Notizie del bello, dell'antico, e del curioso della città di Napoli/Del sito, grandezza e qualità della nostra Napoli

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../Temperamenti e qualità de’ cittadini IncludiIntestazione 8 giugno 2022 75% Da definire

L'Editore Temperamenti e qualità de’ cittadini

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DEL SITO, GRANDEZZA E QUALITA’

DELLA NOSTRA NAPOLI



Sta situata la nostra Città fra due Capi, di Miseno, e di Massa Lubrense, sotto il dominio di Ariete. L’altezza [p. 52 modifica]del suo Polo è di gradi 39 e minuti 10; la latitudine gradi 41 e minuti 20. [p. 53 modifica]

Dalla parte d’oriente ha le fertilissime campagne di Terra [p. 54 modifica]di Lavoro, che anche chiamata viene Campagna Felice. [p. 55 modifica]Dalla parte di mezzogiorno ha in aspetto il nostro Tirreno, [p. 56 modifica]che li forma davanti una gran conca, coronata di fertili [p. 57 modifica]e deliziose riviere, ed isolette. Vedesi in ogni tempo [p. 58 modifica]abbondantissima d’ogni sorta di pesce, che per Bontà e [p. 59 modifica]sapore non ha a chi cedere. Ha nelle spalle dalla parie d’ [p. 60 modifica]Occidente colline così belle, che chiamar si possono stanze inalterabili del diletto e del piacere. [p. 61 modifica]Dal mare apparisce in forma d’un nobilissimo teatro, [p. 62 modifica]perchè vedesi situata nella falda delle colline di S. Erasmo: [p. 63 modifica]è però tutta comodamente carrozzabile; ed è spettacolo [p. 64 modifica]degno d’esser veduto da mare in occasione di qualche festa [p. 65 modifica]di notte, quando le finestre sono adornate da quantità di [p. 66 modifica]lumi: confesso, che cosa più dilettosa veder non si può in terra. [p. 67 modifica]

Le strade che ha dentro di se, l’antiche maggiori come [p. 68 modifica]quelle di Somma piazza, di Sole e Luna, e di Nilo o [p. 69 modifica]Nido, con i suoi vichi, non hanno molta larghezza; [p. 70 modifica]perchè in quel tempo non v’era l’uso delle carrozze: oltre che s’usava d’abitare stretto di strade, per fortezza. [p. 71 modifica]

Non sono però strelle tanto, che non vi possano [p. 72 modifica]adaggiatamente camminar di pari due carrozze: oltre che avanti [p. 73 modifica]delle Chiese, e d’alcune case vi sono state fatte molte [p. 74 modifica]piazze in modo, clic poco o nulla comparisce la strettezza. [p. 75 modifica]

Le strade poi nuove sono bellissime, perchè spaziose ed allegre. [p. 76 modifica]il circuito della città, principiando dal Carmine, e [p. 77 modifica]tirando per sotto la muraglia della Trinità al Castel di S. [p. 78 modifica]Erasmo, col quartiere delle Mortelle, che incluse vanno alla città, con tutto il tratto sino alla porla di Chiaia. [p. 79 modifica]

E per la parte di mare, principiando dalla stessa chiesa del Carmine, includendo il Molo, l’Arsenale, S. Lucia, [p. 80 modifica]

il Castel dell’ Uovo, il Chiatamon, sineo alla porta medesima di Chiaia, unito il giro fà miglia, dieci meno un quarto.

Se poi si vuol misurare con i Borghi, parlando di quelli dove arriva la giurisdizione delle Parrocchie di Napoli nell’ amministrare i Sacramenti, e nel seppellire i morti, importa ventuno miglia, e duecento passi 1. [p. 81 modifica]

Agli elementi poi, ed alle stagioni, pare che dalla natura sia stato espressamente ordinato, che non diano a questa [p. 82 modifica]città se non quello che più sa del perfetto e dell’ameno; che però la terra li dà frutta d’ ogni sorta immaginabile ed in quantità, e saporitissimi al senso; li frumenti e le biade sono in abbondanza, ed anche di sostanza in modo che stimasi per gran castigo a Napolitani, che forse ingrati, insolentiscono nella felicità, quando si sente qualche poco di penuria.

