Novelle (Bandello, 1853, I)/Parte I/Novella XXXIII
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alcuni dì che il re non lo chiamava a interpretar le parole de la lastra, egli entrò in tanta smania che ne fu per impazzire, e non poteva per niente sopportare che il re facesse così poco conto di lui e che le sue malizie non avessero avuto luogo. Onde in ogni sermone diceva del re il maggior male del mondo. Nuove visioni poi e simulate revelazioni predicando e de la miracolosamente rivelata lastra parlando, tanto fece che la fama ne pervenne al papa, il quale fece scrivere al re per chiarirsi di questo fatto. Il re che fin a quell’ora s’era prudentemente governato e per onor de l’ordine minoritano non aveva voluto far movimento alcuno, fece subito dar de le mani a dosso ai dui più segreti compagni di fra Francesco, i quali confessarono molte sceleratezze del padre. Onde con questo processo mandò al papa il prete che aveva recata la lastra, e volle anco che fra Francesco gli fusse condotto. Il papa, fatto il tutto con diligenza essaminare e ritrovato che erano tutti adulteri, sacrìlegi e proprietarii, condannò i dui compagni insieme con fra Francesco a star in prigion perpetua e digiunar tre giorni de la settimana in pane ed acqua. Furono adunque consegnati in mano del lor generale che a Roma era, e posti in carcere purgarono amaramente fin che vissero i lor peccati. Tale fine adunque ebbero le visioni di fra Francesco spagnuolo.
Questi dì, come sapete, la molto bella e vertuosa signora Ippolita Torella, moglie del signor conte Baldassar Castiglione, essendo di parto del suo figliuolo il conte Camillo, fu, come è la costuma, da tutte le gentildonne e gentiluomini mantovani tutto ’l dì visitata. E se vi ricordate, essendovi voi insieme con l’illustrissima signora Isabetta Gonzaga, già moglie del signor Guido d’Urbino, per alcune lettere che riceveste fu necessario partirvi. E dopo la vostra partita venne non so chi, il quale disse di certo berrettaio che si era per gelosia d’una sua innamorata ammazzato. Alora messer Antonio Filoseno, giovine di buone lettere latine e greche dotato, che insegnava al signor Galeazzo Gonzaga del signor Giovanni, pigliando la parola disse: – Deverebbero pur oggimai questi infortunati amanti apparare un poco di senno ed esser ne le loro operazioni più moderati, avendo tutto il dì innanzi agli occhi gli strabocchevoli errori che fanno costoro che da le passioni amorose così di leggero si lasciano vincere. Ma nè più nè meno giova loro il veder o sentire le trascurate pazzie che gli innamorati fanno, che giova ai ladri e micidiali veder piantate le forche per le strade e spesse volte il manigoldo castigare il malfattore ora con la fune ed ora con la mannara, essendovi spesso di quelli che, mentre che il boia avvinchia l’unto capestro al collo d’un ladrone, rubano le borse a quelli che stanno a veder la giustizia che si fa. Così questi poveri amanti, ancor che conoscano di quanto male il non ben regolato amore sia cagione, correno nondimeno a darvi a sciolta briglia de le mani e del capo dentro, come non è molto che ne la mia patria di Cesena avvenne. – E pregato da la compagnia che poi che altro non ci era da ragionare, che narrasse come il caso era avvenuto, lo fece molto volentieri. Onde io che a la sua narrazione presente mi trovai, quanto seppi il meglio il fortunevol caso e degno di pietà scrissi. Nè mi parendo che voi debbiate esser privata d’intenderlo, sapendo quanto d’intender cose nuove vi dilettiate, ora ve lo mando e dono, tenendo per fermo che non vi sarà discaro, avendo voi sempre dimostrato di legger più che volentieri le cose mie così in rima come in prosa. Da la signora Margherita Pia e Sanseverina vostra sorella non passano ancora due settimane che io ebbi lettere, la quale stava molto bene. State sana.
