disegno
Ch’in parte ordito, in parte avea nel petto,
Finse aver voto, e ne sparse la voce,
D’ire al Sepolcro e al monte della Croce:

68 Ed era il suo pensiero ire in Levante
A ritrovare il calife d’Egitto,
Col re della Soría poco distante;
E più sicuro a bocca che per scritto,
Trattar con essi, che le terre sante
Dove Dio visse in carne e fu trafitto,
O per fraude o per forza dalle mani
Fosser tolte e dal regno de’ Cristiani.

69 Indi andare in Arabia avea disposto,
E far scender quei popoli all’acquisto
D’Africa, mentre Carlo era discosto,
E di gente il paese mal provvisto.
Già innanzi la partita avea composto,
Che Desiderio al vicario di Cristo,
Tassillo a Francia,31 e a Scozia e ad Inghilterra
Avesse il re di Dacia32 a romper guerra;

70 E che Marsilio armasse in Catalogna,
E scendesse in Provenza e in Acquamorta,
E con un altro esercito in Guascogna
Corresse a Mont’Alban fin su la porta:
Egli Maganza, Basilea, Cologna,
Costanza ed Aquisgrana, che più importa,
Promettea far ribelle a Carlo, e in meno
D’un mese tôrgli ogni città del Reno.

71 Or fattasi fornir una galea
Di vettovaglia, d’armi e di compagni,
Poi che licenza dal re tolto avea,

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Uscì del porto e dei sicuri stagni.
Restare a dietro, anzi fuggir parea
Il lito, ed occultar tutti i vivagni:33
Indi l’Alpe a sinistra apparea lunge,
Ch’Italia in van da’ Barbari disgiunge:

72 Indi i monti ligustici, e riviera
Che d’aranci e di sempre verdi34 mirti
Quasi avendo perpetua primavera,
Sparge per l’aria i bene olenti spirti.35
Volendo il legno in porto ire una sera
(In qual a punto io non saprei ben dirti),
Ebbe un vento da terra in modo all’orza,
Ch’in mezzo il mar lo fe tornar per forza.

73 Il vento tra maestro e tramontana,
Con timor grande e con maggior periglio,
Tra l’orïente e mezzodì allontana
Sei dì senza allentarsi unqua il naviglio.
Fermòssi al fine ad una spiaggia strana,
Tratto da forza più che da consiglio,
Dove un miglio discosto dall’arena
D’antiche palme era una selva amena:

74 Che per mezzo da un’acqua era partita
Di chiaro fiumicel, fresco e giocondo,
Che l’una e l’altra proda avea fiorita
Dei più soavi odor che siano al mondo.
Era di là dal bosco una salita
D’un picciol monticel quasi rotondo,
Sì facile a montar, che prima il piede
D’aver salito, che salir si vede.

75 D’odoriferi cedri era il bel colle
Con maestrevol ordine distinto;
La cui bell’ombra al sol sì i raggi tolle,
Ch’al mezzodì dal rezzo è il calor vinto.
Ricco d’intagli, e di soave e molle
Getto di bronzo, e in parti assai dipinto,
Un lungo muro in cima lo circonda,
D’un alto e signoril palazzo sponda.

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76 Gano, che di natura era bramoso
Di cose nove, e dal bisogno astretto
(Che già tutto il biscotto aveano roso),
De’ suoi compagni avendo alcuno eletto,
Si mise a camminar pel bosco ombroso,
Tra via prendendo d’ascoltar diletto
Da’ rugiadosi rami d’arbuscelli
Il piacevol cantar de’ vaghi augelli.

77 Tosto ch’egli dal mar si pose in via,
E fu scoperto dal luogo eminente,
Diversa e soavissima armonia
Dall’alta casa infino al lito sente:
Non molto va, che bella compagnia
Trova di donne, e dietro alcun sergente
Che palafreni vôti avean con loro,
Guarniti altri di seta ed altri d’oro;

78 Che con cortesi e belli inviti fenno
Gano salir, e chi venía con lui.
Con pochi passi fine alla via denno
Le donne e i cavalieri, a dui a dui.
L’oro di Creso, l’artificio e ’l senno
D’Alberto, di Bramante o di Vitrui,36
Non potrebbono far, con tutto l’agio
Di dugent’anni, un così bel palagio.