De’ vini ve ne sono d’ogni sorta che si può desiderare e bianchi e rossi; ne vi è gusto umano, che non possa trovare da sodisfarsi nella qualità ch’appetisce; ne se n’assaggiano forestieri se non per curiosità o lusso d’alcuni che vogliono dimostrare di bere liquori ch’ abbiano del pellegrino.

La pietra, che poi ha Napoli per gli edificii, è mirabile, e leggiera facilissima a tagliarsi e durabile; ed in ogni posta di pietra s’alza un palmo di fabbrica. È una pietra poi in cui pochissima breccia fa il cannone, come si vede nelle muraglie della marina tocche da migliaia e migliaia di cannonate in tempo de’ tumulti popolari.

Le acque poi han tutte quelle condizioni che ponno dichiararle perfettissime: e però molti e molti de’nostri Napoletani lascian di bere vino. Vi sono pozzi che noi chiamiamo formali, che danno acque così fredde nell’estate che paiono poste alla neve. Degli acquedotti poi ne parleremo a suo tempo, essendo maravigliosi.

L’aria e così temperata, che niente più; e quel che più è d’ammirazione, che in una città ve ne è confacevole ad ogni sorta di temperamento; perchè ve ne è sottile e meno sottile, grossa, e mezzana ed altra così [p. 83 modifica]salubre e di gìovamento, che si dà per medicina agli infermi.

Il calore è quì modestissimo perchè non molto si fa sentire, ed il fuoco del Vesuvio, e di Pozzuoli che li stanno d’intorno, dimostrandoseli riverente, non ardi mai di danneggiarla. Ma questo, dicasi il vero, non per merito dei nostri Napolitani, ma del caro nostro Padre e Protettore S. Gennaro.

Le stagioni poi, par che fra di loro confederate siano a benefìcio della nostra Napoli. L’inverno, accumunatosi con la primavera, di continuo ed in quantità ne dà rose, garofali, ed altri fiori. E se in qualche anno dà nevi, le dà perchè nell’ estate, che forse sarà per essere più calorosa, abbia più prossimi i rinfreschi nelle conserve che se ne fanno.

Che più, fatto guardarobba dell’autunno, mantiene nelle sue grotte ed uve fresche e frutta in tutto l’ anno.

La primavera altro non fa sentire che soavissimi odori di fiori d’ aranci e di rose, e di gigli: e nella città veggonsi graziose logge di fiori stravaganti, che invidia non li fanno quelle de’ forestieri. Che più, fatta coadiutrice dell’ autunno, matura in alcuni luoghi i fichi, che per lo mancamento del sole lasciò quello di maturare.

L’estate, se ben ella volesse mostrarsi calorosa, non può perchè vien raffrenata dall’aurette continue del mezzogiorno, e dagli freschi passeggi per le rive del mare; e particolarmente in quella di Posilipo, e dagli ombrosi pergolati delle grotte, che dan frutta come ghiacciate: e particolarmente in queste nostre, nel borgo de’ Cappuccini nuovi.

L’autunno si può chiamare padre dell’allegrezza, nelle abbondanti vendemmie; e nella raccolta delle frutta da tenuta per tutto l’ anno: in modo, che per lo più se ne veggono e nuovi e vecchi; e talvolta si fa cedere la giurisdizione della primavera, in far vedere rifioriti gli [p. 84 modifica]alberi d’aranci, di cedri, di limoni, per dilettar la città; ed in molte annate in tanta quantità, che distillansi per ricavarne acque odorose.

Le paludi, per l’ ortaglie, che molto piacciono a’Napoletani, sono degne d’esser vedute, perchè d’estate e d’inverno fan vedere una gran campagna coverta da diversi verdi 2.

