Notizie del bello, dell'antico, e del curioso della città di Napoli/Notizie generali della nostra città di Napoli

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L'Editore Del sito, grandezza e qualità della nostra Napoli
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NOTIZIE GENERALI

DELLA NOSTRA CITTÁ DI NAPOLI



Fia bene, che i signori forastieri, prima che si portino a veder ed osservar le parti della nostra Città di Napoli, abbiano una generale ma breve notizia della fondazione, ampliazioni, riti ed altro.

E prima circa la fondazione, lasciando le tante controversie, che si leggono negli storici Napolitani, seguiremo quel che ne lasciò scritto il nostro accuratissimo Fabio Giordano; al quale la nostra Città deve molto; avendone date notizie pur troppo chiare ed erudite, cavate da Strabone ed altri antichi scrittori Greci, o non sapute, o male interpetrate da alcuni de’ nostri storiografi. E tanto più, che questo grand’uomo approvato ne viene dal dottissimo nostro Pietro Lasena, censore più che rigido di quello che sulla materia dell’antico si è scritto da’ moderni.

Diremo dunque, che la nostra Città ebbe la sua fondazione da Eumelio Falero figliuolo d’Alcone, che fu uno degli Argonauti compagni di Giasone; e la fondò di Greci Ateniesi; benchè avessero portato altri nomi dalle loro colonie. E da questo si ricava, che questa Città fosse stata fondata prima della ruina di Troia, ed in conseguenza prima di Roma. [p. 10 modifica]

Alcuni poi, o poco pratici degli antichi scrittori, o poco eruditi nella greca favella (equivocando Falero per Falare) han detto, che Falaride tiranno Siciliano edificata l’avesse: e così per molto e molto tempo la città col nome di Falero appellata ne venne; come chiamata viene da Licofrone, e da tant’altri. E questo nome lo ritenne per molto, e molto tempo.

Essendo dipoi capitata nella nostra Falero, molti anni dopo della fondazione, Partenope greca, figliuola del re di Fera, venutasi dall’isola di Euboa, con molti Calcidici, che anco Greci erano, piacendoli molto il sito, e l’amenità del paese, volle fermarcisi; e cominciò ad ampliarla: in modo, che la città, non più di Falero si disse, ma di Partenope.

Il creder poi, che questa fosse stata Sirena, che col canto incantava i passaggieri, è un credere per istorie le favole d’Omero che ne inventò delle belle, per ornamento dell’epico suo poema: a costume de’ Greci, che ponno chiamarsi padri de’ favolosi ritrovati. Nè si può dare a credere i cittadini Partenopei, che anche in quei tempi erano Greci, e d’una Città, che tra l’Italo-Greche, era forse la più bella, e la più perfetta, essere stati così sciocchi e balordi, che avessero eretto tempii, e costituiti giuochi lampadii ad una Partenope, che non fu mai, che nelle favolose carte d’un poeta.

Benchè molti spositori delle greche scritture dicono, che questa scorza favolosa delle Sirene copriva il midollo sodo del vero: e si era, che il sito della nostra Città era per ogni capo sì ameno, il terreno così fertile, e gli abitatori veri così umani, che distoglievano da’ loro viaggi i passaggieri, costringendoli per le delizie a fermarvisi. Ma discorrasi di ciò come si vuole. Torniamo alla storia1. [p. 11 modifica]

La felicità della campagna, che non dava che desiderare, invogliò altre greche nazioni ad abitarvi, come Cumani, [p. 12 modifica]Rodiani, ec. E perchè dentro delle mura non vi era capacità; presso della città formarono un come borgo, che [p. 13 modifica]chiamarono nella loro favella Napoli, che è lo stesso che dire Città nuova: appunto come oggi si dice a’forastieri, [p. 14 modifica]quando si menano a vedere i nostri Borghi, tutto questo è Città nuova. E la città stessa, avendo da centocinquanta [p. 15 modifica]anni variata maniera, ed ordine, ed edifìcii; perchè prima tutti erano architettati alla gotica, diciamo Napoli è [p. 16 modifica] tutta nuova. E da questo nacque il nome di Palepoli, perchè dicendosi le nuove abitazioni città nuova, [p. 17 modifica]necessariamente le abitazioni antiche, che stavan dentro delle mura, dir si dovevano città vecchia; che è lo stesso che Palepoli. Nè perchè si dicevano Napoli e Palepoli erano due Città, [p. 18 modifica]ma vivevano sotto d’una legge, sotto d’un governo, ed era un popolo, come attestato viene dagli antichi scrittori2. [p. 19 modifica]

E questo ha dato da fantasticare a molti, che vogliono fare degli ingegnosi, arrivando alcuni a scrivere che taluni pezzi d’anticaglia (che così da noi vengono chiamate) che stanno presso l’antico tempio di Castore e Polluce, ora di S. Paolo, erano l’antiche muraglie, la prima di Napoli, la seconda di Palepoli. Ma di questo se ne discorrerà, quando osservate saranno. Dirò solo, che dell’antica città se ne osservano le vestigia di quasi tutte le mura, della nuova per pensiero: in modo che con l’occasione d’ampliarla, questa nuova città ch’era borgo, è stata chiusa dentro le mura; e nell’anno 1140 al dir di Falcone Beneventano, Rogiero Primo la fè di notte misurare, e la trovò di circuito duemila trecento sessantatre passi, non essendovi borghi: atteso che fin nell’anno 1500 in questi luoghi dove ora si veggono i borghi non vi eran case; come apparisce da infiniti istromenti di censuazioni fatte dopo. Dal che si ricava, che essendo queste due città, come altri hanno scritto, occupavano unite poco spazio: eppure questa misura accadde in tempo, ch’erano state fatte altre ampliazioni.

È vero sì, che le muraglie eran d’una magnifica struttura, e nell’anno 1640 in circa, essendosene scoverta una parte, sotto del monastero di S. Severino, si ritrovarono essere di quadroni di pietra ben livellati d’otto e dieci palmi l’uno: in modo, che si verifica quel che ne scrive l’Abbate Telesino delle gesta di Rugiero Primo. Parevano poi più speciose, perchè stavano erette su d’un colle, che soprastava al mare; e presso del Collegio de’PP.

[p. 20 modifica]Gesuiti dalla parte d’Oriente, se ne scoprì una parte, con l’occasione di dilatare la casa.

Era la città fondata sull’alto del colle; ed occupava da S. Anello fino alla chiesa di S. Severino di lunghezza; e di latitudine dalla Chiesa di S. Pietro a Majella, fino al luogo ora monistero della Maddalena3. [p. 21 modifica]

Quanto poi fuor di questo sito si vede, tutto venne [p. 22 modifica] accresciuto con le nuove ampliazioni: delle quali la prima [p. 23 modifica]fu quella rapportata da Tito Livio nel libro 8° in tempo [p. 24 modifica]de’ Consoli Romani; nella quale si unì la detta Città nuova con la vecchia. [p. 25 modifica]La seconda, fu fatta da Cesare; ma si può dire, anzi rifazzione, che ampliazione: e questo si è ricavato da un [p. 26 modifica]marmo, che fu trovato, in occasione di cavar la terra, per far le fondamenta d’una casa, che così diceva:

Imp, Caesar. Divi. F. Augustus.
Pontifex. Max, Cons. XIII.
Tribunicia. Potestate. XXXII.
Imp. XVI. Pater. Patriae.
Murum. Torresque. Refecit.

Ma questo marmo oggi vedesi disperso. La terza fu in tempo di Trajano; benchè non si possa [p. 27 modifica]dire ampliazione di mura, ma di sito; poichè, avendo fatto edificare il tempio al suo Antinoo, che oggi è quello dedicato a S. Gio. Battista, fece adequare due valli, che [p. 28 modifica]stavan dalla parte occidentale, presso del detto tempio, per unirle alla collina, dove ne stava la città.

La quarta accadde nell’anno 565 per comando di [p. 29 modifica]Giustiniano imperadore. Perchè Belisario suo Capitano avendo presa Napoli per l’acquedotto, e cacciatine i Goti, fece diroccar le mura; poi essendo stato ordinato al Capitan [p. 30 modifica]successore Narsete, che le rifacesse, non solo le rifece all’uso primiero, ma l’ampliò, e fortificò insieme, con torri gagliarde. Appresso poi si videro soto l’imperio d’altri [p. 31 modifica]imperatori Greci ampliate, scorgendosi in molti antichi istromenti, che si conservavano nell’archivio di S. Sebastiano, che dal detto anno 565 fino all’anno 976 molti luoghi, che stavano fuori, si trovano incorporati dentro della città.

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La quinta ampliazione fu fatta da Guglielmo I. detto il Malo, il quale edificò il Castel di Capovana, dove ora sono i Regi Tribunali. Ridusse a forma di Castello l’isoletta del Salvatore, oggi dello dell’Uovo, e cinse la città di nuove [p. 33 modifica]mura; racchiudendovi dentro molte strade: e questa ampliazione fu circa gli anni 1180.

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La sesta fu in questo modo. Avendo nell’anno 1252 il barbaro Re Corrado presa questa città, fè smantellar tutte [p. 35 modifica]le mura; ma essendo morto questo mostro d’empietà, venne in Napoli nell’anno 1254 il Sommo Pontefice Innocenzio Quarto, e non solo rifece le mura, ma l’ampliò. [p. 36 modifica]

La settima fu fatta nell’anno 1270 da Carlo I. d’Angiò; il quale chiuse il mercato che prima stava fuori, dentro le mura; e le fece estendere dalla parte della marina, fino [p. 37 modifica]al Molo, rinchiudendovi molte strade; edificò il Castel nuovo, perchè quel di Capovana, detto Normando non li piaceva, per essere architettato alla Tedesca; ed in questa [p. 38 modifica]ampliazione fece diroccare il Castello, che stava dove è ora la Chiesa di Santo Agostino.

L’ottava fu fatta nell’anno 1300 per ordine di Carlo [p. 39 modifica]Secondo, con l’assistenza di dodici Deputati, eletti dalla Nobiltà, e Popolo Napoletano. Questa ampliazionc fu fatta principiando le mura dalla region forcellense, con
    [p. 40 modifica]trasportare la porta Puteolana, o Cumana, dalla piazza di S. Domenico, in quella ch’ora vien detta del Gesù Nuovo; che è la Casa Professa degli PP. della Compagnia; che poi fu [p. 41 modifica]detta Porta Reale: e questa ampliazione fu più bella e magnifica delle altre; poichè oltre l’aver molto ingrandita la città, le muraglie eran quanto forti in quei tempi, tanto [p. 42 modifica]belle a vedersi per la gran diligenza usatavi nella struttura.

La nona fu fatta, nell’anno 1425 dalla Regina Giovanna [p. 43 modifica]Seconda, che eresse le mura della Dogana del Sale, sino alla strada delle Corregge.

La decima fu principiata a’15 di giugno dell’anno’1484 [p. 44 modifica]dal Re Ferdinando Primo d’ Aragona, dalle spalle della chiesa del Carmine, che prima stava fuori delle mura; e questa fu tutta nella facciata di travertini di piperno, con [p. 45 modifica]molta diligenza lavorati; e fu tirata sino sotto al monastero di S. Gio. a Carbonara, ricca di molte torri. Non fu però terminata, per la morte, che al detto re sopravenne. [p. 46 modifica]L’undecima ed ultima, che fu la maggiore, fu fatta in tempo del grande imperatore Carlo V. nell’anno 1537, ed in questa ampliazione si principiò a fortificare colle torri [p. 47 modifica]quadre, che più sicure riescono alla difesa. E questa fu fatta, essendo Vicerè D. Pietro di Toledo.

Oggi però vedesi ampliata da tanti borghi e così grandi, [p. 48 modifica]che può dirsi, che li fan corona tante grosse città, come a suo tempo si vedrà, ed i lor nomi son questi; di S. Maria di Loreto, di S. Antonio, della Montagnuola, delli Vergini, di S. Maria della Stella, della Sanità, de’ Cappuccini nuovi, di Materdei, dello Spirito Santo, della Cesaria, di Porta Medina, e di Chiaja: benchè 70 anni sono non se ne vedevano piii di questi, Loreto, S. Antonio, Vergini, e Chiaja.