79 E dai demonî tutto in una notte
Lo fece far Gloricia incantatrice,
Ch’avea l’esempio nelle idee incorrotte37
D’un che Vulcano aver fatto si dice;
Del qual restaro poi le mura rotte
Quel dì che Lenno fu dalla radice
Svelta, e gettata con Cipro e con Delo
Dai figli della terra incontra il cielo.

80 Tenea Gloricia splendida e gran corte,
Non men ricca d’Alcina o di Morgana;
Nè men d’esse era dotta in ogni sorte
D’incantamenti inusitata e strana;
Ma non, com’esse, pertinace e forte
Nell’altrui ’ngiurie, anzi cortese e umana,

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Nè potea al mondo aver maggior diletto,
Che onorar questo e quel nel suo bel tetto.

81 Sempre ella tenea gente alla veletta,
A’ porti ed all’uscita delle strade,
Che con inviti i pellegrini alletta
Venir a lei da tutte le contrade.
Con gran splendore il suo palazzo accetta
Poveri e ricchi e d’ogni qualitade;
E il cor de’ vïandanti con tai modi
Nel suo amor lega d’insolubil nodi.

82 E come avea di accarezzare usanza
E di dare a ciascun debito onore,
Fece accoglienza al conte di Maganza
Gloricia, quanto far potea maggiore;
E tanto più, che ben sapea ad istanza
D’Alcina esser qui giunto il traditore:
Ben sapeva ella, ch’avea Alcina ordito
Che capitasse Gano a questo lito.

83 Ell’era stata in India al gran consiglio,
Dove l’alto esterminio fu concluso
D’ogni guerriero ubbidïente al figlio
Del re Pipino; e nessuno era escluso,
Eccetto il Maganzese, il cui consiglio,
Il cui favor stimâr atto a quell’uso:
Dunque, a lui le accoglienze e i modi grati
Che quivi gli altri avean, fûr raddoppiati.

84 Gloricia Gano, com’era commesso
Da chi fatto l’avea cacciar dai venti,
Acciò quindi ad Alcina sia rimesso
Tra’ Sciti e gl’Indi ai suoi regni opulenti,
Fa la notte pigliar nel sonno oppresso,
E li compagni insieme e li sergenti.
Così far quivi agli altri non si suole,
Ma dar questo vantaggio a Gano vuole.

85 E benchè, più che onor, biasmo si tegna
Pigliare in casa sua chi in lei si fida,
Ed a Gloricia tanto men convegna,
Che fa del suo splendor sparger le grida;
Pur non le par che questo il suo onor spegna:
Chè tôrre al ladro, uccider l’omicida,
Tradire il traditor, ha degni esempi,
Ch’anco si pôn lodar, secondo i tempi.

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86 Quando dormía la notte più soave,
Gano e i compagni suoi tutti fûr presi,
E serrati in un ceppo duro e grave,
L’un presso all’altro, trenta Maganzesi.
Gloricia in terra disegnò una nave
Capace e grande con tutt’i suo’ arnesi,
E fece li prigion legare in quella,
Sotto la guardia d’una sua donzella.

87 Sparge le chiome, e qua e là si volve
Tre volte e più, fin che mirabilmente
La nave ivi dipinta nella polve
Da terra si levò tutta ugualmente.
La vela al vento la donzella solve,
Per incanto allor nata parimente;
E verso il ciel ne va, come per l’onda
Suol ir nocchier che l’aura abbia seconda.

88 Gano e i compagni, che per l’aria tratti
Da terra si vedean tanto lontani,
Com’assassini stranamente attratti
Nel lungo ceppo per piedi e per mani,
Tremando di paura, e stupefatti
Di maraviglia de’ lor casi strani,
Volavan per Levante in sì gran fretta,
Che non gli avrebbe giunti una saetta.