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Note

    Da questo luogo, declinando a scirocco, scendi per S. Domenico e ritorna a S. Giovanni Maggiore.
       Il porto di questa città, opera in origine più della natura che dell’arte, trovavasi giù all’ultimo sito nominato. La forma di esso fecelo ben per tempo lodato per sicurezza e tranquillità. Annibale, come narra Livio, ponevasì in animo di ancorarvi per aver più spedita e franca navigazione al lido di Africa. Il qual pregio non vuol essere rìvocato in dubbio; perocchè laddove consideri che la torre del fanale ergevasi là dove oggidì se ne vede un avanzo in un sotterraneo di contro alla fontana di Mezzo-cannone, trovi il porto di figura affatto contraria a quella dell’odierno molo; epperò dilargandosi in faccia a ponente, era riparato dagli impetuosi venti australi che sì gagliardamente hanno spirato in tutti i porti che di nuovo sonosi costrutti in processo di tempo.
       Da questo porto fino al colle degli Incurabili, da austro a borea e da’gradini minori della Cattedrale fino a S. Pietro a Maiella, da levante a ponente, corsero quattro vie maggiori, in che sin dai suoi principii si argomenta partita la città. Le quattro sezioni che oggidì si direbbero quartieri, nelle opere de’ nostri autori, e nelle antiche carte notarili ed anche regie, son chiamate regioni, rioni, platee o piazze, e quartieri; il territorio oltre il muro è dinotato col nome di pomerio. La prima ragione a scirocco si disse in vari tempi Termense, Ercolanense, Forcillense; la seconda a libeccio si nominò Nilense, Patriziana; la terza a greco fu addomandata Campana Palatina; l’ultima a maestro si appellò Pavezia, Montana. Nella piazza maggiore, in mezzo del quadrivio, era il

    Pretorio Palagio della signoria, il Foro per la trattazione de’ pubblici negozi, il Portico per i concilii, e non manca chi vi noti pur le Prigioni. Ciò sarebbe bastato al decoro d’una piazza di qualunque splendida città; ma Napoli era la contrada delle eleganze e delle ricchezze, d’onde il territorio trasse forse negli antichi tempi il nome di Opicia; il perchè, oltre gli edifizi notati, sorgevano quello stesso luogo i marmorei templi; de’Dioscuri e di Cerere, ed uno de’ più capaci ed ornati teatri dell’antichità.
       Degli edifizi qui nominati puoi trovar qualche avanzo nelle due colonne rilevate dal prospetto del tempio di S. Paolo, e ne’sotterranei di S. Lorenzo e della prossima chiesa di S. Gennaro all’Olmo, allo sbocco de’Librai, E se hai vaghezza di osservare alcuna ruina dell’antichissimo molo, guarda giù alle Rampe del Ss. Salvatore, e vedrai un muro di pietre di lava, larghe ben sette palmi, e connesse senza cemento, proprio di quel cortiletto che risponde alla faccia meridionale delle grandi sale del Museo di Zoologia, fin dal 1843 compito con tanto decoro ed utilità della scienza.
        Le quattro parti della città eran suddivise in vie minori, le quali dagli antichi e da noi sonosi addomandate vichi o vicoli. Questi toglievan nome dagli edifici cui menavano, o da forestieri che vi avean dimora, o da alcun cittadino più notevole: alcuni di essi son detti oggigiorno così come duo mila anni fa. Ciascuno de’ quattro rioni aveva un qualche principale e pubblico edifizio; il teatro nella regione Montana; il tempio di Mercurio e di Esculapio nella Campana; il ginnasio, le terme ed il tempio di Ercole nell’Ercolanense; il Porto e il tempio di Vesta nella Patriziana. Nella regione Pavezia, o Montana son ricordati questi cinque vichi; Vicus Theatri, detto oggidì de’ Cinque Santi, il qual da S. Paolo pon capo alle Antigaglie; ed è qui che tuttora si ammirano due maravigliosi avanzi in opera laterizia dell’antichissimo teatro dove Claudio Cesare vestito in fogge greche, si piacque assistere alla rappresentazione di una sua tragedia; e dove poco appresso Nerone, in divise istrioniche, bramò nel suono e nel canto concorrere a quel plauso di che non gli furono avari gli arrendevoli Napolitani, -

    dir se sia maggiore per la memoria di vicende storiche, per la soavità di benignissimo clima, o per le ragioni delle scienze naturali, cui tutto dì dischiudono nuovi tesori.
       Nell’istante medesimo, in cui mettiamo sotto ì torchi queste prime pagine del nostro Celano; si è inaugurata con pomposo apparato e con religiose cerimonie la stazione della ferrovìa che da Napoli dovrà condurre a Brindisi, opera dispendiosa ma grande, dal commercio vagheggiata e dal voto pubblico consentita. La quale, nel breve periodo d’ un quinquennio, si spera potersi vedere’ interamente compita. Ma di queste e di altre opere ed immegliamenti ancora, discorreremo a suo luogo.