Io non credeva già oggi, nè con questa intenzione son venuto qui, signore mie graziose e voi cortesi gentiluomini, pensando di divenir novellatore, non avendo ancora, che mi sovenga, fatto questo ufficio. Ma poi che voi me lo comandate, io voglio più tosto esser creduto cattivo dicitore che mostrarmi ritroso ai comandamenti vostri. Devete adunque sapere come non è molto ch’in Cesena fu un cittadino, che aveva d’una sua moglie, che già era morta, un figliuolo chiamato Livio ed una figliuola che aveva nome Cornelia, senza più; ed erano di età l’uno di venti anni e l’altra di dicesette. Eravi un altro cittadino non molto lontano d’abitazione da questi, che si truovava una figliuola detta Camilla, molto bella e gentilesca, la quale aveva contratta una sì grande amicizia con Cornelia che non sapeva star un’ora senza lei, di maniera che tutto il dì era seco; e da l’altra parte Cornelia si pagava tanto de la compagnia di Camilla che le pareva quando era seco d’esser in un mar di gioia. E perchè un fratello che aveva Camilla, chiamato Claudio, non stava quasi mai ne la città, ella il più de le volte si riduceva con la sua Cornelia. Avvenne che continovandosi questa pratica e veggendo Livio la beltà e i bei costumi di Camilla, egli di lei fieramente s’innamorò; e tanto innanzi si lasciò trasportare e tanto negli amorosi lacci avviluppare che ad altro non sapeva pensare se non a la sua Camilla. E non sapendo discoprir l’amore e la passione che fuor di modo tormentosa sofferiva a nessuno, ma tutto il dì sentendo le sue fiamme farsi maggiori e non sapendo che rimedio pigliare, perdutone il cibo e il sonno, cadde infermo, e si vedeva che a poco a poco andava mancando come fa la neve al sole. Cornelia attendeva con somma diligenza a la cura del fratello, e spesso, non trovando i medici la cagione del male e giudicando quello da passion d’animo esser offeso, gli domandava che cosa si sentiva, che passione aveva, con simili altre domande che in cotai casi si sogliono fare. A la fine Livio a la sorella tutto il suo amore discoperse. La giovane udendo questo, nè le parendo tempo di sgridare il fratello, ma più tosto di confortarlo, l’essortò con amorevoli parole a far buon animo e attender a guarire. Livio a la sorella rispose che rimedio alcuno non conosceva per sanarsi, se Camilla non faceva consapevole del suo amore. Cornelia che a par degli occhi suoi amava il fratello, gli promise che pigliarebbe l’occasione e a la compagna farebbe intender il tutto. Avuta questa promissione da la sorella, parve che Livio alquanto si confortasse e che prendesse un poco di meglioramento. Ora essendo di brigata Cornelia con Camilla e d’uno in un altro ragionamento, come si costuma, travarcando, cominciò con quel più destro modo che seppe a narrarle come suo fratello per amor di lei si struggeva, pregandola affettuosamente che di lui volesse aver pietà e non lasciarlo miseramente perire. Camilla udendo il parlar de la sua compagna si scusò con lei, mostrando che molto le doleva del mal di Livio, ma che ella non era disposta ad attender a questi innamoramenti, e la pregò che di simil affare più non le volesse ragionare, perciò che ella gettarebbe via le parole. Restò molto mal contenta Cornelia a questa risposta, e come giovanetta e vergognosa non seppe che dirle più di quello che detto le aveva. E non osando scoprir al fratello la poco grata risposta di Camilla, o per la fatica che intorno a lui aveva sofferta, o che altro se ne fosse cagione, ella s’infermò d’una grandissima febbre e fu costretta a mettersi nel letto. Il che intendendo la sua compagna Camilla venne a vederla. Livio sentendo la sua cara Camilla esser ne la camera de la sorella, che da la sua era da un sottile e semplice tavolato divisa, e i letti erano a capo per capo solamente separati dal tavolato di modo che ogni bassa parola agiatamente si sentiva, domandò a Cornelia chi fosse seco. Ella rispose che solamente ci era Camilla. Era medesimamente Livio solo. Il perchè fatto buon animo e preso più d’ardire del solito per il tavolato che era in mezzo, cominciò per sì fatta maniera con singhiozzi, lagrime e sospiri a narrarle sue amorose e mortali passioni a Camilla ed umilmente a supplicarla che di lui volesse aver pietà e non lo lasciar finir così miseramente la vita sul fiorir degli anni giovinili, che Camilla tutta s’intenerì e si sentì d’uno inusitato ardore infiammarsi da capo a’ piedi, e le pareva pure una fiera crudeltà a non aver compassione di Livio e dargli quell’aiuto che tanto amore meritava. Il perchè in questo modo gli rispose: – Livio, io non so se io m’inganno o che pur il fatto sia così. Io voglio crederti tutto quello che tu ora m’hai detto, ancor che voi altri giovini sogliate molto volentieri ingannar le semplici fanciulle, e il più de le volte, quando avete ottenuto l’intento vostro, con i compagni ve ne gloriate e fate che l’ingannate da voi diventano favola del volgo. Il che prima che a me avvenisse vorrei morire, perciò che come la donna ha perduto l’onore, ella ha pur perduto quanto di bene possa aver in questo mondo. Per questo conviene che noi facciamo le cose nostre saggiamente, e che se il tuo amore, come tu dici, verso me è sì grande, che tu mi domandi a mio padre per moglie, che mi rendo certa che non me ti