89 Lasciando Tolomaide e Berenice
E tutt’Africa dietro, e poi l’Egitto,
E la deserta Arabia e la felice,
Sopra il mar Eritreo fecion tragitto.
Tra Persi e Medi, e là dove si dice
Battra, passan, tenendo il corso dritto
Tuttavia fra orïente e tramontana,
E lascian Casia a dietro e Sericana.

90 E siccome veduti eran da molti,
Di sè davano a molti maraviglia:
Facean tener levati al cielo i volti
Con occhi immoti e con arcate ciglia.
Vedendogli passare alcuni stolti
Da terra alti lo spazio di duo miglia,
E non potendo ben scorgere i visi,
Ebbon di lor diversi e strani avvisi.

91 Alcuni immaginâr che di Carone,
Il nocchiero infernal, fusse la barca,

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Che d’anime dannate a perdizione
Alla via di Cocito andasse carca.
Altri diceano, d’altra opinïone:
— Questa è la santa nave ch’al ciel varca,
Che Pietro tôl da Roma, acciò nell’onde
Di stupri e simoníe non si profonde. —

92 Ed altra cosa altri dicean dal vero
Molto diversa e senza fin rimota.
Passava intanto il navilio leggiero
Per la contrada a’ nostri poco nota,
Fra l’India avendo e Tartaria il sentiero,
Quella di città piena e questa vôta,
Finchè fu sopra la bella marina
Ch’ondeggia intorno all’isola d’Alcina.

93 Nella città d’Alcina, nel palagio,
Dentro alle logge la donzella pose
La nave, e tutti li prigioni ad agio,
E l’ambasciata di Gloricia espose.
Nei ceppi, come stavano, a disagio
Alcina in una torre al sole ascose
I Maganzesi, avendo riferite
Del dono a chi ’l donò grazie infinite.

94 La sera fuor di carcere poi Gano
Fe a sè condurre, e a ragionar il messe
Dello stato di Francia e del romano,
Di quel che Orlando e che Ruggier facesse.
Ebbe l’astuto Conte chiaro e piano
Quanto la donna Carlo in odio avesse,
Ruggiero, Orlando e gli altri; e tosto prese
L’util partito, ed a salvarsi attese.

95 — S’aver, donna, volete ognun nemico,
Disse, che della corte sia di Carlo,
Me in odio avrete ancora, chè ’l mio antico
Seggio è tra’ Franchi e non potrei negarlo;
Ma se più tosto odiate chi gli è amico
E di sua volontà vuol seguitarlo,
Me non avrete in odio, ch’io non l’amo,
Ma il danno e biasmo suo più di voi bramo.

96 E s’ebbe alcun mai da bramar vendetta
Di tiranno che gli abbia fatto oltraggio,
Bramar di Carlo e di tutta sua setta
Vendetta innanzi a tutti i sudditi aggio;

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Come di re da cui sempre negletta
La gloria fu di tutto il mio lignaggio,
E che, per sempre al cor tenermi un telo,
Con favor alza i miei nemici al cielo.

97 Il mio figliastro Orlando, che mia morte
Procurò sempre e ad altro non aspira,
Contra me mille volte ha fatto forte;
Per lui m’ha mille volte avuto in ira:
Rinaldo, Astolfo ed ogni suo consorte,
Di giorno in giorno a maggior grado tira;
Tal che sicuro, per lor gran possanza,
Non che in corte non son, ma nè in Maganza.

98 Or, per maggior mio scorno, un fuggitivo
Dell’infelice38 figlio di Trojano,
Ruggier, che m’ha un fratel di vita privo
Ed un nipote con la propria mano,
Tiene in più onor che mai non fu Gradivo
Marte tenuto dal popol romano:
Tal che levato indi mi son, con tutto
Il sangue mio, per non restar distrutto.