    Pietrarsa un Opificio per le macchine a vapore, senza aver più bisogno dello straniero. Ha fatto costruire due ponti di ferro, uno chiamato Ferdinandeo sul Garigliano, compiuto nel 1832, e l’altro Cristino sul Calore, nel 1835. Rivolse le sue paterne cure alla pietosa Casa degli Incurabili, dove son sacri i nomi di Bruno Amantea, Domenico Cotugno, Villari, Sementini ed altri; e dove la gioventù studiosa dell’ arte salutare, accorre con filantropico desiderio per meditare ne’ teatri Anatomici, rendendo così un più religioso culto alla generosa Igea. Il Collegio di Musica, già in tutta Europa rinomato, è stato accresciuto d’ un archivio d’ ispirata armonia, dove eterne rimangono le note del Piccini, Sacchini, Iommelli, Fenaroli, Anfossi, Paesiello, Cimarosa, Pergolesi e di altri che successero eredi di quel genio, che domina a suo talento gli affetti.
       Ed abbenchè fin dal 1776 fusse stato murato un Camposanto nel luogo detto prima Pichiodi, e poi Santa Maria del Pianto, di 366 fosse, con disegno del Fuga, pure, per l’avversione de’ nobili d’ aver comune co’ meschini la tomba, eravi l’uso di seppellire i cadaveri in città, non senza detrimento della salute pubblica. Ma Ferdinando II per saviissimo dettato, impose che questo devoto ricinto fosse stanza sepolcrale d’ ognuno; cosicchè depurata più l’atmosfera della Città, oggi è divenuto sacro alle lagrime ed a’ sospiri di tutti.
       Il Re, facendo tesoro della prodigiosa invenzione del vapore, che mirabilmente accelera il commercio di terra e di mare, ha tenuto per solenne concetto, dal così facilitato commercio, di schiudere un campo di maggiori progressi d’incivilimento, e di nazionali dovizie. Abbiam difatti indicato qual fosse il perimetro delle fabbriche della città, quando non s’ era ancor dato cominciamento alle ultime costruzioni suburbane de’ nostri giorni; pure il circuito di tutti i quartieri fino a’ limiti delle lor dipendenze misura oltre le ventuno miglia e passi dugento. Ma Napoli ha ricevuto dal 1840 a questa volta incredibile ampliazione, se attendi che Capua, Castellammare e Nocera son quasi alla città ricongiunte per mezzo di due strade che, furon prime ferrate in Italia, le quali in men di due ore ti fan percorrere contrade, la cui importanza non sapremmo

    la fece con un’applicazione di stoppini a corona, dovuta al Rumford e condotta a perfezionamento dall’Arago. L’opera fu fatta con la direzione di Macedonio Melloni, e dell’ingegnere Ercole Lauria.
       Da Posilipo e Mergellina, dalla Riviera di Chiaia alla Vittoria, e dal, Chiatamone alla Salita del Gigante fu pure rettificata, ampliata e messa a lievi inclinazioni l’incantevole strada. Condussero l’ opera nel primo tratto l’ ingegnere Romualdo Tommasi, in quel di mezzo Giuliano de Fazio, e nell’ultimo Luigi Giura e Vincenzo Lenci.
       Nell’ interno della città la strada di Chiaia tornò sgombera di una deforme salita, e la porta, voltandosi come ad arco trionfale, fu rifatta con disegno di Orazio Angelini, e decorata con marmi di Tito Angelini, Gennaro Calì, e Tommaso Arnaud.
       In pari tempo che provvedevasi alla linea meridionale, verso borea facevasi nobile la strada nuova di Capodimonte, aprendosi nelle colline un ampia scalea ornata di fiori, rendutasi dolce la via rotabile di lato per facili ed agevoli chine, su la prima delle quali, taglialo il monte, si scoprì una bellissima veduta delle colline a maestro, che metton base giù nella storica valle della Sanità. Era ciò disegno dell’ ingegniere Mori, e la strada, divenuta in capo alla scala, piegavasi a manca, e, traendosi lungi su quel di Secondigliano, riusciva alla regia strada di Aversa, intantochè un altro ramo, rasentando a destra i cancelli orientali della regale Casina, conducevasi per la discesa de’ Ponti-rossi fino allo sbocco a S. Giovanniello. Quì con disegno dell’ingegnere Giovanni Riegler fu abbellita la contrada, d’onde, ornato un largo traggetto sotto il ponte della strada del Campo, si allargò una via alberata e diritta da quel capo sino al Ponte della Maddalena, la qual si dice dell’Arenaccia.
       Ma quì non finisce la serie delle mirabili opere di questo Principe; laonde accenneremo in appendice, che la Reggia, ed il Teatro di S. Carlo ebbero magnifici visibilissimi immegliamentì. Splendida addivenne l’ illuminazione notturna della città mercè i fanali a gas. Prese sotto l’alta sua protezione una fonderia di ferro destinata alla costruzione di macchine per le arti indusiriali; e stabilito in

