Novelle (Bandello, 1853, I)/Parte I/Novella XXXIV
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cittadella di Cesena tagliar la testa. E i dui sfortunati amanti furono con general pianto di tutta Cesena sepelliti ne la chiesa dei frati minori.
Questo luglio ultimamente passato, essendo da la legazione sua del reame di Portogallo ritornato in Italia monsignor vescovo Chieregato, che a quel re da Leone decimo sommo pontefice fu per ambasciator mandato, passò per la terra vostra di Pandino per visitare il magnanimo signor Alessandro Bentivoglio e la di lui incomparabile consorte, la vertuosissima eroina la signora Ippolita Sforza, che da voi erano stati invitati a diportarsi in quei vostri bellissimi e ameni luoghi che lungo l’Adda avete, ove copiose peschere ci sono, e in quelli ombrosi boschi fiere d’ogni maniera, per prendersi con la caccia piacer grandissimo. Come voi sapeste la venuta del vescovo, che quella matina era partito da Lodi, così cortesemente l’andaste a raccogliere. Egli fatta che ebbe riverenza ai detti signori, voleva partirsi e andar di lungo a Crema; ma voi nol sofferiste a modo veruno. Come poi fu udita la messa, che alora era in ordine per dirsi, voleste che si riducesse in una de le camere, e levatisi i panni da cavalcare che facesse pensiero per quel giorno non partirsi. Desinato che si fu, s’entrò a ragionar del suo viaggio. Onde egli cominciò a narrare le navigazioni ch’ogni anno quel re fa fare a le isole che sono in quel paese nuovo, ove tutto il di il suo imperio va felicemente accrescendo. Egli mostrò ramenti d’oro, perle, pietre preziose ed altre belle cose da quei paesi recate. Mostrò anco alcuni idoli maestrevolmente lavorati di mosaico, che quei popoli adoravano, che omai per la più parte son fatti cristiani. E così narrando di molte cose che aveva inteso, venne a dire d’alcune genti le quali la state e il verno vanno sempre ignude, così uomini come femine, e che tra loro ci sono di bellissimi uomini e vaghe donne, con tutto che il colore de le carni loro penda alquanto a lo olivastro. Ma quello che tutti ci fece meravigliare ed insiememente ridere fu che ci narrò un costume molto nuovo e forse più non udito. Egli disse che giungendo un straniero in quelle lor ville, hanno in usanza d’onorarlo a questo modo: sei o sette degli abitanti di quei luoghi che si conoscono aver per moglieri le più belle donne che siano tra loro, come il forestiero è giunto, gli presentano le proprie mogli a ciò che a sua scelta sceglia quella che più de l’altre gli piace; e quella resta la notte a giacersi con lui ed egli amorosamente con quella la notte si trastulla. Per questo il marito d’essa ritenuta è più stimato ed avuto in prezzo degli altri, e si pensano con questo grandemente onorar gli ospiti loro, di maniera che gelosia tra quelle semplicissime e rozze genti non ha luogo nè mai mette lor l’arme in mano. Alora messer Tomaso Castellano, cittadino di Bologna e segretario del signor Alessandro, uomo molto faceto e festevole, interrompendo la narrazione del vescovo rivoltossi a me e mi disse: – Che ti pare, Bandello mio, di cotesto costume? che ne dici tu? Crederesti mai che Gandino bergamasco se capitasse in quelle isole con sua moglie, che ci potesse durare? Io mi fo a credere che se colà arrivasse l’imperadore, non che un semplice forestiero, che mai egli non gli presenteria la sua moglie, nè si cureria esser in questo più apprezzato che gli altri. – A questo tutta la brigata cominciò a ridere, perciò che da tutti la strana e sospettosa natura e la gelosia del bergamasco era pienamente conosciuta. Monsignor vescovo veggendo tutta la compagnia piena di riso, domandò chi fosse cotesto Gandino. La signora Ippolita vòlta al Castellano gli disse: – Messer Tomaso, poi che voi avete messo in campo Gandino, a voi tocca e per forza astretto sète a dire chi egli sia, e quali siano le condizioni sue e i modi ridicoli che usa, a ciò che monsignor nostro non si meravigli de le risa che in tutti ha visto. – Messer Tomaso alora disse quanto gli occorse, ancor che la metà non esplicasse de la castroneria, melensaggine e mellonaggine di Gandino, e conseguentemente degli sfortunati e miseri gelosi, che presumono esser Salamoni e fanno tuttavia le maggiori e segnalate pazzie che si possino imaginare. E veramente il morbo de la gelosia è una micidial peste, che di modo ammorba il petto di colui a chi s’appiglia che non solamente il geloso non ha mai bene, ma nè anco lascia altrui riposare. Chè se il marito divien geloso de la moglie, egli in tutto perde ogni quiete e sempre miseramente si tormenta, e in tal maniera la povera moglie travaglia e afflige che ella invidia ai morti. È ben vero che ci sono di quelle sì sagge ed avedute, che come si accorgono che i mariti contra il devere ingelosiscono, gli danno ciò che vanno cercando, ponendo lor in capo l’arme dei Soderini di Firenze. Ora avendo io per commission vostra scritto quanto il Castellano narrò e in forma d’una novella ridotto, quella come frutto nato ne l’amenissimo ed aprico orto del vostro Pandino vi mando e dono, supplichevolmente pregandovi che degnate farla vedere al vostro e mio anzi pur nostro Soavissimo, che così volentieri le cose mie legge. Basciovi le mani e prego nostro signor Iddio che vi doni quanto desiderate. State sana.
Poi che, signora mia, mi comandate che io, per sodisfare al nostro reverendissimo monsignore, alcuna particella dica dei segnalati costumi del nostro ser Gandino bergamasco, che solamente a nomarlo v’ha fatto ridere, io che desidero in molto maggior cosa di questa ubidirvi, alcune cosette de le sue vi dirò, mettendovi prima innanzi gli occhi alquante sue taccherelle, da le quali il rimanente de la sua traditora natura di leggero potrete imaginarvi. Suole il mordace e proverbioso Giovanni Montachino spesse fiate, quando a ragionamento s’abbatte con chi sia, dire che questo mondo è una piacevol gabbia piena d’infiniti di varia specie pazzi, e che assai spesso coloro che più saper si persuadeno sono i men savii e fanno le più solenni e maggior pazzie e i più bei stracolli del mondo. E sovra questa materia narra egli di molte ridicole cosette, che afferma a’ nostri giorni esser avvenute. Io m’ho sempre dato a credere che egli perciò che meravigliosamente si diletta dir mal di ciascuno e par ch’ingrassi a mordere e proverbiar questi e quelli, che le sue pappolate si facesse su le dita, de le quali come sapete ne è pur troppo divizioso. Ma da pochi dì in qua io son uscito di questa mia mala credenza e porto ferma openione che egli ben sovente dica il vero e che ogni giorno avvengano di belle cose, de le quali si vorrebbe tener registro come fanno i mercadanti de le lor scritture. Volendo adunque di ser Gandino ragionare e cose dirvi, le quali s’io non avessi veduto, ed altri medesimamente che in questa bella compagnia sono, non so come indur mi potesse a crederle già mai; vi dico che a Bergamo e per il contado sogliono per l’ordinario gli uomini esser molto trafficatori, come sono i genovesi. E questo avviene perchè la città loro e quasi tutto il territorio è montuoso, aspro, orrido, sassoso e per la più parte ermo e sterile di modo che, se non fosse la fertilità del piano dei luoghi de la Lombardia vicini, non si troveria vettovaglia in Bergamasca per tre mesi l’anno. Per questo conviene che con industria e sottigliezza d’ingegno cerchino il vivere e s’acquistino il modo di mantenersi e a’ casi loro proveggiano con l’altrui soccorso. Indi si vede che degli otto i cinque se ne vanno qua e là per il mondo, guadagnando con sudore e fatica grandissima ciò che ponno, e risparmiando più che sia possibile nel vestir e mangiare, quando mangiano a le spese loro, chè se sono in casa d’altri divorano come bei lupi. E