99 Se me e quest’altri che avete qui meco,
Che sono il fior di casa da Pontiero,39
Uccidete o dannate a carcer cieco,
Di perpetuo timor sciolto è l’impero;
Che ogni nemico suo ch’abbia noi seco,
Per noi può entrar in Francia di leggiero;
Chè ci avemo la parte in ogni terra,
Fortezze e porti e luoghi atti a far guerra. —

100 E seguitò il parlare astuto e pieno
Di gran malizia, sempre mai toccando
Quel che vedea di gaudio empierle il seno,
Che le vuol dar Ruggier preso ed Orlando.
Alcina ascolta, e ben nota il veleno
Che l’Invidia in lui sparse, ir lavorando:
Comanda allora allora che sia sciolto,
E sia con tutti i suoi di prigion tolto.

101 Volse che poi le promettesse Gano,
Con giuramenti stretti e d’orror pieni,
Di non cessar, fin che legato in mano

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Ruggier col suo figliastro non le meni:
Ma per poter non dargli impresa in vano,
Oltre oro e gemme e ajuti altri terreni,
Promise ella all’incontro di far quanto
Potea sopra natura oprar l’incanto.

102 E gli diè nella gemma d’uno anello
Un di quei spirti che chiamiam folletti,
Che gli obbedisca, e così possa avello
Come un suo servitor de’ più soggetti:
Vertunno è il nome, che in fiera, in uccello,
In uomo, in donna e in tutti gli altri aspetti,
In un sasso, in un’erba, in una fonte
Mutar vedrete in un chinar di fronte.

103 Or perchè Malagigi non ajuti,
Com’altre volte ha fatto, i Paladini,
Gli spiriti infemal tutti fe muti,
I terrestri, gli aérei ed i marini;
Eccetto alcuni pochi c’ha tenuti
Per uso suo, non franchi nè latini,
Ma di lingua dagli altri sì rimota,
Ch’a nigromante alcun non era nota.

104 Quel ch’alla Fata il traditor promise,
Promiser gli altri ancor ch’eran con lui.
Fermato il patto, Gano si rimise
Nel fantastico legno con li sui.
Il vento, come Alcina gli commise,
Fra i lucidi Indi e li Cimmerii bui
Soffiando, ferì in guisa nell’antenna,
Ch’in aria alzò la nave come penna.

105 Nè men che ratto, lo portò quïeto
Per la medesma via che venut’era;
Sì che, fra spazio di sett’ore, lieto
Si ritrovò nella sua barca vera,
Di pan, di vin, di carne e infin d’aceto
Fornita e d’insalata per la sera:
Fe dar le vele al vento, e venne a filo
Ad imboccar sott’Alessandria il Nilo.

106 E già dall’ammiraglio40 avendo avuto
Salvocondotto, al Cairo andò diritto,
Con duo compagni, in un legno minuto

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Segretamente, e in abito di Egitto.
Dal calife per Gano conosciuto,
Chè molte volte innanzi s’avean scritto,
Fu di carezze sì pieno e d’onore,
Che ne scoppiò quasi il ventoso core.

107 In questo mezzo che l’Invidia ascosa
Il traditor rodea di ch’io vi parlo,
Come l’altrui bontà fu da lui rosa,
Chè poco dianzi il simigliava a un tarlo;41
Ira, odio, sdegno, amor facea angosciosa
Alcina, e un fier disio di strugger Carlo;
E quanto più credea di farlo in breve,
Tant’ogn’indugio le parea più greve.

108 Il conte di Pontier le avea narrato,
Che prima che di Francia si partisse,
Da lui fu Desiderio confortato,
Per ambasciate a lettere che scrisse,
Che con Tedeschi ed Ungheri da un lato,
Che facil fôra che a sue genti unisse,
Saltasse in Francia; e che Marsilio ispano
Saltar faría dall’altro, e l’Aquitano.