    di ferro, e recato al livello dell’ uffizio del mare, scoprendo i lati della nuova Dogana, edificio nobilissimo e di romane forme. In mezzo di questa strada che dicesi del Piliero, fu lavorata una bella fontana di marmo in luogo di altra, che ivi era, rovinosa e di maltoni: è una vasca in cui tre cavalli marini sostengono una conca, la quale dal centro manda un festone di foglie a sorreggere una tazza più breve; l’acqua in convenevole getto zampilla e scende dall’alto, e dalla bocca di tre testuggini finamente scolpite. Le opere furon disegnate e condotte da quel chiarissimo architetto che fu Stefano Gasse, e prolungherannosi con gli stessi disegni lunghesso la contrada della marina, al termine della quale presso il Ponte della Maddalena già al 1835 erasi compita una grandiosa opera che alla nettezza della città aggiungeva ornamento e decoro. Questo termine orientale nè bello appariva nè decente per l’esercizio di alcuni mestieri che non vogliono esser veduti dall’universale, perciocchè i conciatori di cuoio infestavan con molto disordine la via della marina. Laonde furon provvidamente allogati, come in colonia, presso la piazza a mezzodì del ponte, ivi formandosi con incredibile prestezza un intero borgo. Ed ancora il macello pubblico, che pure in città fastidiva e turbava buona parte della regione Mercato, si rifece con largo disegno al di là de’Granili. Per le quali opere la strada della marina, rifatta in tutto e decorata tra breve sarà tale, che, a nissuna seconda, innanzi ad essa non porterà maggior vanto verun’altra contrada d’Europa.
       Nella strada del Molo al 1844 furon compiti nuovi lavori, perciocchè si rifece ed ornò di larghi marciapiedi, terminali da saldi parapetti, e di ampie ed agevoli scalinate per discendere con sicurtà al sottoposto lido; il quale lungo la sua muraglia fu confortato con opera laterizia e con gagliardi tronchi di lava ad uso di legar gomene. Ciò con disegno di Clemente Fonseca, soprintendente ancora alla costruzione dell’ampio porto militare ad oriente della Darsena, dove sorgea la badia di S. Vincenzo. La torre del laro ebbe al 18435 quell’ immegliamento che le scienze fisiche addomandavano; essendochè per essa si recò in uso il sistema d’illuminazione ad ecclissi, escogitato dal Fresnel, in cui la fiamma vien da una lucerna, che dicono all’Argant, dal nome di chi primo