Le porte, che ha la Città dalla parte di terra, sono 9 e li loro nomi son questi; del Carmine, perchè presso di questa Chiesa; la Nolana così detta, perchè per questa si và a Nola; la Capovana, perchè a Capua; di S. Gennaro, essendo che per questa s’andava a S. Gennaro extra moenia, ovvero ad corpus; di Costantinopoli, anticamente detta di D. Orso, oggi così, perchè presso vi stà la Chiesa dedicata alla Vergine di questo titolo; d’Alba, perchè fu aperta in [p. 49 modifica]tempo del Duca d’Alba Vicerè; dello Spirito Santo, perchè vicino di questa Chiesa si vede; e prima fu detta Porta Cumana, e poi Regale che ancora ne mantiene il nome; di Medina, perchè governando il Regno il Duca di Medina, fu aperta in questa forma, chiamandosi prima il pertuggio, per un adito, che in quella forma vi stava; di Chiaja essendo che per questa si va alla spiaggia, che noi chiamamo Chiaja: e questa era l’antica porta Petruccio, ovvero del Castello.

Dalla parte del mare, vi sono sedici porte, e i loro nomi son questi, principiando dalla Chiesa del Carmine. La prima chiamasi del Carmine, stando attaccata al Convento. La seconda è detta della Conceria, perchè sta presso le arti dei coriari. La terza vien detta di S. Maria a Parete, per una cappelletta di questo titolo, che se li vede a lato. La quarta è detta delle Mandre, perchè vi si macellano le vaccine. La quinta de’ bottari, per le botti, che vi si fanno; ed anche è detta dello speron del sale, per i magazzini di sale, che vi stavano. La sesta dicesi porta di mezzo. La settima di S. Andrea, per una chiesetta beneficiale, che se li vede vicino, L’ottava dicesi della pietra del pesce, perchè quivi si vende. La nona è detta della marina del vino, perchè vi sono magazzini, dove si vende quel vino che vien per mare, da Sorrento, Vico, ed altri luoghi della costiera. La decima è detta del Caputo, perchè v’abitava una nobile famiglia di questo nome. L’undecima è detta di Massa, perchè avanti di questa vengono le barche da quella città. La decima seconda è detta del molo piccolo, perchè da questa vi si entra. La decima terza è detta Olivares, perchè dal Conte d’Olivares fu aperta. La decima quarta dicesi dell’oglio, perchè quivi sbarcava l’oglio che per mare veniva; e dicevasi anticamente de’ Greci, perchè v’abitavano i negozianti di questa nazione. La decima quinta è detta della calce, perchè avanti di questa vi è un luogo dove si [p. 50 modifica]vende. La decima sesta e detta de’ Pulci, perchè presso di questa abitava una famiglia di tal nome 4.

Note

  1. Il Reame di Napoli, che nell’estendersi in piani inclinati, vien circondato dal Tirreno, dal Ionio e dall’Adriatico; tracciato dagli Appennini, che piegandosi, alle spiagge s’accostano; irrigato da fiumi, primi de’ quali il Garigliano ed il Volturno che tra ubertose terre discorrono; abellito da laghi, de’ quali il più ampio, il Fucino; abbondevole d’acque salubri; di sulfuree sostanze; di minerali; di cave di marmi; diviso dagli Stati della Chiesa al Nord-Ovest da una linea convenzionale tirata dallo sbocco del lago di Fondi alla foce del fiume Tronto; e da ultimo separato dall’Isola della Sicilia, (la quale ne forma parte) per lo stretto di Messina, mostra la sua Capitale, fra vulcaniche terre, nel più incantevole golfo della Penisola, che Cumano anticamente appellavasi, e che dal promontorio della Campanella, già Capo Atenèo, a quel di Posilipo, corre per ben settantatre miglia di giro.
       Napoli guarda a Levante il bicipite Vesuvio, di rincontro la sassosa Capri; il Sebeto, che perduta ormai l’avita grandezza, lentamente fluisce; la sepolta Ercolano; le delizie di Portici e di Resina, solenni più, perchè fatte triste dalle pietrificate lave del tremendo distruttore Vulcano; pur non temuto da’ popoli, che per religiosità del suolo, sulla terra quasi ancor calda a riedificare costantemente si affrettano; e presso all’ignivomo monte la Torre del Greco; e poi Pompei disepolta in parte, e che serba tuttavia nel suo seno monumenti i più preziosi di scienze ed arti; Castellammare; la vetusta Stabia; Vico; Sorrento sulle rupi, patria dell’epico cantor di Goffredo.
       A ponente i voluttuosi lidi di Mergellina, soprastati dai colli di Posilipo, e questi attraversati per opera ardimentosa dalla mirabile Grotta. Ed in questi colli, coronati di vivissimo verde, vestiti d’alti pioppi, di ombriferi pini, di viti pampinose e di rigogliosissimi aranci, la fervente gioventù accorreva per dilettarsi, mentre, come asilo di meditazioni, eran per Mario, per Pompeo, per Cicerone e Virgilio, che venivano ad ispirarsi ed a trovar calma e riposo in quell’eterno sorriso di natura; e quì i sepolcri dello stesso cantor di Enea e del Sannazzaro. E riandando alle trascorse età col pensiero, in queste amene regioni Pollione, e Lucullo il vincitor di Mitridate, eressero vaste mura e superbe, dimenticando nell’ozio beato gli allori colti sul campo della gloria! E quì il colle Ermeo che segnava i limiti tra Napoli e Cuma; l’isoletta Eupleia, nunzia d’ospitalità poco lungi dal lido, col suo tempio di Venere Doritide. Nisita, dove il gran Bruto ebbe supremo colloquio con l’Oratore d’Arpino, e ricevè l’ultimo addio dalla figliuola del magnanimo Catone; lidi visitati da Ulisse e da Enea; lidi che risuonan tuttora de’ carmi dell’epico Mantovano e di Omero. E da quì quale vista dì eterne magnificenze! Il monte Olibano; Pozzuoli, un tempo quasi seconda capitale dell’Universo, e troppo celebre per le sue memorie; Cuma, decantata da Livio; Baia, nel di cui seno ancoravano i navigli di Roma, donde ne partivan superbi per insazietà di conquiste; quella Baja ove gli antichi crearono i Campi Elisi, come documento nella terra di universali vaghezze; Miseno col suo porto eretto da Augusto, per difendere l’inferiore mar Tirreno; e qui Plinio, tra i nembi di brucianti ceneri e tra le onde che gli muggivan d’intorno, tutto assorto nelle investigazioni degli strani fenomeni, cadea vittima dell’ire della gelosa natura, che tenta sempre d’ascondere agli uomini i suoi misteri; Miniscola, in dove Cesare, Antonio, e Sesto Pompeo in discordanti concetti segnarono i fati che prostrarono la smisurata Romana repubblica; rupi dove stanno scolpite le origini d’Italia; scogli che ricordano i primi navigatori, le prime favole, la prima poesia; spettacolo fatto mille volte più caro dalla benignità del clima. Laonde il sole, spettatore un tempo di tante memorie, par che nel suo tramonto si diparta lentamente da queste spiagge deliziose, in cui Dio infuse l’idea del Paradiso terrestre!..
       Discorrendo Livio le origini di Roma, intendeva unicamente ad esporre quanto fu detto da’più lontani scrittori, senza pertanto tenere in conto di vero, o arguir di falso ciò che gli antichi ne avean narrato più con la poesia delle favole, che colla sincerità degli storici monumenti. E voleva data loro la venia di mescolar le umane alle divine cose, perchè i primordii delle città riuscissero più augusti, riputandosi, come attesta Marco Varrone, utile agli Stati che i lor cittadini si credessero originati dagli Dei, si che gli animi per la fiducia d’una stirpe celeste imprendessero grandi cose con ardimento, le proseguissero con forza, ed in tutto con felici speranze si adoperassero. A noi che viviam in un secolo di sottil critica non si vorrà non permettere l’andar indagando qual vero si asconda tra gli strani parlari in che fu tramandata la fondazione della nostra Napoli.
       Allorchè il nostro golfo mostrava gli incanti primitivi del suo cratere, e quando le succennate regioni nude apparivano delle Romane dovizie, ecco approdare un dì greco naviglio, scopritore forse dell’itale vaghezze; e scesi a terra i Greci, attoniti per le non viste ancora scene incantevoli, contemplavano innamorati il seno del mare, chiuso da curvi lidi, che in un magico orizzonte si perdono; e volgendo lo sguardo, scovrivano declinanti ciglioni, fatti di fuoco dagli ultimi raggi del sole che si celavan tra l’onde, cosicchè il saettare di quelli produceva sorprendente vivacità di tinte per luce riflessa. A quella vista, svegliossi un voto, un desiderio nei Greci, i quali da tanta ospitalità incoraggiati, si diedero a formare grandiosi progetti. E scoverto a Levante piccol seno d’un fiume, deliberarono di quivi erigere una città; ed innalzata un ara selvaggia come monumento di riconoscenza a’loro Numi, vedevan con ansia un cielo animatissimo, quasi assentimento di prosperità; e l’avvenire leggeva in tanto augurio il germe di sua potenza!
       E duce dei Greci era Eumelio Falero, uno degli argonauti, compagni di Giasone nella conquista del vello d’oro; il quale segnava le prime tracce di avventurosa città, cui dava nome di Falero; assai prima, come scriveva il Celano, della guerra Troiana, e perciò antecedente alla fondazione di Roma.
       Alcuni, indottivi da somiglianza di nome, erroneamente scrissero essere un tale Falero quel medesimo Siciliano, tiranno famoso per il toro di bronzo in che chiudeva i suoi ospiti per farveli abbruciare, quello che chiamato Falaride da altri, anche Falero è detto in Callimaco. Ma i nostri scrittori, senza tener conio di sì fatta autorità, si rivolsero a Falero argonauta mentovato da Apollonio di Rodi, da Valerio Fiacco e da Pausania; e nella Partenope di Licofrone riscontrarono or la figlia di Anteo e Samia, or una donzella arcade figliuola di Stinfalo, or una figliuola di Eumelo ricordato da Omero, la quale non potendo in patria portar la vergogna di grave colpa commessa, pensò uscire di Grecia e ridursi in lontano luogo a pianger l’error suo; onde postasi in mare con alcune compagne secretamente raccolte, giunse a questi lidi, dov’ebbe poi sepolcro. E siffatte cose con tal fidanza cotesti scrittori andarono osservando, da far incidere a basso rilievo, or fa due secoli e mezzo sotto un’antica testa, oggi chiamata Capo di Napoli, la seguente epigrafe: «Parthenopes Eumeli Phalerae Thessaliae regis filiae, Pharetis Creteique regum neptis proneptis quae Eubaea colonia deducta civitati prima fundamenta iecit et dominata est Ordo et Populus Neopolitanus memoriam ab orco vindicovit. MDLXXXXIIII.
       Al presente, per la luce degli etnografici studi, non è chi a queste capricciose e mal fondate opinioni dia credito. Da noi si tiene, che avendo lo stesso Licofrone parlato di Tebe, addomandandola torre di Calidno, e di Roma appellandola torre felice; egli volle intendere per torre di Falero, non la città così nominata da un Falero, ma sì veramente la torre della città chiamata Falero giusta il bizantino Stefano, il quale dice: È Falero una città degli Opici, dove naufragò Partenope la Sirena. Così ad esempio, chi avesse nominato la torre di Miseno, avrebbe potuto significare tanto la torre della città di Miseno, che la torre appartenente a Miseno trombettiere di Enea, da cui per quanto pretendevasi prese nome quel promontorio. Imperciocchè nella storia delle nazioni il talento di magnificare fa che spesso i nomi delle città in uomini si trasfigurino, quelle volendo fondate da raminghi eroi. Faleros poi non altro esprimeva se non un luogo marittimo, un luogo biancheggiante per il frangersi de’ flutti, chiamati da Omero falerioonta quando spumeggiano; come Selinunte e Buxento alla latina, due famose città nostre, non indicavano che il luogo da molti bassi, e il luogo dal molto appio. Al che pensando, saremmo quasi tentati di far valere cotesto Faleros, lo stesso che Cuma, così appellata dall’onde che andavano a frangersi nell’aspro suo lido. Che che sia di queste e di altre congetture, che per amore di brevità si tralasciano, se nissuna notizia più amica della torre di Falero ci fu tramandata intorno alle origini della città che abitiamo, è indispensabile indagar che gente avessela edificata.
       Nel silenzio di tutti gli scrittori, non ci sarebbe disdetto attribuir questo fatto a Pelasgi venuti a quelli Opicii o Ausoni che abitarono fin da’ tempi più remoti questa parte d’Italia, come attestavano Antioco, Polibio, ed Eliano, e che perciò furono da Virgilio chiamati antichi:

                   Antiqui Ausonii quae vos fortuna quietos
                   Sollicitat, suadetque ignota lacessere bella?

    (Aeneid. lib. 2° v. 240).