109 E che quel glien’avea dato speranza;
Poi venía lento a metterla in effetto,
O che tema di Carlo la possanza,
O sia mal di sua lega il nodo stretto.
Alcina che si muor di desïanza
Di pôr Francia e l’imperio in male assetto,
Adopra ogni saper, ogni suo ingegno,
Per dar colore a così bel disegno.

110 Ed è bisogno al fin ch’ella ritrovi,
Per far mover di passo il Longobardo,
Sproni che sieno aguzzi più che chiovi;
Tanto le pare a questa impresa tardo!
E come fece far disegni nôvi
Dianzi l’Invidia a quel cochin pagliardo;42
Così spera trovar un’altra peste
Che ’l pigro re della sua inerzia deste.

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111 Conchiuse, che nessuna era meglio atta
A stimularlo e far più risentire,
D’una che nacque quando anco la matta
Crudeltà nacque, e le rapine e l’ire.
Che nome avesse e come fosse fatta,
Nell’altro Canto mi riserbo a dire,
Dove farò, per quanto è in mio potere,
Cose sentir maravigliose e vere.




Note

  1. Parla dell’Imavo. Vedi la st. 38, v. 1. — (Molini.)
  2. Per lo stesso che Stima, Estimazione, e simili. Proposero quest’aggiunta al Vocabolario gli antecedenti editori; l’accettarono i compilatori bolognesi. E così dicasi quanto al senso del verbo Soccorrere nella seguente st. 15.
  3. Demogorgon, il genio della Terra, o piuttosto della Natura, da cui qualche antico poeta (vedi Boccaccio, nella sua Genealogia) derivò tutti gli Dei. Altri ne fece un mago potentissimo; e a questo sembra accostarsi l’Ariosto. — (Barotti; Molini.)
  4. Si rassetta o racconcia. Esempio da farne caso.
  5. Il Barotti così legge questo verso: «Tentò il suo danno il Mago fraudolento.» Il Molini annotava: «Allude alla nota storia del volo di Simon Mago, che la critica ha da lungo tempo giudicata apocrifa.»
  6. I fatti rammentati qui e nelle st. 13, 15, 24, 25 e 26, sono raccontati dal Bojardo nell’Orlando innamorato, e possono vedersi nel Berni, XXXVIII, 5 e seg.; XLII, 23 e seg.; XXXIII, 13 e seg.; IX, 79 e seg., ed altrove. — (Molini.)
  7. Nell’edizione procurata dal Barotti: «le tolse poi Gigliante.»
  8. Può notarsi la rima rinterzata in questi sei versi con una stessa parola e in un significato medesimo.
  9. Leggesi nel Barotti: «ch’osin;» senza che da ciò venga luce a questi versi, per sè non ben chiari, ove invece di animo, non vogliasi correggere animi: onde scenderrebbe naturalissima la spiegazione: Facciamo che l’offensore osi di nuovo offenderci, e che in altri animi cada il disegno di farci peggio: spiegazione che molto sarebbe, al mio credere, giustificata dalle parole «chi offeso l’ha» e «da molti» dell’ultimo verso.
  10. Vedi l’Orlando furioso, VII e X. — (Molini.)
  11. Sotto la protezione di Carlo imperatore.
  12. Esempio notabile. (Questa forma useremo ogni volta che ci accade richiamar l’attenzione di quelli che compilano vocabolari.)
  13. È la traduzione della formula: Ne quid respublica detrimenti capiat. — (Molini.)
  14. Nome di una Fiera famosa di Venezia per la festa dell’Ascensione. Ercole Bentivoglio si valse ancor egli di questa voce ad esprimere quella Fiera nel suo Capitolo della lingua Tosca: Che mi legar quando vi vidi in Sensa, — (Barotti.)
  15. Giuoco di parole sulla voce occidentale; cioè che tramonti, che cada. — (Molini.)
  16. Il Barotti legge: «nè che piaccia più al gusto, Crede.»