    e l’Orto botanico si vede decorato con robusta semplicità. Opera più solenne di questo Re furono i Reali Ministeri, compiuti col disegno di Stefano Gasse, ed il lunghissimo muro finanziero, che pigliando capo all’officina doganale de’Gigli, e girando pr’dintorni di Napoli, va a metter termine alla simile posta di Posilipo.
       Erano impertanto venute a male le costruzioni caroline, si per lo traffico. che in più luoghi ruppe la strada della Marina, sì per lo danno arrecato dalle onde, che per i guasti provenuti da’ tumulti popolari e dalle ultime vicende di guerra. Specialmente in pessime condizioni era la via della china occidentale del ponte della Immacolatella sino alla montata di Castelnuovo, erta, sbieca, dirotta in pozze e profonde rotaie. Il lato di terra bistorto e sconcio, grave alla vista e all’odorato; il verso di mare chiuso da alto e villano cancello di legno per evitare le frodi alla dogana, le cui officine stavan piantate in due trabacche di legno che rompevano la lunghezza del cancello. E quì per lo sbarco delle merci, e per gli uffizi ed il governo del mare, era un tumulto, un ingombro, da far disperare anche de’ necessari provvedimenti. Pure dal 1830 che Ferdinando II succedette al trono, per rara prontezza di efficaci partiti, colla rettificazione di vie, co’ ristoramenti d’intere contrade, e con opere pubbliche, la città va mutando interamente d’aspetto e noi per il titolo delle presenti pagine ci adopreremo a toccar in succinto di tutte le egregie opere condotte dentro le mura, le quali mentre attestano la solerzia del governo, fan prova delle felici condizioni cui si è recata l’arte di edificare, la qual finalmente uscita dalle stranezze del secolo passato, e ritornando alle forme de’ Greci e Romani, padri e maestri d’ogni maniera di bello, impronta le sue opere di quelle corrette ed eleganti sembianze che più non vedevi dal 500 a noi.
       Abbattute le vili casipole del Piliero, e riordinate in palazzi e simetrica forma, la strada verso il 1836 fu menata a dritta linea e molto ampliata verso il mare, il qual si chiuse con cancello di ferro, di cui non sapresti più lodare se la convenienza o la elegante semplicità. Con leggero pendio si toccò dalla Darsena il gran ponte carolino, il quale demolito del tutto, fu ricostruito con arco

       Fu in quell’epoca fondata eziandio una casa di educazione nell’edifizio detto de’ Miracoli. Nel 1810 fu istiuita in ogni provincia una Società d’Agricoltura e scuole Agrarie; si rese più ampio l’Orto Botanico, con ventiquattro moggia di terra; e si pose in ordine l’Artiglieria, il Genio e la scuola Politecnica. Nel 1812, per memorie venerate del sito, fu prolungata la strada di Mergellina, che mena a Pozzuoli ed a Cuma aperta, come abbiam detto da Carlo, per evitarsi il periglioso transito della Grotta; scelto a Campo di Marte il vasto terreno sul colle di Capodichino, facendosi abbattere i vigneti, ed allargando la strada che da quello mena in città. Fu innalzata in Aversa nuova casa pei dementi, sollevandosi le sorti di que’ miseri con provvedimenti operosi e fraterni. Fu innalzato sul colle di Miradois l’Osservatorio Astronomico terminato nel regno posteriore; ed in fine si arricchirono le province di altre pubbliche opere, come edifici, teatri, strade, ponti, prosciugamenti di paludi ed acquedotti. Il colosso Feudale che irruppe con la invasione de’ barbari, che crebbe nel quinto secolo, insuperbì ne’ tempi dei principi Aragonesi, che già in parte era stato abbattuto da Ferdinando I Borbone, ricevette l’ultimo coiaio nel 1810.
       Francesco I, salito sul trono in età matura, afflitto da infermità, e colpito da immatura morte, non potè raccogliere intero il frutto di sue paterne sollecitudini; sicchè molti de’ suoi meditati disegni di pubblica utilità non poterono a compimento portarsi. Non pertanto, nel breve periodo di circa cinque anni alacremente si addisse a proteggere l’industria, ad alimentare le arti ed a ravvivare il commercio. Nel breve suo regno fu voltato un ponte presso i Granili che dissero de’Gigli, per travalicare un torrente in tempo di verno. L’ampiezza del concetto, l’altezza dell’arco ed il piccol volume dell’acqua che tra i piloni correr doveva al mare, ne fanno argomentare che l’ingegnere Colella avesse ignorato la sentenza di quel general Moscovita, che, giunto sul grandissimo ponte della Maddalena, e maravigliando dello scarso tributo che il fiumicello sotto corrente recava al lido, gridò: Napolitani, o più acqua, o meno ponte, Riceveile l’ultimo abbellimcnio Foria