certo io osarei santamente giurare che non sia nel mondo parte, quantunque lontana e rimota, ove non ci sia alcuno bergamasco che traffichi. Fanno poi volentieri del grossolano e quasi del buffone, ben che magramente; e per venire a l’intento loro sopportano mille ingiurie, e sono vie più ghiotti del danaio che l’orso del mele. Essi di rado si fanno cortegiani, non essendo molto atti agli uffici de la corte, chè non piace loro servir con aspettazioni cortegiane e lunghe, attendendo di continovo a la certezza del profitto particolare e poco de l’altrui curando; nè credere che ti servissero se non con il pegno in mano. Sono poi per il più troppo sospettosi, invidi, ritrosi, commettitori di risse e discordie, rapportatori, maldicenti e pieni sempre di nuove chimere, con mill’altri difetti e mancamenti dei quali un solo guastarebbe ogni uomo, quantunque pieno d’ogn’altra bontà; di maniera che se dui bergamaschi si trovassero di brigata in una corte, sarebbero facilmente atti a porla in combustione e garbuglio e voltarla tutta sossopra con i loro ghiribizzi, fantastiche chimere ed imaginarie invenzioni. Chè tutto il dì altro non fanno che farneticare ed imaginarsi questa cosa può essere e quella no, e da questi suoi capricci giudicano senza punto di giudicio quanto loro cade ne la fantasia. Mordeno poi sogghignando il compagno troppo volentieri e si burlano del tutto. Hanno anco del presuntuoso più che le mosche ne l’autunno, nè mai il padrone può così segretamente con chi si voglia favellare che essi non vogliano esser testimonii di quanto si dice; e dubitando che egli non sappia rispondere a le materie proposte, li pigliano la parola de la bocca e rispondono ciò che lor pare il meglio, o bene o male che si dicano. Come anco il padrone apre una lettera, egli così tosto non l’ha aperta che il bergamasco con l’occhio ingordo tutta non l’abbia trascorsa. Sovviemmi che quando questi miei signori Bentivogli signoreggiavano Bologna, che un bergamasco fece certo contratto col signor Giovanni Bentivoglio di condurre dal Bresciano nel Bolognese mercanzia di ferro e di rame, e perchè esso mercadante veniva spesso in cancelleria, il signor Giovanni mi comandò che io avvertissi che il bergamasco non mettesse le mani su le lettere. Il che io diligentemente feci, e più volte m’accorsi che egli voleva pur leggerne alcune; onde fui sforzato apertamente dirgli che non mettesse mano a lettera veruna. Che siano sospettosi ed ombrosi più che i cavalli castrati, a questo ve ne potete avedere che se veggiono dui o tre a stretto ragionamento insieme, subito il capriccio gli entra nel capo che di lor si parli. Nel principio che un bergamasco entra in una casa è tutto umano, affabile, riverente, desideroso di servire, mansueto ed umile. Ma come ha fermato il piede, non conosce nè benevogliente nè amico. Ora che vado io sì minutamente raccontando le condizioni bergamasche, se di quanto vi parlo vi posso con brevi parole dar il pegno in mano? Il più di voi che qui sète conosce lo stranio, volli dir strenuo, soldato Fracasso Dolce da Bergamo, Fracasso, vi dico, che per fuggire il disagio si ripara in casa del signor Gian Maria Fregoso e dei signori suoi figliuoli: specchiatevi in lui e vederete la vera idea di quanto v’ho detto. Egli a punto a punto rappresenta il tutto, come la mosca si mostra simile a la mosca. Ma se vantaggio v’è, credo io che sia in cotestui del quale intendo ragionarvi, perciò che egli di gran lunga avanza tutti gli altri come il più solenne che si trovi. Non dirò già che non ci siano alcuni bergamaschi costumati, discreti, modesti e gentili, portando ferma openione ch’io direi bugia. Ed io non vorrei che mi fosse mosso lite e mandato un cartello da combattere, essendo uomo di pace. Perciò vi dichiaro qui publicamente che io non parlo di tutti in generale chè sì sciocco non sono, ma intendo di molti di loro e massimamente dei nati e nodridi nel contado. Chè in Bergamo certamente ho io praticato molti gentiluomini ottimamente qualificati e molto vertuosi Ma dui o tre fiori non fanno primavera. Nè quanto io ora narrerò sarà per novellare; ma solo scuserà, ragionando, in questa amplissima e freschissima sala intertenerci fin che passi questo ardente caldo che la stagione ci apporta. Così vi darò un mescuglio di molte cose ridicole ma vere. Dico adunque che non è molto questo Gandino, nato nel contado de la città di Bergamo d’umil sangue e popolare, poi che in varie parti e regioni d’Europa fu stato a’ servigi di molti e vide che profitto nessuno non traeva, non potendo a Bergamo per molti errori commessi ritornare, e massimamente per aver ingannata una gentildonna di certi anelli di valuta di dugento ducati, s’acconciò con la signora Clarice Malaspina, che era restata vedova per la morte del marchese Fedrico Palavicino signor di Gibello e d’altri luoghi, e quella serviva in tener conti de le entrate e de le spese ed altri maneggi de la casa. Egli di già s’era essercitato in cose mercantili, e di tener libri di conti era molto pratico. Nel principio che entrò in casa fu da tutti ben veduto, perciò che sapeva navicar sotto acqua e dissimular i vizii suoi accomodandosi con gli altri; ma troppo non stette che cominciò a dar il saggio de la sua cattiva natura. Egli fieramente s’innamorò di una donzella d’essa signora Clarice, che per l’amor di Dio aveva presa in casa, perchè i parenti di quella erano poverissimi. Ella era non molto bella, ma un poco appariscente ed allegra molto, e con tutto questo, altiera, superba e ritrosa. E come ne le corti si suole, aveva sempre dui e tre innamorati. Al bergamasco nel principio, che che se ne fosse cagione, non dava orecchie, del che egli indiavolava e faceva fuor di misura l’appassionato. E così innanzi andò la bisogna che egli miseramente ingelosito venne a romore con ciascuno, non solo con chi parlava con la giovane, ma con chi pur la guardava, onde ne furono per riuscire di molte questioni. Ed ancora che ella poco l’amasse, perchè diceva che fieramente il naso gli putiva e che non poteva sofferir quel gran puzzo, nondimeno egli che era presuntuosissimo ed ostinato come un mulo, non mancava di continovo di tenerla sollecitata con lettere e messi, ed ogni volta che poteva parlar seco le era sempre ai fianchi e le faceva tutta quella abbietta servitù che uomo possa far a donna. E forse avvertito del puzzo del naso da altri, o che ella gliene facesse motto, cominciò tutto il dì a profumarsi di zibetto e portar altri odori a dosso. Ma tanto non sapeva fare che egli non sonasse di continovo il corno de l’Amostante, e sì stranamente putiva che talora venticinque e trenta passi lontano, quando si scaldava o da soverchia fatica sudava, il lezzo caprino del suo puzzolente naso si faceva sentire. Ora non ostante questo, tanto dietro a questo suo amoraccio si riscaldò e sì seppe dire e fare, che la signora Clarice, pensando levar via i romori e le querele de la casa che tutto il dì la molestavano, gliela diede per moglie. Maritato che fu e divenuto possessore di colei che tanto desiderata aveva, se prima era geloso, alora divenne gelosissimo, e sì era da la gelosia offoscato che gli pareva che non gli uomini, ma che le mosche volanti per l’aria devessero questa sua moglie portar via ed inghiottirla e trangugiarla. Onde divenne insopportabile e acquistò in pochi dì la malevoglienza dei grandi e piccioli, e da tutti era odiato come il fistolo, non sapendo più moderar le passioni. La giovane che nodrita era in corte ed avvezza a vivere in libertà, e ragionare e burlare scherzando e motteggiando con ciascuno senza rispetto, veggendo la fiera gelosia del marito viveva molto mal contenta, nè ardiva nel principio sfogarsi con persona, perciò che le era stato detto che ella verrebbe a queste