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52 i cinque canti.

Prender potesse, e quanto v’è di buono.

109 Cagion della sua pena l’era avviso
Che fosse, come avea visto l’effetto,
Il tener l’occhio tuttavia pur fiso,
E l’animo ostinato in un oggetto;
Ma quando avesse l’amor suo diviso
Fra molti e molti, ardería manco il petto:
Se l’un fosse per trarla in pena e in noja,
Cento sarían per ritornarla in gioja.

110 Di quel paese poi fatta regina,
Che venne a lungo andar pieno e frequente,
Perchè ammirando ognun l’alta dottrina,
Le facea omaggio volontariamente;
Nova religïone e disciplina
Instituì, da ogni altra differente;
Che, senza nominar marito o moglie,
Tutti empiano sossopra le lor voglie.

111 E delli diece giorni aveva usanza
Di ragunarsi il popolo li sei,
Femmine e maschi, tutti in una stanza,
Confusamente i nobili e i plebei:
In questa domandavan perdonanza
D’ogni gaudio intermesso alli lor Dei,
Ch’era a guisa d’un tempio fabbricata
Di varî marmi, e di molt’oro ornata.

112 Finita l’orazion, facean due stuoli,
Da un lato l’un, dall’altro l’altro sesso;
Indi levati i lumi, a corsi e a voli
Veníano al nefandissimo complesso;
E meschiarsi le madri coi figliuoli,
Con le sorelle i frati accadea spesso:
E quella usanza ch’ebbe inizio allora,
Tra gli Boemi par che duri ancora.

113 Deh! perchè quando, o figlia del re Oeta,
O di Atene o di Media tu fuggisti,
Deh! perchè a far l’Italia nostra lieta
Con sì gioconda usanza non venisti?
Ogni mente per te saría quïeta,
Senza cordoglio e senza pensier tristi;
E quella gelosia che sì tormenta
Li nostri cor, saría cacciata e spenta.

114 Oh come, donne, miglior parte avreste