       E di vero molti Pelasgi giunsero allora alle nostre regioni, ed il nome stesso Falero affine si mostra a quegli altri parecchi, onde essi, come innanzi vedemmo, i luoghi contrassegnarono. Ma non sappiamo il certo tempo in che fu alzata la torre di Falero, e solo ci è dato conghietturar dalle parole di Licofrone essere stata anteriore a Partenope, una delle Sirene che vi ebbe la tomba. Ed eccoci a disaminare come e perchè la favola delle Sirene strettamente si leghi con la fondazione della nostra città.
       I vaticinî fin da’ tempi più antichi eran pronunzati cantando e dalle donne. Or le Sirene altro non furon che due di tali donne dalle terre dell’Acheloo venute fra noi su i navigli de’ Teleboi, le quali partite da un luogo famoso per i profetizzanti Cureti, approdavano a’ nostri, nelle cui vicinanze la negromanzia de’ Cimmeri era in gran voce. Scelsero à stanza Capri, luogo marittimo, perchè l’acqua credevasi dotata di profetica virtù, ed in quella spiaggia predicevano a’ viandanti il futuro. E siccome l’arte del canto è dono di natura conceduto largamente agli abitanti di questa parte meriggia d’Italia, però fu detto pronunziar quelle i loro vaticini con tale dolcezza di voce, che uomo ascoltandole, dimenticherebbe la consorte, la patria ed i figliuoli, anzi ridurrebbesi a perir di fame in lido straniero, come venne adombrato con i putrescenti cadaveri e con le ossa di che il re d’Itaca vide biancheggiare la spiaggia delle Sirene. Le quali cose dal nome stesso che portano quelle melodiche insidiatrici, rimangono confermate; imperocchè senza derivarlo coi fenicizzanti da cantico, crederlo potremo una onomatopea con che i Greci delicati esprimevano il soave mormorare dell’onde ed il dolce garrir degli uccelli. E chi non vede come tutte queste cose corrispondono appunto al modo come Omero ed i mitologi rappresentano le Sirene? Appena l’errante Greco passa loro dinnanzi, già sanno che chiamasi Ulisse, già conoscono le sue sventure, le sue battaglie, i luoghi dove furono combattute e con quali nemici; e questo non solo, ma quanto accade su la terra, che fu la scienza onde si pregiavan gli oracoli. Ma Ulisse seppe sfuggire alle insidie di quelle; chè l’uomo accorto non si lascia prendere nè agli accenti lusinghieri di femmina, nè alle ciurmerìe di che il volgo facilmente si pasce. Aggiungi la loro genealogia. Per indicare che si originavano dall’Acarnanìa furon dette nate dal sangue che grondò sulla terra quando Ercole ruppe il corno all’Acheloo; e perchè giunte quì per mare, furono da Sofocle chiamate

    Figlie di Forco che ubbidisce a Pluto.

       Or ne’ tempi sopravvenuti, l’Omerico racconto perdette la semplicità natìa. Le acheloiche donzelle diventaron tre, ebbero nomi significativi della bellezza, del canto e della castità loro, come Telxiepea, Aglaofeme, Leucosia, Ligea, Partenope che importavano, come un dire la modulatrice lusinghiera degli epici versi, la famosa per la voce, la canora, la bianca, la vergine. Furon chiamate figlie di Melpomene, e portarono in mano musicali strumenti da accompagnar la voce, ed ebbero ali per dinotare l’estro onde si alzavano alla cognizion del futuro, spiegando melodici voli. Indi a poco scapitarono nel valore del canto, e ciò fu inteso per aver osato di gareggiar ne’ versi colle Muse, le quali vintele, tarparon loro le ali per farsene ornamento alle trecce. Nè andò guari che perdettero quasi tutta la figura con cui Omero le dipinse. Se i loro vaticinî riuscivan graditi per soavità di melodìa, erano ad un tempo involti nella oscurità del significato. Per quella dunque le Sirene meritaronsi il nome di usignuoli, per questa vennero chiamate uccelli o rondini, appunto perchè inintelligibile è la voce de’ volanti, e come barbara fu tenuta da’Greci; onde parlar come uccello, e, che più è, come rondine, valse appo di essi un proverbiare che non si lasciava intendere. Adunque l’arte volendo significare in plastica o in pittura questa proprietà delle Sirene, non potè farlo che figurandole col corpo di uccello, e col viso di vezzosa vergine.    Alla fine, dall’isola in cui da tempo immemorabile avevano profetizzato, trasferite in altri luoghi dove morirono, quivi ebbero per la fama acquistata onori divini; e questo ne annunziarono i favoleggiatori narrando che vinte da Ulisse si gettassero per rabbia in mare. E di ciò tocca Licofrone allorchè ne’ suoi carmi dice Partenope sepolta in Napoli, Ligea a Terina, e Leucosia alle sponde dell’Ocinaro, comunque non mantenga la ragione de’ tempi in attribuire alle Sirene una forma che non avevano nell’epoca di Omero.

       Or tornando alla fondazione di Partenope, dalla quale per dare spiegazione di una celebrata favola che vi ha attinenza, ci siam dilungati, quando Stazio pretende che alla nave di una Partenope lo stesso Apollo avesse indicato col volo di guidatrice colomba le amene spiagge dell’Opicia, e che fossevi stata ospitalmente accolta, ben vedesi che il poeta una leggenda seguiva da quella di Licofrone solo in questo diversa, che secondo essa alcuni navigatori, trovato fra noi, o recatovi da Capri, il culto di Partenope, cioè di una di quelle donne fatidiche appellate Sirene, una città fondarono chiamandola Partenope dal nome di lei. E ciò fecero i Rodiani, al dir di Strabone, prima che i giuochi Olimpici s’istituissero, tutto che resti dubbio il preciso tempo di questo avvenimento, e se la colonia loro si fosse formata nel luogo istesso della torre di Falero, che mai più non troviam di poi ricordata, o poco discosto. Da ultimo voglion taluni che la novella città Partenope s’appellasse dal sepolcro, che, com’è fama, le ossa chiudesse d’una Partenope Calcidese, poggiati eziandio alle parole di Plinio: Parthenope a tumulo Sirenis dicta, e non a Sirene dicta. La quale opinione si fanno a sostenere, dicendo, che sendo Cuma fondata ed abitata da popoli originari di Cuma Calcidese, posta nell’isola Eubea, non abbia a recar meraviglia se poco a dilungo dalla città di Cuma fosse venuta a morire, e com’essi dicono, fosse stata sepolta la figliuola d’un possente Calcidese; quindi non dalla testa della Sirena sul sepolcro di Falero scolpita, ma dalla Sirena postavi dentro acquistasse Napoli il suo primo nome. Ci basta aver accennato quanto se ne dice in proposito, affinchè il lettore possa di per se considerare ciò che sembra contenere più di possibilità, ed alla sentenza migliore attenersi.

  2.    La fondazione di Napoli è avvolta, come si è detto, tra favolosi racconti, de’ quali sarebbe lungo formar discorso; e come oscura ch’ella è, in noi desta riverenza, quale cosa dall’antichità consacrata. Secondo Strabone, Livio, Lutazio ed altri autori, spesso incerti, talora fallaci a determinarla, ella è dovuta ad alcuni drappelli de’ Calcidesi-Euboici che avevano innalzata Cuma verso l’anno 1053 avanti l’Era volgare. L’amenità del suo cielo, e la fertilità del suo suolo ne attrassero altri in quantità tale, che temendo i Cumani di veder presto spopolala la patria loro, determinarono di atterrarla. Nell’atto dell’esecuzione furono travagliati da fierissima pestilenza; e ricorsi tosto all’Oracolo, fu loro imposto di edificare altra città che chiamarono Neapolis cioè città nuova, ripristinandovi il culto della Sirena. Per siffatta distinzione fu l’altra appellata Palaepolis, cioè città vecchia. E a tanto essi adempirono; siccome dagli storici e da parecchi numismatici monumenti impariamo, che in varia ortografia grecamente ci offrono. Inb seguito altri stranieri giungevano alla città nostra, cioè Calcidesi, Pitecusani, ed Ateniesi; talchè anche per questi nuovi abitatori fu conveniente che Napoli si chiamasse. L’Ateniese Diotimo fu appunto quello che ad onor di Partenope istituì il corso delle fiaccole, la Lampadodromia, giuochi di che i Napolitani, come quelli che i campi flegrei abitavano, pigliaron diletto, e che con magnifica pompa celebrarono annualmente. Se non che la città nuova in altro sito più bello sorgeva, ma non molto dalla distrutta lontano, la quale, dappoichè vi si trasferirono alcuni degli stessi Cumani, fu necessità chiamar l’altra, come dicevamo, la città vecchia. Perciocchè, se a spegnere la peste originata dalla distruzione di Partenope essi dovettero ristabilire il culto della diva, edificando Napoli poco distante dalla smantellata città, non poterono certamente vietare, che le famiglie superstiti della città vecchia vi ritornassero, custodite bensì e governate da quelle della nuova. Così, mentre si attendeva a fabbricare un’altra città, l’antica ripopolavasi, ed in ambedue gente di Cumana viveva. A questo alluse Tito Livio, a nostro credere, dicendo: Palepoli a’tempi suoi trovarsi al di là di Napoli, ma non a molta distanza, ed essere gli abitatori delle due città un solo popolo, e tutti originarsi da Cuma.
  3.    Nell’anno 467 di Roma gli abitanti dell’antica nostra Città, confidando nelle proprie forze, e anche nella sempre poco fedele compagnia de’ Sanniti verso i Romani, e forse eziandio nella pestilenza che dicevasi nata a Roma, molte cose fecero inimichevolmente contro que’ della Campania. Laonde questi dolevansi co’ Romani de’ danni che recava loro quella gente, sicchè essi spedivan legati a’ Napolitani, secondo lo scrittor patavino, a Palepolitani, secondo l’Alicarnasse, ai quali era commesso di ottenere: che nessuna ingiuria ai Campani recassero, ed il giusto lor dessero e ne ricevessero, e non le armi ma i patti ad ottenerlo adoperassero: ancora, dover eglino vivere in pace con que’ che abitavano le spiagge del Tirreno, nè far cose indegne del greco nome, nè soccorrere a chi ne facesse: sopratutto lor raccomandavasi di vedere se, adoperando la mediazione de’ potenti potessero discostare i Greci dall’amicizia de’ Sanniti, a quella de’ Romani volgendola. E tanto per parte di Roma: ma nel tempo stesso richiedevasi con grande sollecitudine per altri legati spediti da Nola amicissima a Napoli, e da quelli venuti da Taranto, personaggi illustri obbligati a’ Napolitani per vincolo di antica ospitalità: che se i Romani si valessero di siffatto pretesto affin di lor muovere la guerra, non ne avessero a temere; restassero fermi nel loro proponimento; combattessero da Greci; aspettassero aiuto da’ Sanniti e dai Tarantini, anche grosse e numerose navi da questi ultimi, se mai le proprie non bastassero. Così parlatosi molto da’ legati e da coloro che, teneri degli eleganti costumi, ne seguivano le parti, niente per quel giorno fu risoluto; se non che alquanti Sanniti ragguardevolissimi, giunti à Napoli e tenuto maneggi co’ più autorevoli della città, persuasero il senato de’ Greci, di commettere al popolo le deliberazioni del partito. Dinanzi al quale essendosi presentati, esponevano quanti benefizi avessero conferito a’ Napolitani, quanto i Romani fossero infidi e fraudolenti, e da ultimo promettevan soldati da custodire le mura, e ciurma da fornirne le navi: e perchè fossero affatto venuti nel lor proposito offrivansi a pagare ogni spesa di guerra, e a restituire i Napolitani nel possesso di Cuma, donde già i Campani gli avevano espulsi. Quelli fra Napolitani che avevano fior di senno, e prevedevan le triste conseguenze della guerra, si fecero a consigliar pace; ma v’eran pure di molti che ostinavansi nel contrario parere: onde le parti dissidenti, venute prima alle contumelie, passarono a’ sassi; ed avendo il popolo superato i patrizii e data una feroce risposta a’ romani legati, li accomiatarono, risoluti a vendicarla con le armi. Laonde il popolo di Roma con autorità de’ padri deliberò che si muovesse contro a’ Palepolitani; ed avendo i consoli sorteggiato le province, il governo della guerra toccò a Publilio Filone, restando affidato a Cornelio l’opporsi con altro esercito a’ Sanniti, se pur avessero da quella parte fatto alcun movimento. Il quale Publilio, non essendogli riuscito di prendere la città, la stringeva d’assedio, tenendo le sue schiere tra Palepoli e Napoli, e togliendo loro l’opportunità di recarsi scambievole soccorso, come per la vicinanza delle lor mura era dianzi avvenuto. Onde approssimandosi il giorno de’ nuovi comizii, e giudicandosi non esser utile alla repubblica far tornare Publilio Filone, tuttochè terminato il suo consolato, rimanersi proconsolo in campo al comando di quella guerra contro a’ Greci, tanto che fosse compiuta, come veramente accadde. Perciocchè oltre all’essere una parte di loro separata dall’altra, mediante le bastie, e munizioni fatte tra Napoli e Palepoli, eglino anche dentro alle mura, per cagione degli stessi soldati che le difendevano, pativan cose sozze e crudeli nelle mogli e ne’ figliuoli, che sogliono essere l’estreme miserie delle città affidate a gente nemica, e come ebbero udito che nuovi guerriesi lor mandava il Sannio e Nola, non bastando essi a por modo a’ pessimi diportamenti di costoro, parve manco male il darsi liberamente a’ Romani. Carilao e Ninfio, capi della città, essendo insieme convenuti, statuiron quel che ciascuno dovesse operare; e ciò fu che l’uno andasse al capitano dei Romani, e l’altro si rimanesse a pigliar la commodità opportuna di dare la terra. Garilao fu quello che venne a Filone, dicendo: «Con buono augurio e prospera fortuna de’ Palepolitani e del popolo Romano io ho deliberato di darvi le mura della città. Se si dovrà egli poi dire, che io con questa opera abbia tradito o conservato la mia patria, tutto sarà riposto nella fede vostra». Soggiungendo che quanto a sè non voleva fare alcun patto o domandare alcuna cosa privatamente, ma si bene che quanto alla repubblica chiedeva e pregava (se l’impresa gli riuscisse) che il popolo Romano pensasse con quanto studio e pericolo quella città fosse ritornata alla sua amicizia, piuttosto che con quanta stoltizia e temerità ella se ne fosse partita.
       Essendo stato lodato dal capitano, ebbe da lui tremila fanti per occupare quella parte della città ove alloggiavano i Sanniti, dicendogli che poichè tutto l’esercito Romano si trovava d’intorno a Palepoli, ovvero nel Sannio, lo lasciasse andare con l’armata d’intorno al territorio Romano; che saccheggerebbe non solamente la riviera e le maremme, ma anche i luoghi presso Roma; e aggiunse che, per meglio ingannare il nemico, bisognava notte tempo e subitamente mettere in mare tutte le navi. La qual cosa perchè si fosse fornita il più prestamente, tutta la gioventù de’ Sanniti fu mandata al lido, fuorchè la guardia necessaria della città Dove, mentre che Ninfio astutamente consumava il tempo in pruove e cresceva gli impacci della turba che saliva le navi, Carilao, secondo l’ordine dato, messo dentro da’compagni, poscia che ebbe pieno di soldati Romani le parti di sopra della città, comandò che si levasse un grido. Al quale i nostri Greci essendo stati informati da’principi, si stettero cheti; i Nolani si fuggirono dalla porta opposta per la via che mena a Nola; ed ai Sanniti chiusi dalla città, siccome per allora la fuga fu più commoda e spedita, così parve più vituperevole e vergognosa poi che furono fuori pericolo, come que’ che disarmati, avendo ogni lor cosa lasciato a’ nemici, scherniti non solamente da’ forestieri, ma da’ loro medesimi, spogliati e poveri si tornarono a casa. Datasi così la vecchia città a’ Romani, Napoli ancora pensò di rendersi, stringendo un patto d’alleanza, il quale costituì poi i diritti internazionali di Palepoli pure, come si trae da Livio che accennando a quello diceva: Eo enim summa rei Graecorum venit, intendendo per Greci quei di Palepoli insieme e di Napoli. Finita in tal modo la guerra, fu giudicato e per la stanchezza del lungo e duro assedio i nemici esser caduti in potere del popolo Romano; ed a Publilio due cose singolari primieramente avvennero, la prorogazione del governo non ancor più mai fatta ad alcuno, e finito tal magistrato, avere l’onore del trionfo. Ed ai Napolitani in forza di quella federazione fu conservata la autonomìa e conceduta la facoltà di militare e di ottener cariche nelle Romane legioni. E ad altro non vennero obbligati se non a pagare alcuna taglia invariabile, a somministrare un dato numero di navi, e a stare nelle controversie co’ finitimi a’ decreti del Campidoglio.
       All’ambascerìa spedita da’ Tarenlini a Napoli per indurla a combattere contro i Romani voglionsi riferire alcune monete di essa in argento, le quali ne presentano i suoi tipi uniti a quelli di Taranto. Alla federazione conchiusa tra Napoli e Roma si accennò con altra moneta di bronzo che offre i tipi di Napoli; ed al trionfo di Publilio Filone la seguente epigrafe de’ Fasti capitolini, donde si trae ancora che Paleopoli meglio di Palepoli si direbbe:

                        Q. Pablilius. Q. F. Q. N.
                        Philo, II Primus, Pro. Cos.
                        De Samnitibus, Palaeopolitaneis.

       Disceso Pirro in Italia, e non avendo potuto espugnar Capua, tentò d’impadronirsi di Napoli; ma inutile divisamento fu il suo. Chè questa all’alleanza Romana mantennesi costantemente fedele. Per la qual cosa dopo la battaglia del Trasimeno, i Napolitani spedirono ambasciadori per presentare al senato Romano niente meno che quaranta tazze d’oro massiccio e di gran peso, dicendo, per quanto Livio ne scrive: «Come eglino sapevan che l’erario del popolo Romano per la lunga guerra si vuotava di pecunia, e che facendosi la guerra parimente per il contado e per la città di Roma, capo e rocca principale di tutta Italia, e per la salute di tutto l’impero; i Napolitani avevan giudicato essere cosa ragionevole aiutare il popolo Romano con tutto quell’oro che dai loro maggiori o per ornamento de’ templi o per difendersi dai sinistri accidenti della fortuna era stato loro lasciato, e che s’ei credessero poter altrimenti porgergli aiuto con la medesima prontezza d’animo volentieri gliel’offrirebbero»: soggiungendo appresso «che il senato ed il popolo Romano farebbero ad essi cosa «molto grata stimando esser loro ed accettando come cosa loro, tutte le facoltà de’ Napolitani, e giudicandoli degni da cui si ricevesse un dono maggiore e più prezioso per l’animo e buona volontà di quegli i quali lo dessero, che per la stessa qualità sua». Ma dopo queste parole agli ambasciadori furon grazie rendute sì per la liberalità e munificenza, sì per l’amore ed affezion loro; e solo fu accettata la tazza di minor peso.

       Da questi tempi non eran decorsi pochi anni, che un nuovo fortissimo nemico minacciava le antiche mura di Napoli. Dopo la disfatta di Canne, Annibale, lasciato in Compsa Magone con una parie dell’esercito, tolse con se i rimanenti soldati ed avviossi per l’Agro Campano col disegno di espugnarla per aversi una città Marittima. Toccati i confini de’ Napolitani, con quanto più di arte riuscivagli, nascose alcuni Numidi fra le molte cave e gli occulti seni che presentavan que’ luoghi, e agli altri comandò che cavalcassero innanzi alle porte della città, mettendo in mostra la preda fatta nelle campagne. Su quali, perchè pochi e sparpagliati, piombò una torma di cavalieri; che fu tratta negli agguati e chiusa in mezzo da coloro che ad arte cedevano; onde molti giovani nolani rimasero uccisi, e tra essi il comandante della cavalleria Egea, che con soverchio ardire inseguiva tutti i fuggitivi; e non uno pure de’ Napolitani avrebbe scampato la morte, se gettatisi a nuoto nel vicino mare, sopra alcune barche pescarecce salvati non si fossero. Ciò non ostante come il cartaginese ebbe veduto di che mura la città fosse munita, disperò di conquistarla e ritirossi a Capua. Dove, quantunque gli insinuassero ad impadronirsi del porto di Cuma, giacchè quel di Napoli non avea potuto occupare, pure quest’ultimo ognora preferiva, nè lasciava di tentare i Napolitani or con la speranza, ed or col timore, ma sempre indarno. Laonde ricondotto avendo i soldati a Nola, ed essendone stato respinto, si volse a Napoli di nuovo; ma, saputo che la città aveva chiamato in soccorso un presidio di Romani capitanati da Giulio Sillano, abbandonò una volta per sempre l’impresa.

       Concedutasi per la legge Giulia la piena cittadinanza agli italiani col dritto di ascriversi alle tribù di Roma, di adottarne alcune leggi, e di esercitarne le magistrature, molto e lungamente i Napolitani con que’ d’Eraclea disputarono per vedere se dovessero o no accettare quel favore tanto dagli altri Italiani ambito, e risoluto alfine il sì, Napoli divenne Municipio. Sicchè i nobili giovanetti vi portavan la bolla d’oro, vestivano la pretesta, ed avendo il richiesto censo, divenir potevano Senatori Romani. In processo di tempo fu anche immune da ogni tributo, non certo per favore di Cesare adirato per i sacrifizî da essa offerti a’ numi per la salute di Pompeo, nè per l’asilo dato a quel Tiberio Nerone tanto nemico a’ Cesariani, ma sì per lo buon volere d’Augusto. Perciocchè costui, divenutagli sposa la moglie di quell’esule, non volle che senza premio restasse la generosa ospitalità concedutale dai Napolitani, e statuì che col resto della Campania formassero una delle undici regioni dell’Italia. In seguito, essendosi con tutti gli altri Greci disgustati, furono obbligati ad accogliere i nemicissimi Campani, e tollerar che ne occupassero gli uffizi, come facevasi chiaro a Strabone da’ nomi de’ magistrati, un tempo greci soltanto, di poi a’ Campani mescolati. Parecchie tracce pertanto sotto Tiberio vi rimanevano di greche istituzioni, come i ginnasi, gli efebei, e sopra ciò i nomi greci che si assumevan dagli stessi Campani, quantunque avessero le romane leggi adottato. Sicchè costoro non più usavano le tre parole del prenome del nome e dell’agnome, ma si facevan chiamare con elleniche voci.
       Sotto Adriano Napoli continuò ad essere considerata qual parte della Campania, che allor formava una delle diciassette province in che quell’imperadore divise l’Italia. Alla fine divenne colonia Romana, anzi fu colonia basilica o augusta come fu detta da Petronio, e tale dichiarata fra l’anno 493 ed il 211 avanti la nostra salute, secondo che da’ più critici si opina, e così rimase fino all’imperator Coslantin.
       Dopo tutto ciò, farem tesoro di ragionata memoria di patrio scrittore, poggiata ad autorevoli chiarimenti, come quella che mira ad illustrare il più difficoltoso punto della nostra patria storia, cioè dell’antico sito di Napoli e di Palepoli.
       Non havvi, egli dice, nell’antica storia e nella topografia delle nostre contrade punto più controverso, e che presenti maggiori difficoltà ed incertezze, quanto la rispettiva situazione di Napoli e Palepoli nel terzo secolo innanzi l’era volgare. La poco particolarizzata narrazione di Livio, il solo degli antichi storici che di Palepoli faccia menzione, la mancanza di amichi monumenti ad essa spettanti, i quali avrebbero potuto con qualche fondamento indicarcene il sito, ed i tanti sconvolgimenti, cui, per opra specialmente del vicino Vulcano, il nostro littorale è andato soggetto, hanno resa assai malagevole una tale investigazione, ed han fatto sì, che i moderni scrittori, scissi in diversi sentimenti, chi in un sito e chi in un altro han voluto collocare quell’antica città. Nè è mancato pure chi per uscir d’impaccio ha opinato doversi emendare in qualche parte il testo dello storico Padovano; e chi, credendo scorgere nel racconto del medesimo alcune contradizioni, ne ha voluto per fino negare l’esistenza. Ciò non pertanto non potendosi senza un importuno scetticismo smentire l’autorità di uno scrittore comparativamente a noi assai vicino ai tempi di cui narra i fatti; nè poggiando dall’altra parte la correzione proposta dal Martorelli e dal Vargas sopra il confronto di codici antichi e più corretti, si è ormai, dopo lunghe ed ostinate dispute, convenuto nel fissare il sito controverso di Palepoli all’oriente dell’antica Napoli. Or questa opinione, che a prima vista sembra la più verosimile, essendo stata da noi lungamente posta a disamina, ci è sembrata alquanto dubbiosa, e nello stesso tempo non ben dimostrata dalle parole di Livio, che, attentamente meditate, c’inducevano anzi in una sentenza del tutto contraria. Quindi è che abbiam creduto essere opra forse non inutile per la patria storia, sottomettere al giudìzio de’ dotti le nostre congetture su questo disputato argomento, e colle medesime esporre anche alcuni dubbii intorno a varie opinioni sull’antico sito di Napoli, le quali, comunque men controverse, pure non vanno esenti da gravi difficoltà. E ciò facciamo, se non senza esitazione, pure con qualche speranza, che e le une e gli altri vorranno senza preoccupazione esaminarsi da coloro, che in simili ricerche non si arrestano a copiare le altrui opinioni, comunque generalmente adottate, ma procurano coll’arte critica indagare, se le medesime sieno o pur no fondate, e per quanto è possibile autenticate da valevoli documenti.