zuffe, e da molti fu essortata a non prenderlo per marito, perchè se ne troveria la più mal contenta donna che vivesse. Ma poi che egli senza fine ingelosito non voleva che ella con persona favellasse, e quando le altre donzelle giocavano o ballavano non permetteva che di compagnia si trastullasse, e tutto il dì acerbamente la sgridava e proverbiava, ella non puotè tanto sofferir e celar la sua mala contentezza, che vinta la sua pazienza fu astretta a lamentarsi, e a dir più volte a molti: – Io mi truovo così mal sodisfatta di questo mio marito che io non so che mi fare. Egli diventa pazzo e più fastidioso che il mal del corpo. E certamente con ragione mi fo a credere che non si possa truovar uomo più sospettoso e fantastico di lui. Egli non mi si parte da lato già mai e vuol saper tutto ciò ch’io faccio e parlo, e di più vuole che io gli dica tutti i miei pensieri. Ma io sarei ben di lui più pazza e da incatenare se io dicessi a lui ciò che io mi penso. Sì sì, egli saperà i miei pensieri: mi duol pur troppo che io gli debbia dire a chi mi confesso la quaresima. – Averebbe ella voluto, come prima faceva, star su l’amorosa vita ed intertenersi cicalando con questo e quello, e talora così in fuga dare e tòrre di quei dolci baciucci dolci e saporiti; ma ser Gandino non l’intendeva di cotal maniera, chè a pena in Francia averebbe sofferto che il delfino l’avesse basciata. Le faceva adunque in capo i maggiori romori che mai si sentissero, nè da canto a lei si partiva già mai se non quanto era necessario che per i servigi de la padrona talora se ne allontanasse. Egli fu più e più volte sentito lamentarsi seco e dirle quasi piangendo: – Core del corpo mio, questa mi par pur una gran cosa, che io non vorrei mai esser altrove che dove voi sète e che a voi rincresca così lo starvi meco e che più vi piaccia la compagnia de le donzelle, che la mia che vi amo assai più che la propria vita. Non vedete voi che quando quelli di corte se ne stanno su balli e feste, che io me ne fuggo nè punto mi curo di quei piaceri per starmi vosco? Chè certo quando io son con voi, a me par d’esser in paradiso. – Mostravasi ser Gandino ogni giorno vie più di questa sua moglie senza fine acceso, e la vestiva più pomposanente che al grado loro non era convenevole, con ori battuti su le vestimenta e catene e gioielli, che quanto di profitto traeva le metteva a torno. Aveva buon salario da la padrona, la quale si contentò che facesse mercanzia e si prevalesse dei servidori e cavalli de la casa, onde si mise a mercadantar formenti, vini, ogli ed altre cose. E perchè sapeva cavare il sottil dal sottile, in breve tempo guadagnò assai danari, i quali di nuovo impiegando in mercadanzia andava accrescendo tuttavia le sue facultà. Cominciò in Lombardia una usanza di roboni da donna così maritata come vedova, che però non usavano se non donne di grado. Venne voglia a la moglie del bergamasco averne uno con puntali d’oro a le maniche ed al marito suo lo disse. Ma don Pietro rettor di Santa Croce il ripigliò e gli mostrò che si farebbe tener più pazzo di quello che era, di modo che a lui e a la moglie levò di capo cotal appetito. Era talvolta mandato da la signora Clarice a Parma e in altri luoghi secondo che i bisogni occorrevano. E non crediate che perdesse tempo ne l’andare e nel ritorno. Egli usava ogni diligenza e tanto s’affrettava che spesso da mezza notte, ancor che fosse di verno, veniva a Gibello. Di che le guaste cavalcature ne rendevano testimonio, facendo in un giorno quel viaggio che gli altri farebbero in dui. E queste cose faceva egli perciò che come stava un dì senza la moglie, gli pareva che gli devesse esser rubata. Onde per meglio farlo smaniare, furono alcuni di corte che di modo il presero in berta che ogni dì gli facevano alcuna beffa, mostrando esser de l’amor de la moglie di lui forte accesi. Ed ora amorosamente la vagheggiavano, ora le dicevano un motto ed ora di nascosto le parlavano, di modo che egli arrabbiava ed ogni dì era a romore con lei e con quelli di casa. Ella molto affettuosamente pregò alcuni i quali io conosco, che per amor di Dio non le dicessero cosa di questo mondo, perchè Gandino la tormentava d’ogn’atto e cenno che vedeva, e che mai non cessava acerbamente di sgridarla; ma ciascuno pigliava piacer di tormentarlo. Per tutto questo non restava la buona moglie che non si intertenesse come comodamente poteva con questi e quelli, e in effetto mostrava poco curarsi di quanto il marito le diceva. Andava Gandino talora a Milano ove la signora aveva alcune liti, e nel viaggio altro mai non faceva con il servidore che seco di compagnia andava se non parlare di questa sua donna, e diceva infinite volte: – Oimè, ora che fa la mia cara consorte? chi le attende? chi la serve? chi ha di lei cura? Io so bene quando non ci sono come ella deve esser trattata e quanto bisogneria che io ci fossi, perchè in quella corte è pochissima discrezione. La poverella mi deve certamente desiderare. Caminiamo di grazia e non perdiamo tempo a ciò che a buon’ora arriviamo a casa, chè io so bene che senza me ella non sta bene e patisce pur assai. – E così l’appassionato Gandino farneticando rompeva il capo, cavalcando, a colui che seco era, e voleva che il cavallo tanto caminasse quanto il suo cervello volava, chè aveva più ale chimeriche che non hanno ale i parpaglioni, così variamente da la maestra natura dipinti. Ma, che peggio mi pare, egli era sì impazzito dietro a questa sua moglie che in Milano mai non parlava con i senatori, avvocati, procuratori, notari o altri, che la moglie non ci intervenisse, dicendo a tutti quanto era gentile e bella, e da la sua padrona favorita, di maniera che veniva in fastidio a tutti e si faceva conoscer che era di poca levatura e che aveva scemo il cervello, avendo venduto tutto il pesce che pur una scaglia sola non era ne la zucca rimasa. Onde fu la signora Clarice da un onorato cavaliero e conte avvertita che non mandasse più Gandino a negoziare, perciò che tutti i negozii suoi erano in parlar de la moglie e de le sue mercadanzie che faceva, e poi ritirarsi con la signora sua consorte. Chè bene spesso, quando si trovava in parte ove la condizion sua non si sapesse, egli soleva farsi gran barone e dire che a casa sua era stato ricco, ma che trasportato da la giovinezza e amore aveva logorato il suo dietro a bellissime gentildonne ed al giuoco, e che a casa non voleva tornare se non straricchiva, come sperava in breve, con le sue mercanzie, quasi che fosse stato Agostino Ghisi o Ansaldo Grimaldo. E così ser Gandino si pasceva di queste sue chimere, lodandosi sempre e dicendo che da tutti era onorato ed apprezzato se non a Gibello. Diceva anco più volte ai servidori ed altri che troppo non l’avevano in pratica, che credeva bene che a Milano ed altrove gli era fatto onore per rispetto de la signora Clarice, ma che molto più era rispettato per la sua gentil natura e buone maniere, facendosi a posta sua cristeri d’acqua fredda. Come già v’ho detto, suo suocero era poverissimo uomo; ma Gandino per magnificarsi, quando gli scriveva, nel sovrascritto de la lettera scriveva così: – Al molto magnifico suocero e padre mio onorandissimo, – titolo che solamente ad onorevoli gentiluomini e cavalieri dar si costuma. Con questi suoi appetiti di grandezza era entrato in un fantastico umore, che averebbe voluto che, avendo la signora Clarice un’onorata madrona per governatrice de le damigelle, avesse mandata via quella e fatta sua moglie per tal donna d’onore, e che a mensa se l’avesse tirata appresso ed onorata come madrona di grado. E a questo non mancò egli con mille sue fantastiche invenzioni. Ma il forsennato non s’accorgeva che cercava un corvo bianco e che l’altre donzelle erano tutte nobili e di più