negherà, e così averai l’intento tuo onoratamente. – Rimase Livio molto sodisfatto a queste parole ed infinitamente ringraziò la sua Camilla di quanto gli diceva, assicurandola che come fosse guarito tantosto al padre di lei la farebbe richiedere, commendandola sommamente de la sua onestà. Fatto questo, Livio attese a guarire, e sanato che fu, fece che alcuni suoi parenti a nome suo richiesero Camilla al padre di lei per moglie. Ser Rinieri, chè così aveva nome il padre di Camilla, conoscendo Livio, a cui già il padre era morto, esser ricco e di buon parentado e che non aveva se non una sorella da maritare, disse il partito piacerli, ma che non si poteva risolvere determinatamente fin che Claudio suo figliuolo, che a Roma era ito, non ritornava, e che oramai deveva esser di ritorno. Camilla, avendo intesa la risposta del padre, tenne la cosa quasi per fatta, pensando che ’l fratello anch’egli se ne sarebbe contentato. Ed essendo di già inclinata a l’amore di Livio, cominciò ad amarlo ferventissimamente, e di modo di lui s’accese che non meno ella amava lui che egli facesse lei. Ora, mentre che Claudio tardava a tornare da Roma a Cesena, i dui amanti molte volte parlarono insieme, e cercando d’ammorzar in parte le loro ardentissime fiamme più le accesero, e un’ora pareva loro un anno che Claudio venisse. E andando pure il ritorno a la lunga, tanto insieme si domesticarono che per parole di presente si presero per moglie e marito, aspettando di consumare il santo matrimonio che Claudio fosse tornato, il quale non dopo molto ritornò. Tornato che fu, il padre parlò seco del parentado che Livio ricercava. Ma Claudio, che che se ne fosse cagione, mostrò molto d’adirarsi, ed allegando certe sue ragioni al padre a ciò che il parentado non si facesse, indusse il vecchio ne la openion sua. Il che dagli amanti inteso, fu loro di grandissimo dispiacere. E perchè pare che come una cosa è vietata più si desideri, Livio e Camilla sommamente desideravano d’esser insieme e godersi amorosamente, dicendo tra loro: – Noi siamo pur maritati e che ciò non sia esser non può. Pertanto come farà mio fratello che tu non sia mio marito? Ma se tu vuoi far a mio modo, tu verrai questa notte a giacerti meco, e poi provederemo al rimanente. La mia fante è consapevole del tutto e t’aprirà l’uscio del giardino a le tre ore di notte. – Rimase con questa conchiusione Livio tanto lieto che esser non poteva più, e a l’ora ordinata là se n’andò, e in camera lietamente da Camilla raccolto, quella abbracciò e cominciò a basciare ed ella lui, di modo che tanta allegrezza a Livio occupò il core, che da soverchia gioia soffocato in braccio a Camilla morì. Il che ella veggendo, piena d’amarissimo dolore, chiamò la fante e con essa lei tutta lagrimosa si consegliava ciò che fosse da fare. Ed ecco che sì fiero dolore le strizzò il core che la sfortunata Camilla cascò morta a dosso al suo Livio. La fante veggendo questo, senza sapersi consigliare, cominciò a gridare e mandare i gridi fin a le stelle. Il che sentendo Claudio, si levò di letto, e trovato quello spettacolo e conosciuto Livio, non volendo udir ciò che la fante gli dicesse, a quella diede tre pugnalate e lasciolla per morta. Divolgato il caso la matina, Ramiro Catalano, che per Cesare Borgia governava Cesena, fece essaminar la fante che ancora non era morta, e inteso il caso ebbe modo d’aver Claudio ne le mani, al quale, essendo morta fra dui dì la fante, fece ne la cittadella di Cesena tagliar la testa. E i dui sfortunati amanti furono con general pianto di tutta Cesena sepelliti ne la chiesa dei frati minori.
Questo luglio ultimamente passato, essendo da la legazione sua del reame di Portogallo ritornato in Italia monsignor vescovo Chieregato, che a quel re da Leone decimo sommo pontefice fu per ambasciator mandato, passò per la terra vostra di Pandino per visitare il magnanimo signor Alessandro Bentivoglio e la di lui incomparabile consorte, la vertuosissima eroina la signora Ippolita Sforza, che da voi erano stati invitati a diportarsi in quei vostri bellissimi e ameni luoghi che lungo l’Adda avete, ove copiose peschere ci sono, e in quelli ombrosi boschi fiere d’ogni maniera, per prendersi con la caccia piacer grandissimo. Come voi sapeste la venuta del vescovo, che quella matina era partito da Lodi, così cortesemente l’andaste a raccogliere. Egli fatta che ebbe riverenza ai detti signori, voleva partirsi e andar di lungo a Crema; ma voi nol sofferiste a modo veruno. Come poi fu udita la messa, che alora era in ordine per dirsi, voleste che si riducesse in una de le camere, e levatisi i panni da cavalcare che facesse pensiero per quel giorno non partirsi. Desinato che si fu, s’entrò a ragionar del suo viaggio. Onde egli cominciò a narrare le navigazioni ch’ogni anno quel re fa fare a le isole che sono in quel paese nuovo, ove tutto il di il suo imperio va felicemente accrescendo. Egli mostrò ramenti d’oro, perle, pietre preziose ed altre belle cose da quei paesi recate. Mostrò anco alcuni idoli maestrevolmente lavorati di mosaico, che quei popoli adoravano, che omai per la più parte son fatti cristiani. E così narrando di molte cose che aveva inteso, venne a dire d’alcune genti le quali la state e il verno vanno sempre ignude, così uomini come femine, e che tra