       Senza ripetere ciò che si è narrato intorno alla prima origine, alle varie denominazioni, ed alle più remote vicende della nostra città, crediamo che si possa con qualche fondamento epilogare dalle diverse testimonianze degli antichi confrontate e ravvicinate tra loro. E lasciando tutto quello che non fa propriamente al nostro proposito; e pria di congetturare il sito di Palepoli, fa d’uopo indicare innanzi tratto qual fosse quello di Napoli ai tempi di Augusto; imperciocchè avendo detto Livio che Palepoli era non molto lontana dal luogo dove vedevasi Napoli a tempi suoi, è chiaro che non può stabilirsi il sito della prima, se non si conviene su quello dell’altra.

       Or egli è indubitato, che Napoli al tempo de’ Romani occupava quasi tutto il presente quartiere di S. Lorenzo, e piccole porzioni de’ quartieri Vicaria e Mercato a levante, Pendino e Porto a mezzogiorno, toccando appena quello di S. Giuseppe a ponente. I pochi avanzi dell’antica città, che possono tuttavia notarsi nelle bellissime colonne di S. Paolo, nelle muraglie di laterizio lavoro, forse reliquie del celebre teatro napolitano all’Anticaglia, ed in pochi altri rottami di colonne e di marmi sparsi per le vie delle indicate regioni, nonchè le innumerevoli vestigia di antichi edificii ivi per 1e concordi testimonianze de’ patrii scrittori rinvenute, ci attestano ben ampiamente, che in quel sito doveva allora sorgere Napoli. Ma quale fosse poi stato il preciso perimetro della medesima, quale il giro delle mura che la cingevano, questo è ciò che non si può in tutte le sue parti con egual certezza determinare. Ciò non pertanto i nostri scrittori da alcuni avanzi di antiche muraglie han tentato in qualche modo d’investigarlo, ed il Lettieri, che fu il primo ad occuparsi di una tal ricerca, nel seguente modo cerca di definire l’antico ricinto. Principia da Portareale, cioè vicino il Gesù nuovo, donde per Porta Donnorso o sia San Pietro a Maiella, tira alla Porta di Costantinopoli, e poi voltando verso levante pel Monistero di Santa Maria del Gesù, Santa Sofia, Castel Capuano, e Chiesa della Maddalena gira per Saprammuro a Forcella, pel vico de’ Taralli e Fondaco dello colonne, e per sotto S. Agostino; di là dalla parte del mare segue il circuito delle mura per la Fontana de’ serpi, per sotto le case dei Cuomo ora Monistero di S. Severo al Pendino, per li Ferri vecchi e per sotto S. Severino; indi include nel ricinto della città l’alto del Gesù vecchio e di S. Giovan Maggiore, giunge sino a S. Maria la nuova, e in ultimo dalla parte di ponente, voltando per Montoliveto, ed includendo il palazzo Gravina, va a raggiungere il punto, donde è partito al Gesù nuovo. Alquanto diversa è la circoscrizione dell’accuratissimo Fabio Giordano. Egli incomincia il suo giro dalla Chiesa di S. Agnello a capo di Napoli, donde per il Monastero di S. Andrea delle Monache, pel palagio del Principe di Conca, ora S. Antioniello, e pel Convento di S. Domenico, và all’abolito Monistero di S. Girolamo. Di là per sotto l’Università cingendo, S. Marcellino e S. Severino, giunge ai Ferri vecchi ed alla Zecca, volta indi per S. Agostino tirando verso Sopramuro e la Maddalena, donde, pel Supportico dei Caserti gira a S. Maria Agnone, S. Sofia e Chiesa de’ Ss. Apostoli, e da questa finalmente, per mezzo del Monistero di Donnaregina e pel Gesù delle Monache, torna a S. Agnello dove aveva cominciato. I susseguenti scrittori quasi tutti seguirono questa circoscrizione del Giordano, eccetto che il Summonte ed il Carletti; il primo de’ quali restringeva alquanto verso l’oriente il perimetro della città, voltando la linea delle muraglie da Donnaregina per l’Arcivescovado, e tirando pel vico de’ Carboni a Sopramuro, forse per favorire il suo sistema di porre Palepoli alla Pace; ed il Carletti al contrario l’allargava poca cosa verso ponente, cioè fino a S. Chiara ed ai Banchi nuovi, distinguendo però in questo circuito Napoli che situava dalla strada di Nido in su, e Palepoli che poneva da questa in giù verso il mare.

       Or le esposte circoscrizioni non pare, che ammettino difficoltà o dubbiezza pei lati d’oriente e di settentrione, nei quali esse sono anche tutte concordi. Ivi infatti la linea delle murazioni è determinata non solo dalle reliquie di muraglia rinvenutevi, ma anche più da’ varii sepolcreti scavati a breve distanza dalla medesima, i quali essendo, come è noto, posti negli antichi tempi fuori l’abitato, fanno quasi precisamente conoscere fin dove allora Napoli da quella parte stendevasi. Sol che dovrebbesi a nostro credere includere nell’antico ricinto anche la Chiesa dei Ss. Apostoli, che dai patrii scrittori ne viene esclusa, sì perchè era essa sicuramente in città nel quinto secolo dell’era volgare, sì anche perchè moltissime antichità, e tali, da far supporre l’esistenza di un tempio, furono altre volte in quel sito rinvenute. Non possiamo però dir lo stesso del lato occidentale. Ivi, e propriamente da S. Pietro a Maiella fino a S. Giovanni Maggiore, la linea delle antiche mura segnata dal Giordano, e seguita da quasi tutti i recenti nostri scrittori, vien contradetta non solo dal Carletti che per S. Sebastiano la tira fino ai Banchi nuovi, e dal Lettieri anche più che pel Gesù nuovo e via Carrozzieri la spinge fino a S. Maria la nuova; ma anche da alcuni contrarii argomenti che rendono alquanto incerto e dubbioso l’antico giro delle mura da quel luto della nostra città. Ed infatti senza parlare del monistero di S. Arcangelo a Morfisa posto, ove ora è S. Domenico, o dell’Estaurita di Nido posta nel Pallonetto di S. Chiara, edifizii che nel 1116 e 1221, diconsi situati in città, egli è indubitato che l’antichissimo Monistero di S. Sebastiano, che comunemente vuolsi inchiudere dentro le mura coll’ampliazione di Re Carlo II d’Angiò per documenti sicuri nel 1000, nel 900, ed anche prima, stava dentro il ricinto della città. Che anzi se questo Monistero è lo stesso, come pare assai verosimile, di quello nominalo dal S. Padre Gregorio nelle sue epistole; e se la leggenda di S. Patrizia fa pure parola del medesimo, noi abbiamo le pruove di questo nostro sentimento in scritture del sesto e del settimo secolo dell’era volgare. Così pure la regione di Albino, cioè quel tratto che da S. Giovanni Maggiore a Dannalbina si distende, se non ne’ tempi romani, come potrebbe inferirsi da un’antica tradizione riportataci dal nostro Giovanni Villani, certo prima dell’800 era una contrada della nostra città. Epperò tutte queste ragioni ed anche più le reliquie di antichi edifizi rinvenute dietro alla piazza dei Banchi nuovi e sotto il campanile di S. Giovanni maggiore c’inducono a credere che o la linea delle mura fosse al tempo de’ romani posta alquanto più all’occidente di quella segnata dal Giordano, o che, come parci più verisimile, un subborgo fosse quivi esistito, da Mezzo cannone verso occidente e mezzogiorno, parte del quale, sia nella deduzione della colonia fatta in Napoli forse da Tito, sia in qualche ampliazione successiva avvenuta sotto Adriano o sotto gli Antonini, come, seguendo per avventura un’antica tradizione, il Pontano asserì, venisse al corpo della città aggregato. In tal modo si verrebbero a conciliare le divergenti opinioni di questi benemeriti nostri scrittori, e nello stesso tempo verrebbero a distruggersi le obiezioni che potrebbero farcisi per quei ruderi di mura e di porta rinvenuti, sotto la guglia di S. Domenico, donde si vorrebbe ivi fissare la linea delle mura ed una porta che chiamasi Cumana o Puteolana. Imperocchè, ove non si voglia crederli un avanzo piuttosto di qualche antico edifizio, come noi pensiamo, perchè di opra laterica e diversa dalle altre vestigia di muraglie finora rinvenute, potrebbero benissimo attribuirsi ad una qualche murazione più vetusta.
       Passando infine al lato meridionale della nostra città, i patrii scrittori proseguono a fissare il circuito delle mura per sotto l’Università, S. Marcellino, strada de’ Ferri vecchi, Fontana de’ serpi e S. Agostino, tutti luoghi, dove alcuni residui di esse in grandi lastroni di pietre già furono osservati. Tutto il resto, che ora dal lato suddetto al di là di questa linea si distende, credono essi, che fosse al tempo de’ romani occupato dal mare, e che tra S. Giovan Maggiore, ed il Gesù vecchio si fosse allora aperto l’antico porto di Napoli. In pruova dì questo lor sentimento adducono: 1. la denominazione di Porto che ha tuttora il luogo, ov’era l’antico sedile, e la regione circostante; 2. le reliquie di un antico edificio trovate ai tempi del Celano dirimpetto la fontana di Mezzocannone, e da lui credute avanzi di un fanale 3. alcuni anelli onde tener ligate le navi rinvenute nel secolo scorso sotto S. Marcellino. Se non che alcuni, trovando molto angusto lo spazio che abbiam di sopra indicato pel porto di una città grandemente dedita ai traffichi ed in quel tempo assai famosa nelle cose di mare, ne hanno allargato i limiti da un lato, e lo fanno distendere fino al Molo piccolo, come pensò il Romanelli, o anche fino a Buoncamino, secondo opinava il Carletti. Soggiungono indi, che riempito questo antichissimo porto, un altro se ne fosse formato ne’ mezzi tempi vicino S. Onofrio, ove un vicolo ebbe, ed ha tuttora il nome di Lanterna vecchia. Dicono infine che essendo quest’ultimo divenuto anche insufficiente all’ancoraggio di molti navigli, ed al commercio della sempre crescente popolazione della nostra città, si fosse edificato il Molo che, a paragone dell’altro che seguitò ad usarsi pei piccoli bastimenti, si disse, e tuttavia si dice Grande, come presso gli scrittori il secondo de’ porti sopra mentovati ebbe il nome di Mezzo. Sull’epoca poi di questi interrimenti, sugli autori del porto di mezzo del Molo piccolo e del grande, ne sono discordi le opinioni; poichè il Carletti ed il Romanelli attribuiscono il riempimento del porto di mezzo alla tempesta del 1343, il Summonte fa Carlo II. autore del Molo piccolo, mentre che il Sarnelli attribuisce al medesimo il Molo grande, ed il d’Ambra infine attribuisce la fondazione del Porto di mezzo a Carlo II., l’interrimento del medesimo alla tempesta di sopra cennata, e quindi l’edificazione del Molo piccolo ai tempi medesimi, e quella del Molo grande, già in parte comincialo da Carlo II, ad Alfonso I. d’Aragona.