chiaro sangue de la moglie. E perchè elle quella non onoravano nè tenevano per maggiore, come egli cercava e voleva, altro mai non faceva che biasimarle e dirne tutti i mali che di loro ne la mente gli cadevano. Medesimamente averebbe voluto che quanti gentiluomini erano e praticavano in corte avessero adorata questa sua Zanina, chè così sua moglie aveva nome, come i turchi adorano l’arca di Maometto; e da l’altro canto n’era tanto geloso che non poteva sofferir che veruno la guardasse, di modo che Salomone non averebbe saputo trovar mezzo d’acquetar il cervello di costui. Aveva poi una solenne vertù, che aveva la più velenosa lingua del mondo, perchè di quanti ufficiali ed altri uomini e donne di casa riportava male a la padrona, trovando tutto il dì, come a Genova si costuma a dire, varie moresche per metter ciascuno in disgrazia de la signora, non potendo smaltire che altri più di lui nè a suo pari fosse da lei accarezzato. Ora voi sapete bene esser comune usanza che le damigelle de le signore, le feste e gli altri dì quando sono scioperate e che vien a casa loro onorato forestiero, che per onorarlo e festeggiarlo si danza, si suona, si canta, si gioca a’ giuochi festevoli e si sta sui piaceri, cicalando insieme allegramente di varie cose; ed ancora che non ci sia amore, si costuma perciò, per l’ordinario, da tutti i galanti gentiluomini far il servidore con le damigelle e servirle ed onorarle, pigliandone una per sorella, l’altra per cognata, l’altra per figliuola, l’altra per zia e talora in burla per consorte, e con simili titoli intertenersi e donarsi dei favori. Ma quando tal caso avveniva, non voleva Gandino che sua moglie ballasse, che con stranieri tenesse ragionamenti, nè di brigata con l’altre si diportasse, anzi ne faceva romore con la signora e dicevale che le sue donzelle erano mal costumate, presontuose, innamorate e troppo baldanzose, e che non stava bene che tanto con gli stranieri ed altri si dimesticassero. Tuttavia il buon Gandino, quando era mandato da la padrona in altri luoghi, era il primo a far l’innamorato con questa e con quella e molto forte dimesticavasi, ed anco in alcuni monasteri aveva de le pratiche amorose, e dava e riceveva doni e tutto ’l dì scriveva lettere d’amore; il che la moglie molto ben sapeva e mostrava curarsene assai poco. Ella aveva, innanzi che si maritasse, tenuto un figliuolo a battesimo ad un soldato di Gibello che era piacevole e buon compagno, e, come si costuma, si chiamavano compare e comare. Di questo entrò in gelosia grande il bergamasco e non volle che Zanina lo chiamasse più per compare nè che parlasse seco, di modo che volle che si rompesse il santo comparatico. Diceva poi mille volte il dì che chiaramente conosceva che quando egli non ci era, che sua moglie aveva la libertà di far come l’altre e che nessuno l’averia gridata nè ritiratala da questo viver largo, ma che tuttavia ringraziava Dio che conosceva d’aver per moglie una saggia giovane che non andava dietro a queste cortegianerie. La signora Clarice che era troppo buona e che si pensava con la sofferenza e pazienza sua indurre Gandino a viver realmente e da costumato cortegiano, gli diceva spesse volte che s’ingannava e che attendesse a vivere in pace; e che se pur voleva governar sua moglie a suo modo, che facesse ciò che più gli piaceva, e lasciasse la cura a lei de le donzelle, chè ben le saperia governare, e che tante ne aveva avute e maritate ne le quali, la Dio mercè, non era mai accaduto un minimo scandalo. Ma egli non metteva mente a cosa che la padrona gli dicesse, e veggendo che non era udito e che i ricordi suoi non si mettevano in essecuzione, di stizza imperversava e diceva ciò che a bocca gli veniva così contra quelli di casa come contra la signora. Nè per altro cercava egli che le donzelle fossero da la padrona tenute chiuse come monache, se non per far che sua moglie non avesse cagione di rammaricarsi e dirgli come talora soleva: – Le mie compagne se ne stanno in festa e in gioia, ed io qui in camera da voi son tenuta serrata come una romitella, e pure devereste esser contento che io con le mie compagne mi trastullassi, chè se bene vi son forestieri, io non ho già mai veduta cosa meno che onesta. – Ma egli non la voleva intendere e con sue magre ragioni si sforzava d’acquetarla. Venne un dì a Gibello un grandissimo prelato giovine, con bellissima compagnia seco, ad albergar in ròcca. La signora Clarice cortesemente il raccolse, e per più onorarlo fece invitar molte belle gentildonne a mangiar matina e sera con esso prelato, e fatti venir suoni eccellenti fece ogni dì, mentre che il prelato ci dimorò, ballare. Il bergamasco a cui queste feste non piacevano, non volle mai che la Zanina venisse in ballo; il che fece che non solamente quelli di casa che già sapevano il suo male, ma i forestieri tutti s’accorsero che egli aveva freddo ai piedi. Un’altra volta al tempo del carnevale ballandosi ed essendo ella in ballo, a la fine de la festa cominciò a farsi il ballo del torchio. Come Gandino vide cominciarsi questo ballo, entrò in tanta gelosia che assalito da subita còlera, senza considerar ciò che si facesse, andò e levò la moglie di mano a uno con cui ballava, e la fece ritirar a la camera con biasimo di quanti v’erano e grandissimo sdegno. Ma egli non si curava che altri mormorasse di lui, nè mai tanto lo seppe la signora gridare che volesse far altrimenti che a suo modo. E perchè, come v’ho detto, era sospettosissimo, andava tutto il dì per casa fiutando come un can segugio per spiar tutto ciò che si faceva, e mille volte l’ora in qua e in là trascorreva, che pareva proprio che fondato fosse su l’argento vivo, o vero che morso fosse stato da una de le tarantole de la Puglia. Essendo adunque Gandino di questo modo concio, o fosse vero o fingesse, mai non riposava. Sogliono communemente le damigelle che ne le corti s’allevano, quanto più sono di poveri parenti e di vil sangue nate, tanto più far le grandi e volersi sempre porre innanzi a le meglio nate di loro. Così faceva Zanina, che nel modo suo del vivere pareva a punto che uscita fosse da l’illustrissima schiatta dei nobilissimi signori Vesconti, e poche donne vedeva de le quali non dicesse male, come se ella fosse stata la più nobile e la più bella del mondo. Come fu maritata, pochi giorni passavano che non si lamentasse de la doglia del capo, e se ne stava uno e dui giorni in camera senza servir la padrona nè far cosa alcuna. In questo tempo Gandino da lato a lei punto non si partiva e mostrava in apparenza aver maggior dolor di lei. Era divenuto maggiordomo Gandino de la signora Clarice, ed ogni volta che la moglie si mostrava inferma e stava ritirata in camera, egli la faceva servir come una prencipessa e le faceva portar le sue vivande in piatti d’argento e coperti, e voleva che mentre mangiava i servidori la servissero a capo scoperto. Il che mi abbattei una volta a veder essendo a Gibello, e mi parve molto strano veggendo che in servir a tavola la signora Clarice stavano coperti. Zanina che era scaltrita e più maliziosa d’una volpe, per meglio confettar il marito che era un augellaccio e nuovo squasimodeo, e talora se un’oncia di male sentiva, fingeva averne più di cento libbre, e se ne stava tutto ’l dì in camera con il Petrarca, le Centonovelle o il Furioso, che di nuovo era uscito fuori, ne le mani, o leggeva la Nanna o sia Raffaella de l’Aretino, di maniera che bene spesso ser Gandino, a ciò che la moglie troppo leggendo non s’affaticasse, faceva egli il lettore, e con quella sua goffa pronunzia bergamasca le leggeva tutto ciò che ella comandava. Così, tanto che ella diceva sentirsi indisposta, egli voleva che in camera mangiasse e la faceva meglio servire che non si serviva la signora Clarice. E