    primo disegno del Fuga, compiva tre lati dell’Albergo de’ Poveri, e da quel sito ampliava sino al Palazzo degli Studi la strada di Foria. Dopo aver popolato le isole deserte, adiacenti alla Sicilia con colonie da lui spedite, fondò nel 1789 altra colonia di Arti in Santo Leucio, governata da particolare codice, che pei paterni concetti destò gran meraviglia; colonia laudata fino dagli Ungheresi con allocuzione latina; cosicchè questo impulso fece progredire subitamente le Arti — I Teatri del Fondo e dì San Ferdinando furono eretti sotto il suo regno; e per voto nel 1816 cominciò a rialzare su base più vasta la famosa Chiesa di S. Francesco di Paola che sta di prospetto alla Reggia — L’Università degli Studi fondata dal Secondo Federico quasi caduta sotto le asprezze e le ignoranze del Viceregnato, da Carlo protetta, per Ferdinando dal 1776 al 1790 s’elevò a sommo grido, avendo i professori più larghi stipendii ottenuto, ed essendo state all’abolizione d’ alcune cattedre quelle sostituite della Italiana eloquenza, dell’Arte Critica, di Filosofia, di Dritto, di Teologia, di Medicina, di Agricoltura, di Architettura, di Geodesia, di Storia Naturale, di Meccanica, di Fisica, e Chimica con gabinetto per gli esperimenti, oltre quello Fisico e Zoologico, ed un Museo di Storia Naturale; ed ivi le Biblioteche Farnesiana e Palatina — nel 1800 fece sostenere e diffondere nel Regno la dottrina di Jenner, dall’Europa ammirata; per cui il vaiuolo per mezzo dell’innesto vaccino desistette dal fare più stragi. Si dirà altrove come egli gettasse la prima pietra de’ Reali Ministeri, e quali opere nuovamente eriggesse dentro la città. Le ampliazioni lasciate interrotte da questo Monarca furon menate innanzi nella durata del decennio dell’occupazione militare. Perciocchè fu allora aperta la Strada nuova del Campo; dal poggio di S. Teresa, allargato e dimesso il sentiero, fu gettato altissimo ponte per trarre a Capodimonte; e dettesi grande opera alla deliziosa via di Posilipo, che nel ritorno del Re da Sicilia traevasi ancor più a ponente, finchè si giunse al Capo.
       Cominciò Napoli in su i primordi di quella occupazione ad essere illuminata da n.° 1920 lampioni, esempio che venne imitato dalle più ragguardevoli città del reame. E nel 1808 il codice di Napoleone, cominciò a regolare i giudizi.

    tempi, il piccolo edifizio onde si volle significare la domus aurea; attendi al leggiadro e nobil disegno di esso, alla simmetria e ben intesa disposizione delle parti, ed a ciò che tiene al decoro. Certo mi penso che sarai tentato a stimarlo bozzo di Palladio; mentre che il palagio che sta di sotto attesta con molto dolore le folli smancerie borrominesche che corruppero l’arte non pur presso di noi che in Italia tutta al tempo che quello fu fabbricato. Di queste opere fece i disegni Giovanni Bompiè, e ne fu direttore il general Michele Reggio.
       Son pur dovute al genio e magnificenza di questo gran principe la strada di Mergellina; due ville, una in Portici ed un’ altra sul colle detto di Capodimonte; il teatro San Carlo, massimo in Europa! L’Albergo de’ Poveri, messo alla contrada della città verso settentrione, come nunzio di generosa pietà; l’immenso edifizio dei Granili al ponte della Maddalena; documento di mirabile previdenza di quell’ottimo Principe; la più maravigliosa delle regie in Caserta, simbolo come osserveremo della potenza di tutte le Arti di quel tempo: monumento di tanta magnificenza, che pareggia con quella de’ Cesari, per cui altera alzò la fronte la dimessa città, che dall’acquedotto di 27 miglia, riceve le acque che scorrono pei ponti della valle di Maddaloni, con tant’arte innalzati, che se non parlassero le scolpite pietre e le memorie, quell’opera sarebbe creduta della grandezza e dell’ardimento di Roma — E sotto il suo regno i fortunati scavi d’Ercolano e di Pompei che per anticaglie e per papiri han fatto uno de’ primi in Europa il Museo Borbonico, ed ivi il Farnesiano, Museo che comprende tutti i miracoli delle Arti, di cui farem partitamente parola — Ed a’tempi di questo Re si elevarono, come pur diremo, le Accademie, fra le quali la Ercolanense nel 1755; migliorando l’Università degli Studii; i Collegii ed il celebrato santuario delle Arti e delle scienze, con le accademie delle Belle Arti e di Architettura; con una copiosissima Biblioteca, mirabile e frequentata.
        Ferdinando IV, indi I Borbone, nel 1780 fu il primo a partir la ciità in dodici quartieri, allorchè istituita la Deputazione del buon governo, allogò un giudice di Vicaria a ciascuno di essi. Di poi, continuando le opere paterne, e non allontanandosi dal