  17. Gli porria a’ piedi i lumi; come si farebbe ad un Santo. (Molini.) — Questo verso fa ricordare l’energico sarcasmo del Casa, nella celebre Orazione per la Lega, parlando dell’imperatore Carlo V: «Se tale egli è, accendetegli i lumi e adoratelo.»
  18. L’Imavo è la gran catena dell’Himalaja, che traversa l’Asia obliquamente. — (Molini.)
  19. Come presso i Latini. Ovid., Metamorf., II, 765, parlando della casa dell’Invidia: «Tristis et ignavi plenissima frigoris.» Ognuno può da sè confrontare la descrizione del poeta latino coll’imitazione qui fattane dal Ferrarese.
  20. Finge l’autore che sette siano l’entrate principali dell’Inferno, perchè sette sono i vizi capitali; e dice che questa di cui l’Invidia ha il governo, si mette, cioè si stima una delle più usate, cioè una delle più frequentate. — (Molini.)
  21. Vedi il secondo verso della stanza 27 del canto II.
  22. Parla dell’origine dei Franchi (popolo settentrionale), e gli suppone, dietro favolose tradizioni, discesi dagli antichi Trojani prima rifugiati sul Tanai, poi passati sul Danubio, indi sul Reno, di dove entrarono ad occupare le Gallie. — (Molini.)
  23. Esempio notabile.
  24. Il Barotti legge: «altra.»
  25. Non ci parve confacevole al senso la variante che trovasi nelle edizioni del Pezzana e del Molini: «Che quei.»
  26. Esempio notabile della voce franco a significare moneta, e da aggiungersi a quello di M. Villani.
  27. Così tutte le stampe; ma non è difficile che debbano dir concedute. — (Barotti.)
  28. Latinismo, per Pagare, Soddisfare; affine alle altre frasi: Scioglier l’obbligo o il voto.
  29. Il Barotti così legge questo verso: «Gli eredi far cader di sue ragioni.» Nè l’una nè l’altra lezione parrà chiara agli intelligenti; che meno ancora vorranno approvare l’interpretazione data nell’ediz. Molini: Cadere di ragioni, per Succedere nelle ragioni. Ad ottenere la lucidità che manca, converebbe così emendare il verso quinto: «Non potesse li lor figli o fratelli.»
  30. Coraggio per Cuore, l’usò più volte l’autore anche nell’Orlando Furioso. — (Molini.)
  31. Desiderio, re dei Longobardi, mosse guerra a papa Adriano, e fu disfatto da Carlo Magno. Tassillo, o, come altre volte lo chiama, Tassillone, fu duca di Baviera. — (Molini.)
  32. Congetturiamo doversi correggere, o almeno intendere Dania, rammentando quello che intorno al confondersi di queste due denominazioni scriveva il Giambullari: «La Dania da alcuni, con error non piccolo, chiamata Dacia.» (Stor. Eur., lib. III, § 2.) Sono poi note le continue aggressioni dei Dani contro i Britanni.
  33. Vivagni: propriamente estremità della tela: qui per estremità de’ lidi del mare, a imitazione di Dante, Inf. XIV e XXIII; e Purg. XXIV.— (Barotti.)
  34. Il Barotti: «Che con aranci e sempre verdi.»
  35. I bene olenti spirti: frase lat., aliti di buon odore; buoni e soavi odori. Lucrezio, l. 3: Spiritus unguenti suavis diffugit in auras. — (Barotti.)
  36. Leon Battista Alberti, il Bramante e Vitruvio, tre celebri architetti. — (Molini.)
  37. Eterne, incommutabili, perchè formate, secondo i Platonici, nella mente stessa di Dio.
  38. L’ediz. del Molini: «Del sfortunato.»
  39. La Moliniana: «di Pontiero.»
  40. Il Barotti ed altri: «Armiraglio.»
  41. Nella st. 37, v. 3.
  42. Voci francesi. Coquin paillard» furfante libertino. (Molini.) — Parla il poeta di Gano franzese co’ termini della sua nazione. — (Barotti.)
I Cinque Canti I Cinque Canti - Canto II