perchè egli era maestro di casa e pagava i salariati, ciascuno cercava farselo amico. Venne una volta a Gibello maestro Girolamo Carenzone medico eccellentissimo, che per l’ordinario stava in Cremona sua patria, ma medicava tutti i signori Pallavicini, essendo alquanto infermo il signor Gianfrancesco figliuolo de la signora Clarice. Ser Gandino teneva compagnia e cercava farselo domestico, a ciò che venendo il bisogno avesse buona cura de la Zanina. Il Carenzone che era avveduto e vedeva il pelo nel bianco de l’ovo, cominciò a prendersi gran piacere de le sciocchezze gandinesche e sempre il lodava, dandogli, come si dice, del dito sotto la coda. Onde una volta disse al medico: – Io veggio bene, messer mio, che voi sète persona di giudicio e conoscete ciò ch’io vaglio; ma in questa casa io non sono conosciuto. Nè pensate ch’io facessi questo ufficio di maggiordomo, se la signora non me n’avesse più che pregato, chè io sono uomo da altro mestiero che governar quattro gatte. Io ho il siniscalco che attende a questi servigi di casa, chè il mio proprio ufficio è d’esser consigliero de la signora e attender al governo de le cose del suo stato. – Di modo che lo scemonnito era la idea del buon Trionfo da Camerino. Nè pensate che ne le tavole ove la signora Clarice col signor suo figliuolo e molti gentiluomini mangiavano, fosse portata vivanda alcuna o manicheretto veruno delicato che la moglie di cotestui non n’avesse parte sua. Avendo poi questo animale udito dire che la signora Ippolita marchesa di Scaldasole usava ogni giorno bere un gran bicchiero di pesto di cappone per mantener morbide e belle le carni, a ciò che tale la Zanina divenisse, bene spesso senza altra cagione se non dicendo che de lo stomaco è alquanto indisposta, per quindici o venti dì le fa pigliare ogni matina una piena tazza di brodo di cappone consumato, con le polpe ben peste e distemperate con zucchero fino e cinamomo polverizzato mescolato insieme. Ed essendo una volta ripreso da le vecchie de la casa di queste sue dilicatezze non convenevoli, altro non sapeva che rispondere se non che la Zanina era forte debole e che non poteva masticare. E perchè talora sentiva pure che la signora Clarice mormorava di questi suoi fecciosi modi che egli e la moglie usano, e che se prendessero del loro che non la tagliarebbero così larga, egli fu sentito dire a la moglie: – Zanina mia cara, lascia pur dire a chi vuole, e attendi a conservarti, chè a la fine questi invidiosi quando averanno ben detto creperanno d’invidia. – Sovviemmi che non è molto che io era andato a Gibello per fare un certo accordo, e meravigliandomi molto d’alcune cose che io vidi fare a questo ser Gandino e a sua moglie, che il signor Gianfrancesco figliuolo de la signora Clarice, fanciullo molto gentile e pronto, mi disse: – Tomaso, non riguardare a le maniere e sozzi costumi di questo villano bergamasco, che fa il prence in questa casa e par proprio che sia dei reali de la Francia, tanto si tiene e fa il grande. Egli è un gran tristo e maldicente, e si crede che l’uomo non sappia chi egli si sia e che sua moglie è figliuola d’un poverissimo berrettaio; che se la signora mia madre non l’avesse ritirata in casa per amor di Dio e maritata, ella sarebbe ita mendìca. Ora tien più riputazione che non fanno le signore mie sorelle. Tu dèi sapere che in questi caldi, come s’è desinato e che la signora è ritirata in camera e le donzelle si metteno a cucire e far altri suoi lavori di trapunto come sogliano far le fanciulle, il bergamasco chiama la moglie e seco se ne va a la sua camera, dove se ne sta in piacere due e tre ore sovra il letto come se fosse il signor Pietro Pusterla con la signora Clara sua moglie, di modo che non ci è persona in questa casa, per grande o picciola che si sia, a cui non siano in grandissimo fastidio. E più e più volte la signora gli ha sgridati di queste odiose e villanesche maniere di ser Gandino, ma nulla è giovato, perchè la signora è troppo buona, e pensa, perchè Gandino ha la pratica de le cose nostre, non ne trovar un altro meglior di lui, il quale con queste sue bergamascherie attende a le spese nostre a farsi ricco, e quando sarà grasso se n’anderà con Dio. – Io mi ammirai molto forte che il fanciullo mi dicesse questo, e giudicai che tutti conoscessero questo ser Gandino e la moglie. Si truovava alora a Gibello in corte un certo garzonaccio cresciuto innanzi agli anni, il quale molto apertamente faceva l’appassionato con Zanina e le stava tutto il dì fitto ne le coste, di modo che ella a cui piaceva assai d’esser vagheggiata, non sapendo stare, come si dice a Genova, senza galante o intendimento, stranamente con lui si domesticava. Egli era figliuolo d’un barbiero, e s’era acconcio in casa per staffiero del signor Francesco. Ma perchè sapeva far alcune calate nel liuto, a Zanina venne voglia d’imparar a sonare. Ser Gandino per sodisfarle il prese di modo a favorire che lo fece far cameriero d’esso signore Gianfrancesco ed accrebbegli il salario, e questo ad instanzia de la moglie che del garzonaccio era innamorata. Bisognava pensare che in quella corte ella faceva crescere i salarii a chi le piaceva. E perchè il marito una volta accrebbe salarii ad un suo servidore senza farne motto a lei, ella entrata in còlera lo garrì aspramente dicendo: – Perchè senza me avete voi fatta cotesta cosa? guardate che non lo facciate più. Io conosco meglio di voi i buon servidori che meritano d’essere accarezzati. – Il garzonaccio tuttavia attendeva ad insegnarle sonare ed aveva gran comodità di dirle i casi suoi. Ella poi tutto il dì al marito il commendava per il più servigiale e discreto che in casa fosse, e quando deveva star in camera a cucire e far come le altre donzelle facevano, ella una e due ore con il liuto in mano, e bene spesso la sera senza lume e senza compagnia, in un canto di sala s’interteneva col maestro. Era cotestui molto grande e grosso che pareva un gran baccalare, e credo che per copertoio da letto averia benissimo servito. E perchè parve pure che l’altre donzelle si avvedessero di questo loro amoraccio, e massimamente che come ella il vedeva tutta si cangiava di colore e diveniva rossa come un scarlatto, ella diceva che questa mutazione di colore se le causava perchè gli voleva male, ma che lo sopportava per imparar a sonare; e da l’altra banda come se gli poteva avvicinare le pareva d’esser in cupo mar di gioia. Il giovine, da esser grande e grosso in fuori, era nero che pareva nato di cingari, con le mani brune e ruvide. Era anco un poco mal netto e sonava stranamente di pedali, con un puzzo che di modo infettava l’aria che nessuno poteva sofferire di stargli appresso. E perchè d’alcun tempo innanzi una de l’altre donzelle aveva fatto a l’amore con un giovinetto nobile con speranza d’averlo per marito, al quale anco i piedi forte putivano, la Zanina non lasciava vivere quella sua compagna e ognora la ripigliava e proverbiava di questo suo amante, rimproverandole tutto il dì cotesto puzzor di piedi. Ora la donzella, essendo l’amante partito ed ella già promessa per moglie ad un gentiluomo, soldato onorevole e di già stato capitano di fanti, per render a Zanina pane per schiacciata, le disse una volta a la presenza de l’altre damigelle: – Voi, madonna Zanina, mi dicevate tutto il dì che non sapevate imaginarvi come io potessi star appresso a quel gentiluomo che mi faceva il servidore ed io sperava averlo per marito, ed ora voi con cotestui che da ogni banda pute e spira un pessimo lezzo, come potete una e due ore dimorare viso a viso seco ed anco basciarlo? Io che il giovine che è partito amava con speranza di maritarmi seco, vi confesso che puzza alcuna non sentiva, o se pur la sentiva, non mi dava fastidio. Ma voi che dite non amar questo