       Queste sono in breve le principali opinioni de’ patrii topografi intorno ai porti della nostra città, ed alla regione ad essi circostante; opinioni che noi non crediamo poter quì minutamente esaminare perchè ci porterebbero assai lungi dal nostro argomento. Ci basti solo accennare le principali ragioni, per le quali alcune delle surriferite opinioni ci son sembrale assai dubbie, ed altre affatto erronee, o prive di storico fondamento. E per vero che il mare avesse a’ tempi de’ Romani coperta tutta la parte bassa di Napoli, non ci par ben dimostrato nè dalla volgare tradizione che non è appoggiata ad alcuna testimonianza di antico scrittore, nè dai depositi di sabbia ed altri oggetti marini trovati sotto le fondamenta di alcune case nella strada di Porto e nella piazza del Mercato, i quali non pruovano altro se non se il parziale allontanamento del mare da quei luoghi, e le ampliazioni avute ivi dalla città in tempi a noi più vicini, e delle quali ci rimangono sicure memorie. Che anzi le varie reliquie de’ Romani edificii trovate assai sottoposte all’attual suolo della città, non che quelle rinvenute lungo il littorale nella strada degli Armieri a Portanova, nel sito dell’antico sedile di Porto, verso il porto ed il Molo piccolo, e finalmente nell’angolo orientale del Cantiere della Darsena in siti assai sotto il presente livello del mare ci fan credere l’opposto e ci fan sospettare che tutti questi luoghi in quei tempi anzi che inondati da flutti, come vuolsi pretendere, erano per lo contrario coperti di abitazioni, sia che fossero inclusi nel ricinto della città, e la linea delle murazioni fosse posta alquanto più verso mezzogiorno di quella dianzi segnala, sia che lungo il lido, come noi pensiamo, fosse allora un qualche sobborgo esistito.
       Vero è che, a conciliare i fatti sopra esposti colla volgare tradizione, fin dal secolo XVi il Lettieri ed il Loffredo, e non ha guari con più preciso il cav. Nicolini, han creduto che il mare verso l’era volgare fosse stato nel livello attuale, o anche più basso; che indi elevatosi, avesse inondando tutta la regione inferiore di Napoli, e che infine si fosse di là a poco a poco novellamente ritratto; colla quale opinione quei benemeriti scrittori cercavano di sciogliere le non poche difficoltà, che questo argomento presenta. Ma noi non possiamo, per mancanza di ragioni sufficienti, nè ammettere nè negare una tale ipotesi in tutte le sue parti. Solo possiamo dire, che se il mare inoltrossi un tempo nella regione inferiore di Napoli, ciò avvenne tra la caduta dell’impero romano ed il X secolo dell’era, non potendo per quel che abbiamo detto di sopra fissarsi un tale avvenimento in un’epoca anteriore; nè per quel che ricaviamo da altri documenti protrarsi a tempi più recenti. Oltre a ciò, data per vera una tale ipotesi, parci che l’inondazione debba sempre limitarsi alla linea ora segnata dalle strade di Porto, Lanzieri, S. Pietro Martire, Orefici, e S. Eligio o poco più, non trovandosi finora a nostra notizia orme del mare in luoghi al di quà di questa linea. Al di là di essa, certo è che il mare ne’ tempi posteriori ritiravasi lentamente dal sito che avea prima occupato, come può ricavarsi dalla memoria di varii luoghi o edificii ivi posti, i quali cominciano a nominarsi nelle vecchie carte dal X e XI secolo in poi. Che anzi nel secolo XII abbiamo puranche una pruova positiva dell’indicato fenomeno in una antica cronaca, ove all’anno 1112 è riportato essere il mare retroceduto da Napoli circa 40 passi.
       Per quanto poi riguarda l’antico Porto, che i patrii topografi pongono tra S. Giovanni Maggiore ed il Gesù vecchio, oltre alle ragioni che abbiamo addotte di sopra parlando del livello del mare al tempo de’ romani, è puranco da osservare che, tranne ciò che rilevasi da Dione Crisostomo (Oration p. 288), il quale nel secondo secolo dell’era ci descrive il nostro Porto come sottoposto alla città, non altro troviamo dagli antichi rammentato, se non che la tranquillità e sicurezza che il medesimo aveva a quei tempi. D’altronde la denominazione di Porto che usavasi ed usasi tuttora ad indicare un’intera regione della nostra città, non ci sembra un sufficiente argomento a fissare con precisione l’antico suo sito, nè i ruderi di quell’edificio laterico osservati dal Celano sotto l’antico refettorio de’ PP. Gesuiti, cioè quasi dirimpetto la fontana di Mezzo cannone e da lui creduti avanzi di un fanale sono bastanti a farci credere ciò. Dapoichè è certamente assai strano, che il Faro fosse posto non già sulla estrema punta del Molo, come sarebbe naturale, ma nell’interno del Porto, e secondo la stessa circoscrizione stabilita dal Celano, proprio a piedi delle mura della città. Nè in fine gli anelli da tener legate le navi trovati nello scorso secolo sotto S. Marcellino possono provare alcun che, ove si rifletta, che i medesimi erano osservati in un sito, forse all’attuale livello del mare, certamente alle reliquie de’ romani edificii, superiore. Quindi è che noi troviamo, se non altro, assai dubbia l’opinione surriferita de’ nostri scrittori circa il sito di quest’opera al tempo de’ romani.
       Nei tempi poscia che decorrono dalla caduta dell’impero romano fino al secolo XII, noi abbiam memoria di varii porti della nostra città, senza però alcuna precisa indicazione del loro sito. Così Procopio, facendo parola dell’assedio posto a Napoli da Belisario, rammenta un Porto posto fuori il tiro delle frecce degli assediati, e lontano dalla città; ed altrove raccontando la presa della medesima nostra città fatta qualche anno dopo da Totila, ne accenna un altro contiguo, come pare, alle mura di essa. Così Erchemperto nell’VIII secolo indica un Porto equoreo, e dice che tra quello e le mura della città furono collocati i Saraceni dal duca Attanasio. Cosi pure nella Cronaca Vulturnense troviamo rammentato un fondo donato al monastero di S. Vincenzo del Volturno, e posto in portu Neapolitano. E solo di quest’ultimo possiamo in qualche modo congetturare il sito dall’isoletta e torre detta di S. Vincenzo che era posta nell’entrare la Darsena attuale, e che forse dal detto fondo donato a quel Monistero prese un tal nome.
       Verso il secolo XII e nel seguente incominciansi poi ad avere meno incerte notizie su tal proposito; poichè in un documento del 1167 si menziona il Castellone nuovo ad portum, e nelle vicinanze la via Fontanula e l’Archina del Re, ed in un altro istrumento del 1268 si rammenta la Chiesa S. Thomasi ad portu, e tra i confini il muro antico della citià, l’acqua che scorre dal Fusario e la Ecclesia S. Jasinae. Or siccome l’Archina nominata nel primo documento era posta dove poscia fu edificato S. Pietro Martire, la via Fontanula è quella ora detta Mezzocannone, e la Chiesa di S. Tommaso al Porto è quella tuttora a quel Santo intitolata che vedesi nella Strettola di Porto (V. Cautillo l. c.), ove pure altra volta esisteva una Chiesetta di S. Biagio; così a noi pare che nel porto ivi nominato vengasi ad indicare l’attuale Molo piccolo.
       Di un altro Porto abbiam memoria nel 1275 in un diploma del Re Carlo I d’Angiò, dove si parla delle case Sanctae Mariae de palatio prope portum Neapolis. E con esso, poiché la Chiesa di S. Maria di Palazzo era verso Castelnuovo, pare, che s’indicasse quello, che allora si diceva anche Porto Pisano, dalle logge e dalla Chiesa di S. Giacomo, e che quei di Pisa tenevano accanto al medesimo. E questo pure fu, secondo che a noi pare, quel Porto fondato, o per meglio dire ampliato da Carlo II nel 1502 colla costruzione di un Molo, che d’allora in poi fu detto Molo grande in comparazione di quello antecedentemente nominato, che si disse e tuttavia si dice piccolo. Ne’tempi posteriori fu chiamato Molo di mezzo quello che divideva l’uno e l’altro Porto. E questa espressione usata da qualche cronista e dal Summonte induceva in errore il Carletti ed i copiatori del Celano, e li faceva immaginare un nuovo Porto posto tra mezzo il grande ed il piccolo, che collocavano in siti, all’epoca cui essi si riportano, interamente abitati. Oltre questi in tempi più recenti troviam rammentato il Porto di S. Vincenzo posto nelle vicinanze della Torre già detta, ed il Porto dei Provenzali posto dalla parte di S. Lucia. Delle opere posteriori finalmente non occorre qui parlare, non menando ad alcuno schiarimento della materia che trattiamo.
       Da tutte le cose di sopra esposte sembra adunque abbastanza dimostrato, che la nostra città al tempo de’ Romani fosse alquanto più estesa verso mezzogiorno ed occidente di quello che comunemente si crede, sia che la linea delle mura dovesse più in là situarsi, sia che, come pare più verosimile, in quei siti fosse esistito quel sobborgo, di cui favella Filostrato verso il terzo secolo dell’era volgare. Collocata sull’alto, essa aveva il Porto sottoposto, ed era difesa da mura solidissime, che, secondo il dire di uno storico, facevano rilevare l’antica potenza del popolo che l’aveva fondate. De’ magnifici edificii che l’adornavano non facciam parola per non dilungarci dal nostro argomento; Solo vogliam rammentare che da Cicerone (Pro Rab. Post. c. x.) vien chiamata celeberrimum oppidum, e più tardi da Giuliano Imperadore (nel Misopog.) si diceva popolosissima, il che notiamo, onde dimostrare non essere stata una tanto piccola città, quanto alcuni vorrebbero supporre.
       Stabilito così per quanto è possìbile l’antico sito di Napoli possiamo ora discendere a divinare il luogo, dove era posta Palepoli prima che fosse in parte distrutta, ed in parte ridotta a sobborgo della vicina città.
       Analizzando il racconto di Livio, si rileva in prima che Palepoli ai tempi del medesimo non più esisteva. Palaepolis fuit, dic’egli, e quindi non può accogliersi l’opinione del Pellegrino che congetturò essersi Palepoli e Napoli riunite in una sola città ai tempi di Augusto, che sono gli stessi dello storico. Si rileva che fu non molto lungi dal sito, ove allora era Napoli haud procul inde uhi nunc Neapolis sita est; e con ciò Livio, volendo indicare il sito di Palepoli che non più esisteva, si riporta a quello di Napoli dei tempi suoi. Noi abbiamo di sopra cercato qual fosse questo al tempo de’ Romani, ma non deve credersi, che la nuova città fosse stata nel terzo secolo innanzi l’era volgare precisamente tale quale poscia era, allorchè per l’aggregazione della stessa Palepoli divenne una delle principali città del nostro littorale. Basta soltanto ritenere per fermo, che Napoli, comunque ristretta in più breve perimetro, ivi fosse posta al tempo di cui discorriamo. Alcuni a quell’inde vorrebbero anche dare una forza maggiore di quella che il significato della parola richiede, e lo interpetrano di là, in modo che scrivendo Livio in Roma con quel vocabolo, sarebbe venuto ad indicare il sito di Palepoli dalla parte orientale di Napoli. Ma non pare che debba darsi una tale intelligenza a quello avverbio, non essendovi nel discorso alcuna espressa relazione con altro sito fuori che con Napoli.
       Duabus urbibus populus idem habitabat, e queste parole dello stesso Plinio ci porgono l’opportunità di esaminare, se Palepoli e Napoli fossero state due città affatto distinte tra loro, o due parti di una sola e medesima città. Il V. Sanfelice (Campan. p. 17) crede che un solo ed unico ricinto rinchiudesse l’una e l’altra, e non rinviene alcuna distinzione tra le medesime. Il Rossi per l’opposto (l. c.) dal sopracennato modo di esprimersi dello Storico crede poter arguire, che esse comunque abitate da un istesso popolo, non con un solo ed unico, ma con un diverso e separato reggimento si governassero. Ma nè l’una nè l’altra di queste opinioni può con fondamento ammettersi; imperocchè non pochi contrarii argomenti, e più d’ogni altro il contesto intero del racconto di Livio, che abbiam di sopra riportato, assai chiaramente a nostro giudizio ci dimostrano, che Palepoli e Napoli fossero due parti di una sola città, materialmente distinte tra loro, ed ambedue da proprie mura circondate; onde a buon dritto ciascuna di esse potea chiamarsi città (urbs), formavano nelle pubbliche cose un solo e medesimo Municipio (civitas). Con questa avvertenza, che in Palepoli allora risedeva il Magistrato dell’intera città, ed il comune Consiglio; talchè in essa si trovano Ninfio e Carilao, che Livio chiama Principes civitatis, ed ai Palepolitani si dà quasi tutto il carico della guerra con Roma. E che esse infatti fossero due parti da una sola città divise da non molto spazio tra loro e da rispettive mura circondate, noi lo desumiamo principalmente dalle stesse parole dello storico, ove narrando, che Publilio, avutane l’opportunità, erasi posto tra Napoli e Palepoli a fin d’interrompere le vicendevoli comunicazioni de’ nemici, soggiunge, che in conseguenza di ciò pars parti abscissa erat; e quindi fa comprendere, che la parola urbs da lui usata nel principio del racconto, debba interpetrarsi nello stesso modo, con cui egli discorrendo di Siracusa (I. XXV. c. 25), descrisse Napoli e Tica, che erano, secondo egli dice, nomina partium urbis et instar urbium. Nè solo Napoli nostra vedevasi allora divisa in due regioni così ampie e distinte tra loro, che potevano chiamarsi città: poichè oltre di Siracusa, anche di Emporia rammenta ciò il Pellegrino, che fu detta da Strabone (I. III) essere divisa in duas urbes; e di Palermo, che secondo Polibio (I. I) aveva una parte che chiamavasi Napoli, ed un’altra Palepoli, In tal modo può senza inverisimiglianza spiegarsi il perchè Dionigi d’Alicarnasso, parlando precisamente di questa guerra, non fece affatto menzione di Palepoli, e nominò solamente Napoli. Imperocchè, essendosi, come noi pensiamo, col tempo dimenticata la distinzione della vecchia e nuova città, ed avendo quella parte che dicevasi Napoli presa la somma delle cose, nel mentre l’altra o distrutta o incorporata a questa non avea più alcuna importanza politica, avvenne che gli scrittori posteriori, dovendo narrare i fatti di quell’epoca, usarono la denominazione restata alla nostra città, e colla quale era allora generalmente conosciuta, e non si brigarono di far parola anche del nome, che un tempo avea avuto una parte di essa. Solamente chi aver poteva più minuto ragguaglio delle vetuste memorie, o chi voleva usare tutta la minuziosa esattezza di uno storico accurato, cercò di non trascurare questa circostanza dell’avvenimento che raccontava. Ma da qual parte di Napoli era situata Palepoli? Ecco il punto principale e più difficile delle nostre ricerche. Il nostro Giovanni Villani, che fu il primo ad accennarne alcun che, pose questa ignota città, a traverso sotto le spalle dello Monte Falerno, il quale mo se chiama Santo Eramo, dove sta S. Martino, (Op. cit. c. 6.); il Pontano l. c. la collocò in Castel nuovo ed a Palazzo; il Falco (Antichità di Nap. 1080 p. 21) nella regione del Sedile di Montagna verso di S. Agnello lungi dal mare 400 passi; Ambrosio Leone (De Nola l. I, c. 6) seguito dal Capaccio, in sulla via di Nola a tre miglia di distanza da Napoli nel luogo allora detto Torre dei Jopparelli; Leandro Alberti Descr. d’Ital. p. 188, a t. fra le acque Regie ed il Sebeto al di sotto di Poggioreale; Fabio Giordano pose Napoli nel Caslelnuovo e Palepoli nel sito di Napoli, credendo che il nome dell’una si fosse indi scambiato con quello dell’altra, il Loffredo l. c. colloco Napoli nell’alto di S. Anello fino alla porta di S. Gennaro ed a S. Paolo, Palepoli dalla Sellaria in basso verso la marina ed un poco più inanzi della dirittura di Napoli verso la Maddalena, ed il campo dei Romani da S. Giovan maggiore verso Castel Capuano; il Summonte (Op. cit. p. 29) restrinse Napoli antica tra S. Domenico e la Cattedrale, e pose Palepoli dalla grotta di S. Martino, ora Vico della Pace, fino all’Egiziaca, e alla Maddalena; il Cluverio (Ital.antiq. p. 1151) collocò Palepoli a S. Giovanni a Teduccio; il de Rosa (Ragg. stor. dell’Orig. di Nap. p. 189) nella collina di Lotrecco, il Pellegrino (Op. cit. p. 316) fuori Porta Capuana verso Casanova nel luogo ove ai mezzi tempi si disse Campo di Napoli; Falcone l. c. oltre il ponte della Maddalena nel piano della Volla, ed il Carletti (Op. cit. p. 9) dalla strada di Nido verso il mare; il Martorelli a Mergellina, il Niebuhr (Hist. Rom. t. iii, p. 163) sulla collina di Posilipo, ed il Romanelli (Op. cit. p. 16.) infine, e quasi tutti i moderni scrittori dalla porte orientale di Napoli, cioè verso porta Nolana, facendola alcuni anche distendere per tutta la parte bassa di Napoli.