vostro maestro di suono, come avete così turato il naso che non sentiate sì noioso e gran puzzore? Ma essendo, assai giorni sono, voi avvezza a questi zibetti e muschi, non è meraviglia se non vi dispiaceno. – E così costei argutamente si vendicò come fa chi a nuocer e luogo e tempo aspetta, ed a la moglie del bergamasco rimproverò il fetore del naso del marito, ed insiememente volle mostrarle che l’amore che ella faceva con il barbiero non era celato. Ma madonna Zanina che fatta era cornacchia di campanile, lasciava gracchiare chi voleva, faceva orecchia da sordo. Io certamente prima che di veruna cosa fossi avvertito, più e più fiate m’avvidi che come non ci erano testimonii, che i ragionamenti si facevano molto stretti e si vedeva tra loro una domestichezza troppo domestica. Sentii ancora che quasi tutta la famiglia ne bisbigliava, ma per esser Gandino così mal voluto, ciascuno lasciava correr il Po a l’ingiù e nessuno avvertiva il bergamasco; il quale, perchè vedeva il barbiero assiduo al servigio de la moglie e che amorevolmente le insegnava toccar i tasti del liuto, l’amava più degli altri, credendo che nessuno in casa fosse tanto ardito che si mettesse a far a l’amore con lei, come se ella fosse stata la imperadrice del Cattai; di maniera che i dui amanti facevano benissimo i fatti loro quando ci era la comodità. Il bergamasco poi, che averia voluto farsi benevole il signor Gianfrancesco, teneva pur detto per casa che la sua moglie era l’innamorata d’esso signore; ma il giovinetto punto non se ne curava. Avvenne poi che la signora Clarice con la maggior parte de la sua famiglia andò a Milano, dove per alcuni suoi affari dimorò circa sei mesi. Chi volesse mò narrar le pazzie che Gandino fece per il camino, e i romori che per gelosia ebbe con questi e con quelli, e quante volte disse che a modo nessuno non voleva più stare in quella casa, perciò che egli e sua moglie non erano onorati come era il devere e meritavano, sarebbe un cantar d’Orlando. Ma se una volta la signora gli avesse dato licenza di casa, egli sarebbe rimaso con un gran palmo di naso, chè altrove non averebbe trovata la torta così grassa come aveva in quella casa, ove era troppo riccamente salariato ed aveva ricevuta una dote di molto più prezzo che a lui e a la moglie non si conveniva. E nondimeno avendo ricevuti tanti benefici, non si vergognava mormorare de la padrona, e massimamente con forestieri che non lo conoscevano. Del che io ne posso far ferma fede, avendolo io sentito lamentarsi e dir male de la signora e di tutti di casa. Sapete che si costuma quando si cavalca ove siano donzelle, che gli uomini volentieri s’accostano a le donne, e quanto più son giovanette e belle più di grado le corteggiano e volentieri scherzano con loro. Così veder si saria potuto, cavalcando la signora Clarice, che le damigelle sempre erano accompagnate, eccetto che la Zanina, con la quale di rado si vedeva persona se non il barbiero che mai non se le moveva da lato; e credesi che ella avesse dato ad intender al marito che nessuno le faceva servigio se non colui, di modo che il buon castrone non ci poneva mente, e tanto meno gli guardava che da principio fu openione che il barbiero avesse il core ad un’altra donzella che era assai bella fanciulletta. Ser Gandino ne faceva i maggior romori del mondo, e tutto il dì riportava a la padrona che quella era morta dietro al barbiero e che erano troppo domestichi insieme, e più volte anco con il garzonaccio ne gridò assai volte. Queste parole venivano tutte da la sua moglie la quale, perchè amava il barbiero, temeva che la compagna che era di lei assai più bella, più giovane e più gentile, non le levasse l’oglio di su la fava. Ma ella s’ingannava di gran lunga, perchè colei che era gentilissima, nobile e d’animo generoso, non averebbe per via d’amore mostro le punte de le sue scarpette a quel baccalaro. Or lasciando oggimai da banda questi fecciosi ed insopportabili modi gandineschi, vegniamo a dire alcune solennissime pazzie che il bergamasco ha fatto, per le quali io a nomarlo mi mossi quando monsignor Chieregato narrava i rozzi costumi degl’indiani nuovamente dai portoghesi trovati. Dico adunque che essendo la signora Clarice in Milano, che Zanina infermò, afflitta da alcuni dolori che communemente sogliono venir innanzi al partorire de le donne. Ella era gravida, ma non si credeva ancora che la creatura fosse al tempo del nascere e si dubitava pur assai che non disperdesse, del che Gandino dava del capo nel muro. È costume che in simil casi le commari che levano la creatura nel nascere sono quelle che con i lor ogli e polvere ed altri rimedii provedano a simili dolori. Il che non sodisfacendo a Gandino, entrò in un farnetico che non gli piacendo medico alcuno di quelli di Milano, ove ne sono pur assai ed eccellenti, volle per ogni modo che si mandasse a Cremona per maestro Girolamo Carenzone, del quale poco fa vi parlai. Onde tanto fece e disse e tanto fu importuno che a mezza notte la signora, a suo mal grado, mandò per lui in grandissima fretta un messo a posta. Volle la sorte che il messo lo ritrovò a Maregnano, chè egli per suoi affari veniva a Milano. Come fu giunto, il Carenzone andò di lungo a dismontare in casa la signora Clarice, e intendendo la cagione per la quale era chiamato, disse a la signora: – Per mia fede, questo nostro facchino bergamasco è un gran bestione e il più indiscreto uomo che mai conoscessi. – In questo arrivò Gandino e, volesse il Carenzone o no, fu bisogno che egli, con gli usatti in gamba e con gli speroni e zaccheroso dal fango, se n’andasse a visitar l’inferma. Come egli fu entrato in camera e la inferma ebbe domandata di quanto era mestieri, e quella gli disse in qual parte del corpo più le doleva, il medico le rispose: – Voi, la Dio mercè, non averete male. State di buona voglia, chè non disperderete. Io palperò un poco con le mani ove è il dolore, e bisognando cosa alcuna userò degli opportuni rimedii. Fate buon animo. – Questo sentendo ser Gandino si fece innanzi e disse: – Domine magister, vedete ed intendetemi bene e sanamente, chè talora voi non vi dessi ad intendere ch’io fossi un sempliciotto che non intendessi i casi miei. Io son ben contento che voi tocchiate il corpo de la mia consorte, se così ricerca questa sua infermità e che senza questo non si possa medicare; sì sì, io son contento. Ma da voi infuora, non pensate già che io sofferissi che uomo del mondo, sia chi si voglia ed abbia nome come si voglia, le mettessi le mani su la carne. No no, nol crediate che io lo sopportassi. Io non lo comportarei a chi si sia; bene sta che io sofferissi coteste cose. Io amo l’onor mio quanto un altro, ma ne le cose de le donne io non voglio compagno nè amico nè parente. Intendetemi voi? Toccate destramente. – Il Carenzone che era astutissimo ed averebbe fatta la salsa agli spoletini, per esser già lungo tempo pratico in casa sapeva gli amori de la Zanina e come ella aveva posto il braccio in capo a questo ser capocchio e di modo con la camarra imbrigliato che non si poteva volgere se non quanto ella voleva, fu quasi per scoppiare de le risa; pur si ritenne e con buon viso gli disse: – In fè di Dio, compare, e’ si vuol far così. Chi vuol aver moglie da bene faccia come voi. – Ben sapete, messer mio, che questa è la vera strada di tenere le femine in cervello. Voi sète per Dio un savio par vostro e me ne rallegro con voi. Attendiamo a questo di bene in meglio. Ma ditemi, che vi pare del male de la Zanina? – Ella non aveva male, – rispose il medico, e fattosi dar da scrivere ordinò alcuni ogli per unger il corpo de la donna ed un cristero che pigliasse la seguente matina a buon’ora. Fatto questo, gli parve un’ora mille anni che corresse a dire questa castroneria di Gandino a la signora Clarice. Se vi fu da ridere e da beffarsi del bergamasco, pensatelo voi, parendo a la signora e a tutti gli altri che d’ora in ora, de le sciocchezze, goffità e pazzie di questo bestione, nascessero nuovi soggetti da far ridere i sassi. Come già si è detto, temeva sempre Gandino che Zanina non si morisse di fame e la cibava con polpe di perdici ed ova fresche, tre e quattro volte il giorno, e la notte anco le faceva mangiar «manuscristi» ed altri confetti. Ella che non si vedeva mai sazia d’empire il sacco ed in mangiar e bere averebbe vinto Cinciglione per tèma di non divenir debole, trangugiava i cibi e non gli masticava. La seguente notte Gandino che in camera con la moglie dormiva, domandando ella del giulebbe chè aveva sete, levatosi tutto sonacchioso, pensando prender il bicchiero del giulebbe prese quello del cristero e il diede a la moglie. Ella che per indigestione di stomaco aveva gran sete, postaselo a la bocca, tutto il bebbe, nè egli nè ella de l’error s’avvide. Venuta la matina, ella si levò e si vestì, ed accostatasi a la tavola per pigliar non so che, vide che il bicchiere del cristero era vòto. Domandò al marito ciò che fatto se n’era. Egli accortosi de l’errore dissele come era la cosa, di che ella entrata in còlera, a lui si rivoltò tutta adirata e cominciò a dirgli tanta villania quanta a bocca le veniva. Era quivi una sua balia, che già le aveva lattato un maschio che fanciullino se ne morì. Ella si interpose per pacificargli insieme e nulla profittava, perciò che la Zanina piena di stizza arrabbiava e non poteva sofferire che il marito le avesse fatto bere il cristero, dicendogli iratamente: – Sozzo cane, io mai non mi terrò appagata di questo vituperio che fatto m’hai, se non ti fo mangiare il tuo medesimo sterco. No no, fa pur quanto sai, chè io ne farò la vendetta. – Tanta fu la còlera che rodeva l’irata Zanina, che o fosse quella o la indigestione dei cibi che lo stomaco non poteva cuocere o pure che il già bevuto cristero facesse la sua operazione, che tutte le interiori se le voltarono sossopra, e di modo la còlera se le commosse che cominciò a vomitare con gran furia il cibo non digesto, che pareva che in quella medesima ora inghiottito l’avesse. Le reggeva il capo il buon marito, e tuttavia ella rendeva il mal tolto fieramente lamentandosi. Gandino la confortava a la meglio che poteva, e la balia ancora, che l’era a torno, le faceva buon animo. Ed essendo lo stomaco alquanto del soverchio peso alleggerito, venne una nuova tempesta, perchè il mal pertugio posto fra due colline, non lontano dal mal foro che non vuol festa, cominciò con puzzolenti tuoni, come suole quando vuol venire una gran pioggia, a mandar fuor un’aria fetida che la camera tutta d’intorno ammorbava, e dopo il romore venne il folgore de lo sterco, di modo che di sotto e di sopra il tutto era imbrattato de lo sterco e del vomito, di modo che ogni cosa fieramente putiva. Il povero Gandino e la balia che a torno le erano si trovarono da quella bruttura impastati sì forte che, a loro istessi dispiacendo per la puzza che a loro di lor veniva, furono astretti per buona pezza a sopportar quel fetore ed aitare a nettar Zanina che tutta putiva, e poi andare a cambiar panni. Tuttavia per quello stesso giorno ed anco il seguente rendevano odore d’altro che di zibetto e muscio. Avvenuto questo caso, ancora che i dolori cessassero, Zanina che più teme il morire che donna che mai conoscessi, si deliberò di volersi confessare, a ciò che a l’improviso dal partorire non si trovasse assalita. Come Gandino sentì che la moglie si voleva confessare, fece il più bel tratto che mai fosse sentito, e quando altra pazzia mai in vita sua fatta non avesse, che pur assai ne ha fatte, per questa che ora dir mi apparecchio si può senza altri testimonii solennemente canonizzare per il più eccellente pazzo che mai fosse. Egli primieramente determinò chiarirsi se sua moglie era di nessuno innamorata. Onde con questo farnetico in capo, trovata la moglie che nel letto era, serrò l’uscio de la camera e, non essendo persona dentro se non essi dui, accostatosi a lei le disse: – Moglie, io vo’ che tu mi dica il vero d’una cosa che ti domanderò. Ma guarda bene di non mi dir bugia. E a ciò che tu sia astretta a dir la verità ed io creder possa ciò che tu mi risponderai, io vo’ che tu giuri su queste sante ore de l’officio de la reina dei cieli di sinceramente dirmi il vero. Il giuramento sarà tale: che il diavolo ti possa portare in anima e in corpo se tu non dici il vero. Eccoti qui l’officiolo; giura su. – E che volete voi ch’io giuri? – disse ella. – Tu il saperai bene, – rispose Gandino. – Giura pure come ti ho detto. – Ella non sapendosi imaginar l’animo del marito, toccato l’officiolo con le mani, giurò de la forma che Gandino disse. Ora vedete, di grazia, che cervello era quello di questo povero geloso a fare simil domande a la moglie. – Io vo’ che tu mi giuri, – disse Gandino, – sotto il nodo del sacramento che fatto m’hai, se dopo che tu sei mia moglie, hai fatto a l’amore con nessuno ed amato altri più di me. – La donna a questo passo ridotta, animosamente il saltò oltra e disse di no con buonissimo viso. Ser capocchio, uscito fuor di sè del tutto per sì fatta risposta, credendo che la moglie mai non si saria spergiurata, gongolava e non capeva ne la pelle. E temendo che il troppo parlar col frate annoiasse la moglie così le disse: – Moglie mia cara, io non vorrei che talora questo confessarvi v’accrescesse più male di quello che avete. Io so tutti i peccati vostri, avendo voi giurato il vero come io fermamente credo, e perciò gli scriverò suso una carta, e voi la darete al frate domandandovene in colpa e dicendo che più non gli farete. – Zanina veggendo questa gran sciocchezza disse che così faria. Onde ser zucca senza sale, anzi mellone senza sapore, scrisse certe novellucce e peccadigli che fanno le feminelle, come è di mormorare de la vicina, aver invidia a la commare perchè era meglio vestita, essersi sdegnata che una in chiesa aveva pigliato lo sgabello più onorevole, aver maladetta la gatta quando riversa le pentole e commessi simili fuscelli che non montano un bagattino. Come ebbe ciò che gli parve scritto, diede la carta a la moglie. O sciocco uomo, anzi ser bestione, che si credeva che sua moglie non fosse femina di carne e d’ossa come l’altre, e tanto si teneva avveduto e scaltrito che teneva per certo che ella non facesse cosa che egli minutamente non sapesse! E forse che di se stesso non presumeva credendo conoscere i pensieri di quella, dei quali solamente nostro signor Iddio è conoscente? Venne il frate ed entrato in camera ebbe lo scritto dei peccati in mano. E perchè se a la donna fosse venuto alcuno svenimento avesse avuto aita, ser barbagianni si fermò su la porta de la camera che non era molto grande, di sorte che di leggero poteva udir tutto quello che il frate ed ella ragionavano. Zanina veggendo che Gandino voleva esser testimonio a la confessione che deve farsi segreta, dubitando che egli non sentisse alcuna cosa di quelle che ella voleva che fossero celate, si spedì in dui motti e fece parte de la confessione di ser Ciappelletto, perciò che poi disse a una persona che non era stata osa intieramente confessarsi per tèma che Gandino non la sentisse. In quel tempo che il frate stette in camera, il medico Carenzone venne per visitar l’inferma, a cui Gandino narrò come aveva scritti i peccati de la moglie. E questo bel fioretto di velluto, anzi pure di finissimo broccato riccio sovra riccio, diceva egli con sì allegro viso come se dicesse aver acquistato l’imperio de l’Oriente e ricuperato la Terra santa. La donna conoscendo chiaramente l’umor del marito sino a l’ultima differenza, quello