       

    Or tra tante e cosi diverse opinioni quella che a noi pare la più verisimile si è la congettura proposta dal Pontano. Essa per verità è stata finora da tutti i patrii scrittori, come affatto contraria al racconto di Livio, rigettata, ma non troppo ragionevolmente a nostro credere. Imperocchè, mentre tutte le altre congetture presentano sempre qualche difficoltà o contradizione, questa del Pontano non solo si adagia benissimo alle parole dello storico, ma anche, per quanto è possibile, in una materia tanto oscura ed incerta, vien confermata in un certo modo, dalla situazione de’ luoghi, e da altri non lievi argomenti. Infatti, da quegli scrittori cominciando che pongono Palepoli o sulla via di Nola, o a San Giovanni a Teduccio, nel piano della Volla o a Posilipo e Mergellina, costoro sono apertamente contradetti da Livio, che dice essere Palepoli haud procul da Napoli, mentre che i luoghi sopraindicati ne son per un buon tratto distanti. Oltre a ciò, se le due città fossero state poste a tanta lontananza tra loro, come avrebbero potuto porgersi un aiuto vicendevole, allorchè l’una o l’altra veniva dai Romani assalita? D’altra parte puranche si scostano dal racconto di Livio il Loffredo ed il Summonte, i quali fanno di Napoli e Palepoli un assai piccola città, e lasciano uno spazio tanto angusto tra l’una e l’altra, da non potervi collocare, non dico l’intero esercito Romano, ma neppure una piccola parte di esso; quandochè Livio non vicinissime, ma le descrive a poca distanza tra loro, e dicendovi venuto in difesa di esse un presidio di 6000 soldati tra Nolani e Sanniti, oltre i proprii citiadini, la fa supporre di non tanto breve perimetro, quanto quegli scrittori vorrebbero. Così pure apertamente ingannavasi il Falco, allorchè poneva Palepoli sulla Montagna e Napoli sul mare; egli, in tal modo opinando, non avvertiva, che da Palepoli uscirono i Sanniti sul lido per imbarcarsi senza che si fossero imbattuti coi soldati Romani, il che non avrebbero certamente potuto fare se Palepoli fosse stata sopra S. Agnello, e per mezzo di Napoli divisa dal mare. Nè più al vero si accostava il Carletti, che senza tener conto delle parole di Livio haud procul inde ubi nunc Neapolis sita est faceva occupare da Palepoli e dal campo romano quasi due terzi dell’area di Napoli ai tempi di Augusto; o il Romanelli ed i suoi seguaci, che inciampavano nello stesso scoglio, al quale urtarono il Summonte ed il Loffredo, e contradicevansi puranche apertamente con loro stessi, allor che facevano inoltrare il mare fino a S. Giovanni Maggiore e poscia al disotto di quel sito collocavano parte della vecchia città. Nè meglio inoltre si appongono coloro, che vogliono situarla nella pianura di Poggioreale o verso Porta Nolana luoghi bassi e piani, che secondo l’anzidetto sistema sarebbero stati allora sottoposti al livello del mare, ed ove, quando anche non voglia seguirsi la volgare opinione su tal proposito, non si potrebbe certamente rinvenire quei luoghi elevati della città (summa urbis) che per lo strataggemma di Carilao furono dai Romani occupati. Da ultimo, non sa comprendersi come abbia potuto avvenire lo scambio di Napoli e Palepoli, che ammette il Giordano; nè può ad alcuno persuadere l’argomento del Pellegrino, che fondava la sua opinione a porre Palepoli verso il borgo di S. Antonio Abbate, dal nome che quel luogo aveva di Campo di Napoli, il che, a nostro giudizio, contradice, anzichè favorisce il suo sentimento.
       Ma gli accennati scrittori, i quali pongono Palepoli all’oriente di Napoli, si servono di un altro argomento, che essi credono sufficiente a stabilire nello stesso tempo la loro opinione ed a combattere quella del Pontano. Palepoli, dicono essi, doveva stare necessariamente dalla parte di Nola ed all’oriente di Napoli, poichè altrimenti non avrebbero potuto i Nolani liberamente dalla medesima fuggirsi nella loro città, senza che ne fossero stati impediti dai Romani, i quali eran posti tramezzo. Questo argomento assai giusto in apparenza, ha fatto sì, che tutti i moderni scrittori delle nostre cose abbiano cercato di porre Palepoli in modo che avesse avuta libera la via di Nola, e quindi l’han collocata all’oriente di Napoli antica. Ma stavano poi i Nolani in Palepoli? Ecco quello che prima di ogni altro avrebbero essi dovuto stabilire, ed ecco quello, di che, attentamente considerando il testo di Livio, noi dubitiamo. Ed infatti dal medesimo primieramente si rileva, che tutto lo sforzo de’Romani erasi rivolto specialmente contro Palepoli, essendosi quanto a Napoli contentati d’impedire; che la medesima avesse potuto porgere aiuto a quella. Nè senza ragione, poichè siccome, per quanto abbiam di sopra esposto, summa rei Graecorum era in Palepoli, così era ben naturale, che i Romani si sforzassero prima d’ogni altro d’impadronirsi di quella, che, essa soggiogata, avrebbe seco tratta anche Napoli. Or posto ciò, può mai presumersi che i Romani avessero lasciato libero quel lato di Palepoli, che volgevasi ad oriente, donde i Greci potevano continuamente ricevere dai Nolani ogni sorta di aiuto? Ma sia così, e si dica pure che tutto l’esercito Romano si fosse collocato soltanto in mezzo alle due città, ed avesse lasciato tranquillo il resto, i Nolani, a quanto pare dal racconto di Livio, neanche in tal caso avrebbero potuto stare in Palepoli, allorchè ne fu trattata la dedizione. Imperocchè quando Carilao si presentò al Console offrendosi di consegnargli la città, dice Livio, che costui gli diè tremila Romani per occupare eam urbis partem quam Samnites insidebant, e dall’altra parte quando Ninfio, a fine di disporre la città per la riuscita dell’impresa, induceva il pretore de’ Sanniti ad andare con la flotta a saccheggiare ì contorni di Roma, dice lo stesso storico che nella notte omnis juventus Samnitium praeter necessarium urbis praesidium ad litus missa. Or se i Nolani fossero stati in Palepoli lo strataggemma di Ninfio non sarebbe stato di una molto facile riuscita, poichè costoro uniti al presidio Sannitico avrebbero potuto impedire ai Romani d’impadronirsi così agevolmente della città. Livio inoltre dice assai chiaramente, che non fu lasciato in Palepoli, se non se il presidio indispensabile per la custodia della città, e non fa punto parola de’ Nolani. Nè vale il dire, ch’egli nel principio aveva narrato essere i 4000 Sanniti ed i 2000 Nolani entrati in Palepoli senza far motto di Napoli, poichè si può benissimo supporre, che o sotto il nome di Palepoli lo storico avesse allora voluto intendere l’intera città, come congettura il Pellegrino, o che, come parci più verisimile, entrati in Palepoli i Sanniti ed i Nolani, nel corso della guerra ai Nolani, che erano in minor numero, si fosse dato il carico della difesa di Napoli, come quella contro cui meno si dirigevano i Romani, ed ai Sanniti quello di difendere Palepoli; tal che allor quando Publilio interruppe le vicendevoli comunicazioni tra le due città, i Nolani venissero a restar disgiunti e sequestrati in Napoli. La qual nostra congettura è anche confermata da un altro passaggio dello storico, ove parlando della necessità, in cui i Greci si videro di sottomettersi, dice che: velut capti a suismet praesidiis indigna patiebontur; colle quali parole s’indica, se pur non c’ inganniamo, assai chiaramenie che tanto Palepoli, che Napoli aveva il proprio speciale presidio.
       Ma ciò non basta. Noi desumeremo il più forte argomento a sostenere il nostro assunto da quello stesso passaggio di Livio, che dai patrii scrittori ci viene in contrario allegato. Dice lo storico, che i Romani, occupati i luoghi alti di quella parte della città presidiata dai Sanniti, diedero un altissimo grido, al quale i Greci, avuto il segnale dai loro capi, non si mossero, ma i Nolani dalla parte opposta della città per la via di Nola si fuggirono.
       Or su queste parole deve in prima notarsi che Livio quando usa l’espressione partem urbis, intende, come abbiam di sopra accennato, quelle che prima aveva chiamate assolutamente urbes, cioè Napoli e Palepoli, e non già una parte di Napoli o una parte di Palepoli. Così narrando quella fazione di Publilio, colla quale questi, postosi in mezzo tra l’una e l’altra, interruppe le vicendevoli comunicazioni de’ Greci, dice, che in conseguenza di ciò interseptis munimentis hostium pars parti abscissa erat. Dal contesto inoltre dello stesso storico rilevasi, che dalla parte ove stavano i Sanniti poteva uscirsi al mare senza ostacolo, che Napoli allora era come un accessorio di Palepoli, e che questa era situata poco distante dal luogo, ove stava Napoli ai tempi di Augusto. Or posto tutto ciò, se la parte dove i Sanniti stavano (quam Samnites insidebant) e dove si trovavano i luoghi elevati (summa urbis) presi dai Romani era, come di sopra abbiam dimostrato, e come quasi tutti convengono, quella che chiamavasi Palepoli, e se la parte donde i Nolani sì fuggirono era un’altra opposta (aversa) ad essa come apertamente asserisce Livio, è forza convenire, che questa non poteva essere altra se non Napoli; e quindi che questa per aver libera la via di Nola doveva esser situata ad oriente, e quella per lo contrario ad occidente. Talchè trovandosi Napoli a’ tempi di Augusto nel sito che abbiam di sopra indicato, Palepoli verso il Real Palazzo o in quelle vicinanze debba conseguentemente rintracciarsi. La situazione de’ luoghi, comunque di molto cambiata, non si oppone fortemente a questa nostra congettura. Le parti alte della vecchia città possono riconoscersi nella falda della collina di S. Eramo, o nelle eminenze di Pizzofalcone, il luogo pel quale Palepoli e Napoli comunicavano fra loro può investigarsi dal lato di strada Medina e S. Maria la Nova e per quella direzione, e la marina, che così stava assai sottoposta a Palepoli, faceva sì che i Sanniti, ancorchè avvertiti dell’ inganno, non avrebbero potuto per cagion della distanza giungere a tempo per impedirne la resa.