di modo acconciò e sì gli avviluppò il cervello che si fece la strada ai suoi piaceri tanto larga quanto le piacque. E perchè ella amava il suo maestro del liuto, fece di modo che Gandino avendo gelosia di molti altri in casa, a cotestui non poneva mente. Onde quando rincresceva loro il sonar del liuto, si mettevano a giocar a toccadiglio o a sbaraglino, e giocavano a basciarsi amorosamente, come più volte furono veduti da chi vi metteva l’occhio. Ma torniamo al nostro Gandino, il quale, se dovunque dimora si facesse una publica grida che il più savio e scaltrito che quindi si trovasse se ne partisse, egli subito sarebbe il primo a sgombrare il paese, e nondimeno ragionevolmente voi potete per le cose udite far giudicio quanto egli sia matto spacciato. Veramente altro di lui non si può dire se non che in effetto abbia perduto il cervello, se pensava che sua moglie volendosi far scuotere il pelliccione gli averia chiesta licenza. Ella a punto, che ha più vizii ch’una mula spagnuola restia e che farebbe la salsa al diavolo, gli averebbe manifestati i suoi amori e che colui scherzava seco di mano e di lingua, avendo già sentito come egli a modo veruno non voleva sofferire che alcuno le toccasse sotto panni la carne ignuda! Credetemi che ella non era punto nè sciocca nè melensa, ma che sapeva benissimo il fatto suo, ed era molto più accorta ed avveduta che lui, e l’averebbe mille volte il giorno venduto in ogni mercato. Era ben egli goffo ed accecato da dovero, con un cervello il più sgarbato del mondo e senza intelletto veruno, persuadendosi di saper i segreti de le donne che elle a pena sanno. E certamente questo errore fu pur troppo grande che egli fece di scriver i peccati de la moglie e persuadersi di saperli. Ma che si può dire del sagramento che egli le diede a giurare? Codesto fallo non si emenderebbe con emenda che imaginar da uomo si possa, nè tal macchia si lavarebbe con tutta l’acqua che l’Adda dal lago de la città di Como riceve e manda in Po. Io non credo già mai che il facondo e dotto messer Benedetto Tonso, avvocato de lo stato di Milano, graziosissimo, o il suo compagno, il veemente ed eloquentissimo messer Francesco Taverna, che oggidì in diffender le liti regnano in corte e sono i primi padroni che ci siano, con tanti lor colori rettorici, con tante leggi e chiose quante sempre hanno in mano, pigliassero a diffender questo caso, ove Cicerone e Demostene resterebbero mutoli. Ben si può affermare che Gandino non abbia pari in pazzia, che meriti esser bandito dal consorzio d’ogni buona compagnia. Chè io per quanto più ci penso, tanto meno so scusarlo, nè so come imaginar si potesse che la moglie devesse manifestargli se ella l’aveva dolcemente mandato senza passar il mare nel reame di Cornovaglia. Chè quando solamente pensato l’avesse, ancor che effetto nessuno seguìto mai non fosse, come deveva ella dire ad un marito geloso cotal suo pensiero? E quale è quella così pudica ed onesta donna a cui talora non passino di varii pensieri e grilli per il capo, o che non desideri ed appetisca molte fiate di quelle cose che ella a modo veruno non direbbe al marito ed anco mai non le farebbe? Chè pur troppo duro par loro doverle in confessione palesar al padre spirituale, di cui portano ferma credenza che a persona non le ridice. Le sante e caste monache, dentro a’ confini d’altissime mura dei sacri chiostri chiuse e perpetuamente relegate senza speme di quindi mai più uscire, tanto non si sanno, con le astinenze, vigilie, digiuni e continove ammonizioni loro da’ predicatori fatte e frequenti confessioni sacramentali guardare, che talvolta da disonesti e lascivi appetiti, da ambizione e altri pensieri impertinenti al grado loro, non siano assalite e fieramente combattute; e non gli facendo subito quella resistenza che si conviene, per ogni breve e dilettosa dimora che in tali cogitazioni facciano, si sentono colpevoli, più e meno, secondo che più e meno ci sono dimorate. Ora vorrà questo ser uomo che una giovane fresca, baldanzosa, avvezza ai piaceri e vivuta in libertà e ardentemente innamorata, e che tutto il dì parla d’amore, legge il Furioso, il Decamerone e le comedie volgari, non abbia assai pensieri meno che onesti ed in simili cogitazioni non prenda piacere e non si diletti e che poi non se ne confessi? Questi non sono mica pensieri da purgar con l’acqua santa. Vi so dire che egli deve quando si confessa passar assai leggermente i peccati suoi. Qual meraviglia adunque se talora fa de le cose che non stanno al cimento in conto alcuno? Io non voglio ora parlarvi de le sue mercadanzie che fa di grano e di vino di vender a tempo con quel maggior prezzo che può. Insomma io vi conchiudo che ai giorni miei io ho vedute e lette di molte sgarbatissime pazzie fatte da uomini maritati e non maritati per gelosia, i quali si persuadeno, come la gelosia gli ha ingombrati, esser Salomoni e che le azioni loro non possino esser morse da Momo; ma tante e sì segnalate e così fuor d’ogni ragione, chi vide, chi udì, chi lesse già mai? Certo, che io mi creda, nessuno. Molti per gelosia hanno svenate le mogli. Il confesso. Ma trovarete che da subito e temerario furor assaliti si averanno bruttate le mani nel sangue femminile, e poi pentiti dei lor errori non fanno che piangere e disperarsi. Gandino quante più pazzie adopra tanto più si prezza e, come si dice, a sangue freddo fa di queste mellonaggini che udite avete; nè è stato mai possibile che una volta, essendo tante fiate da la signora Clarice ripreso e da molti altri, abbia voluto confessare nè conoscer gli errori suoi, anzi da più se ne tiene, e dice apertamente che per governare una moglie non ha invidia a persona che sia. E già più volte sopra questa materia hollo io udito contendere e mantener con frivole persuasioni le sue pazzie. Onde io ragionevolmente conchiuderò che in un maritato e in ogn’altra sorte d’uomini e donne non si truovi il più periglioso morbo di quello de la gelosia; di quella, dico, che passa tutti i termini del devere, perciò che esser geloso fino a certo termine è cosa lodata e necessaria. Ma come si passa da la vertù al vizio, non è gelosia, ma espressissima pazzia, come in questo ser Gandino s’è veduto. Adunque, come diceva il Montachino, questo mondo è una gabbia piena d’infinite e varie specie di pazzeroni, e che molti di coloro i quali si pensano esser i più saggi sono i più pazzi, come a le opere loro senza altri testimonii chiaramente si vede. Sì che, monsignor mio molto riverendo, non vi meravigliate se al nome di questo così notabile e solenne pazzo, e per aggiunta fieramente ingelosito, questa bella e nobilissima compagnia sì saporitamente rise, non ci essendo nessun di loro, credo io, che meglio di me non conosca tutte le sue taccherelle e tutti i suoi fecciosi modi, degni de le festevoli muse del Pistoia o de le piacevoli del Bernia che ora vive. Chè io per me sarei, se stile avessi, sforzato a farvi suso una Iliade e mandarla a Roma chè fosse consacrata a messer Pasquino o al gran barone ser Marforio. Ma questo è far satire e non novellare.
Ancor che ogni novella che si narri soglia a chi l’ascolta porger diletto, perciò che l’intender cose nuove sempre apporta agli ascoltanti piacere, nondimeno suol senza parangone non picciola contentezza porgere quando qualche cosa si narra che, oltra il diletto che se ne piglia, qualche profitto ancora se ne trae. Suole anco sommamente dilettare sentendo dire che, dove generalmente tutti gli uomini sogliono far le pazzie, e sè e tutta la famiglia favola al volgo rendere, che si truovi alcuno che, oltra ogni credenza scaltrito, non sia saggiamente operando nel comun diffetto incappato, anzi abbia di modo fatto che eterna lode ne meriti. Il che non è molto che a Vinegia avvenne,