       Ma un altro argomento a provare il sito di Palepoli da noi proposto par che possa desumersi dal famoso acquedotto, che da Serino recava l’acqua a Napoli e Pozzuoli ed a Baia. Questo prezioso monumento di antichità fu per la prima volta rintracciato e descritto sotto il governo del Vicerè D. Pietro di Toledo dall’Architetto Pietrantonio Lettieri, e non ha guari è stato nuovamente riconosciuto dal Sig. Felice Abbate, che ne proponeva la repristinazione. Or senza tener conto del corso di esso dalla sua origine fino a Capodichino, è da notare, che da quel punto il medesimo dirigendosi verso settentrione-ponente, giunge in quella strada che una volta dicevasi Cupa di Miano, ed ora dai rilevanti residui di questo insigne monumento, che tuttora vi si vedono, vien chiamata dei Pontirossi. Da colà attraversando la collina di S. Efrem vecchio, ove tuttora se ne veggono le vestigia, tirava per la valle della Sanità, nel qual sito ai tempi del Lettieri vedevansi tuttora gli archi del medesimo, che poscia nella costruzione de’ nuovi edificii furono abbattuti. Proseguiva poscia il suo cammino per la collina della Stella, e giungeva alla taglia di S. Anello come dice il Lettieri ove vicino la porta di Costantinopoli si staccava un ramo che entrava dentro Napoli, ed un altro che, costeggiando il monte di S. Eramo per dietro la Trinità degli Spagnuoli e per sopra Pizzofalcone, si dirigeva a Pozzuoli.    Chi fosse l’autore di questa insigne opera non è ancor determinato tra gli eruditi. Alcuni l’attribuiscono all’Imperatore Claudio seguendo il Pontano (De Magnif. c. 9) che asserisce aver veduto alcune fistole di piombo col nome di Claudio trovate in alcuni tratti di questo acquedotto tra Baia e Puzzuoli; altri ne danno l’onore a Nerone seguendo l’autorità del Boccaccio, nel suo trattato (de Fluminib) che però non adduce alcuna pruova in sostegno di questo suo sentimento; altri l’attribuiscono ad Agrippa o ad Augusto, per chè costoro rimisero in uso i porti di Averno e Miseno, e quindi per approviggionare le flotte, che in quelli stanziavano, fecero condurre ancora da tanta distanza l’acqua in quei contorni; altri infine, dimostrando non essere verisimile che questo acquedotto fosse stato opera di costoro, crede piuttosto che venisse fatto o da Traiano o da qualche altro Imperatore posteriore a Tito; o anche dal concorso riunito delle città, alle quali questo magnifico canale serviva. Or ammettendo le ragioni allegate per ismeniire le opinioni finora ricevute sull’autore di questa insigne opera, noi convenghiamo piuttosto nel sentimento del Canonico de Iorio non ha guari rapito al lustro della storia patria ed alla stima di quanti lo conoscevano. Egli avendo pel primo osservato, che negli archi de’Pontirossi e ne ruderi che s’incontrano ne’ contorni di Palma fra i pilastri vi si riconoscono vestigia di fabbrica più remota, sospetta, che questa avesse potuto essere opra anteriore alla conquista fatta ai Romani della Campania, poscia da costoro restaurata e, se così vuolsi, anche ampliata.    Posto ciò, venendo a trattare quel che più da vicino ci riguarda deve certamente recar maraviglia, che questo acquedotto il quale giungeva a Napoli dalla parte d’oriente, invece d’immettere l’acqua in quel punto della città, seguisse una linea quasi parallela alla medesima, e poscia nel punto opposto, e proprio, dove la città a quei tempi terminava, venisse nella medesima intromesso. Una tale considerazione fa sorgere naturalmente il sospetto che l’acquedotto non fosse stato propriamente costruito per uso degli abitanti di Napoli, ma che, edificato già prima per altro scopo, venisse in seguito appropriato anche alla nostra città. Oltre a ciò Napoli aveva, ed ha tuttora un altro acquedotto, che mena nella città l’acqua detta della Bolla, acquedotto che, per quanto osservava il nostro signor Luigi Cangiano, è assai verosimilmente opera de’Romani, come lo dimostrano le pareti del medesimo in fabrica reticolata e laterazia. Ora a quale altra città di queste vicinanze poteva quest’opera d’immensa spesa servire, se non a Palepoli che, posta sopra un sito più elevato di Napoli, non poteva altrimenti dalle prossime sorgenti di situazione più bassa ricever l’acqua necessaria agli usi della vita? E quando anche non voglia credersi l’acquedotto della Bolla di quell’antichità, che noi pensiamo, e voglia tenersi quello di Serino pel solo acquedotto dell’antica città, anche in tale ipotesi è sempre più verisimile la situazione di Palepoli verso Palazzo e all’occidente di Napoli, dove sappiamo giungervi il detto acquedotto, e non nelle basse pianure di Poggioreale, ove nessun vestigio di canale dal medesimo diramantesi si è mai rinvenuto.
       Per tutte queste ragioni dunque pare, che la opinione del Pontano sia da seguirsi a preferenza delle altre enunciate, anche perchè questi con più fondamento dall’ispezione oculare de’ luoghi poteva in un certo modo trarre argomento alle sue congetture, non avendo la nostra città subito allora que’ tanti posteriori cangiamenti, che ne han quasi intieramente variato la faccia. Se non che il sito di Palepoli non dovrebbe intieramente restringersi a quello che ora occupa Castelnuovo e Palazzo, ma dovrebbe spingersi puranche per le alture che ora diconsi di Pizzofalcone, e per quelle vicinanze. In questo modo verrebbe a togliersi affatto qualunque inverisimiglianza, che le congetture degli altri scrittori facevan cadere sul racconto di Livio, e Palepoli sarebbe una città altrettanto e forse anche più grande di Napoli antica, e quindi meritamente in essa risedeva il governo dell’intero Comune. Come poi e quando del nome di Palepoli si perdesse la memoria, e la somma delle cose, come dice Livio, passasse in Napoli, non possiam dire con precisione per mancanza di storici documenti. Possiam solo congetturare, che ciò avvenisse forse poco dopo la dedizione ai Romani, allorchè i Greci videro il pericolo ed il danno, che lor veniva dalla situazione in cui stavano, e quindi cercarono di riunire dentro un solo rìcinto di mura l’intero Comune. Allora forse Palepoli fu in parte distrutta ed in parte lasciata come un’adiacenza suburbana di Napoli. Checchè ne sia del rimanente, certo e che alla venuta di Annibale in Italia il porto era nella dipendenza di Napoli, e nello stesso Livio non si fa più parola di Palepoli. Certo è pure che il sito da noi assegnato alla medesima non restava dopo una tal epoca affatto abbandonato e deserto. Ivi intorno all’era volgare vedevasi la celebre villa di Lucullo, e forse anche quelle maravigliose peschiere, che al loro autore fecero meritare il nome di Serse togato. Ivi pure esisteva senza alcun dubbio nel secolo V. il Castello Lucullano, nel quale le memorie del tempo ed i patrii scrittori ci ricordano tante chiese e così numerosi Monasteri da farlo supporre un Castello ben popolato, e di non breve estensione. Più, verso Napoli poi dal sito dove Santa Maria la Nuova fin dove è il Castel nuovo, e forse anche per buona parte di quel lato della nostra città che volge a mezzogiorno, distendevasi un amenissimo sobborgo, dove oltre alle private abitazioni dovettero esservi anche i Portici, nei quali Filostrato verso il terzo secolo dell’era volgare ammirava le opere più insigni del greco pennello. Ed in fatti i patrii scrittori ci han lasciato memoria di numerose reliquie di antichità in quel tratto rinvenute. Così il Martorelli rammentava, che ai suoi tempi nel cavarsi le fondamenta del nuovo sedile di Porto furono trovate molte colonne di marmo, ed i ruderi di un antico edificio (Op. cit. p. 635); ed il Cestari rapportava aver veduto alcune vestigia di opera reticolata ai Fiorentini (Op. cit. p. 13). Dal Capaccio (Op. cit. p. 36) inoltre sappiamo, che parecchi ruderi nel largo del Castelnuovo furono a suo tempo scavati, e moltissimi altri ne ricorda puranco il Giordano (ap. Pelliccia Op. cit. t. VI, p. 34) sono l’Arsenale, vicino al quale non ha guari che, come abbiamo di sopra accennato, il Cavalier Nicolini l. c. ritrovò un antico bagno. Il che conferma sempre più la congettura di esser ivi collocata Palepoli, e non fuori Portanolana, dove non un rudere, non un piccolo vestigio di qualche antico edifìcio si è mai veduto, o dai nostri scrittori rammentato.
       Ed ecco le cose che abbiam creduto potersi dire intorno all’antico sito di Napoli e Palepoli, sperando che così venisse in qualche modo illustrato uno de’ punti più difficili della nostra patria storia.

  4. Farem qui rapido cenno come Napoli, tenuta in sommo grado d’estimazione e vagheggiata da tutti in ogni tempo, migliorò per uomini famigerati e possenti. Se non che pria di discorrerne l’ingrandimento, dalla sua fondazione fino a’ dì nostri, non fia vano il dir poche cose del suo porto, delle vie maggiori che in sezioni o quartieri la città dividevano, delle minori o vichi, e del suo antico ed altissimo muro.
       Napoli venne alla luce in forma di città, perchè munita di mura e di torri, come era mestieri che la edificassero que’liberi Cumani che disdegnosi de’ torti ricevuti dal maggior numero de’ lor concittadini, vennero presso Partenope a fondarsi una patria migliore. Sono ingegnosi ed amabili i patrii autori quando, per maggior decoro della loro città, si pongono studiosamente a disvolgere i volumi di Platone e di Vitruvio col fine di trovare in quelli la ragione onde Napoli fosse edificata sul colle ed a vista di mare; e nel primo trovano commendata la salubrità dell’aere in cosiffatte regioni, dove pon la sua repubblica; e nell’altro si apprendono al consiglio di eleggere sopra tutto luoghi collineschi, come più acconci ad essere fortificati e meglio muniti. L’antichissimo muro della città, se hai la mappa generale sott’occhio, puoi descriverlo siccome meglio si può argomentare tra le contraddizioni e i viluppi degli scrittori di topografia, da S. Giovanni Maggiore diritto all’ultimo chiostro di S. Agostino, e di qui, finchè non giungi al prossimo aspetto orientale di S. Angelo a Baiano, devi allogare una torre. In questo luogo è opinione più da accettare che sorgesse la remotissima rocca Falerea, come la chiamarono i Pelasgi in ricordanza di quella che ebbero abbandonato in Epiro: il quale nome tramutato in Falero, aggiustò credenza ne’ tardi autori di appartenere ad un argonauta, come dicemmo, fondator primo d’una città in questa contrada. La linea delle muraglie di levante a tramontana vuol esser tirata dal vico Baiano sino all’angolo a borea del Duomo, e piegando più a settentrione, giungerai al convento di Gesù delle Monache. Di quì, stringendoti più ad occidente, segna per S. Patrizia un altro angolo al capo di S. Agnello; donde in faccia, tendi una corda sino alla chiesa di S. Pietro a Maiella.