    onde s’intese a porre argine alle onde commosse da’ venti meridionali. Sopra la porta del corpo di guardia vedesi una statua di marmo del glorioso S. Gennaro in mezzo a’ trofei militari, e sotto le due latine epigrafi che ricordano l’anno ed il fine di quelle murazioni. Le quali furono a scirocco più confortate da una gettata di scogli; ed a borea, due palmi circa dal pelo dell’acqua, si costruì una larga banchina, o sponda, e furono aperti quegli ampli magazzini che vedi per comodità del mare, tutto adornandosi il luogo con vaghe fontane, delle quali ora non se ne incontra pur una, andate via con le ultime opere. Al lato d’occidente si fecero due scalee per montare alla strada superiore, la quale fu assicurata con parapetti di pietra vesuviana, e della stessa lava lastricata la prima volta.
       Dal ponte della Maddalena sino al Carmine già il conte di Harrach vicerè per Austria, aveva appianato la strada. Di qua alla Marina del vino ne’ nuovi tempi reali la contrada si stese nel mare, costrutto un ponte sul ramo della Bolla che muove i molini ad oriente e fortificato con robusti pilastri il guado del Carmine. La leggenda del Mazzocchi e gli ornati di marmo sono stati tolti da pochi anni dietro per far luogo alla via de’Fossi, cui metton principio le strade ferrate. Alla porta di Massa si gittò un lunghissimo ed angolar ponte sopra piloni per solidità non più veduti, affinchè piantandosi in mare a mezzodì una grossa e lunga muraglia, valesse a stringere la bocca del porto, e a mantener le arene che le onde menavano nel riflusso dalla spiaggia della Conceria. Così rimase chiuso il Molo-Piccolo, e addetto al traffico di minute navi.
       Alla punta di tal braccio meridionale del ponte si alzò un discreto palagio di pianta ettagona per l’uffizio della Deputazione di Salute e del magistrato del mare, il qual palagio coronar si volle col simulacro in marmo di Maria Ss. Immacolata, la quale in compagnia di S. Gennaro, che l’è di lato all’altro lato del Molo, fu salutata guardiana del porto. E quì se tu sei vago di architettura, nota che a’ lati della statua della Vergine son quattro simboli cavati dalle litanie che la Chiesa recita in onor di lei, i quali fanno un ornato molto singolare. Riguardali diligentemente, e sia principal subbietto di considerazione, come rara contraddizione di

    serviron di piazze, come noi diciamo qualunque luogo dove si va a far le spese cotidiane de’commeslibìli. E quì buccieri, beccai, pescivendoli, erbaroli, ed ogni generazione di venditori, sotto tende, ombrelle, incerali vecchi, baracche, e mille ingombri laceri e sudici serravano, infestavano la strada, rotta da lor congegni per metter su bottega, allagata dalle acque fetenti de’ lor mestieri; e guai a colui che sì fosse lamentato di quelle sozzure! La lunga via della marina in peggiori condizioni; senza lastre vulcaniche, nè mattoni in taglio, il suo era quel poco di suolo di rena seminato tutto di ciottoli, che il mare abbondantemente lasciava a misura che ritiravasi indietro, e v’era in siti dove le onde battevano con gravi danni al basamento delle case; ed il sentiero trovavasi guasto, affondato, lurido per acque stagnanti e per gli sbocchi de’corsi neri; sì che tutta la corda che dal Molo-piccolo correva al Vado (guado) del Carmine non si poteva senza pericolo praticare. Questa era ja città sin presso il 1734.
       Opere Borboniche — Ritornata questa bella contrada a metropoli delle due Sicilie, sì alzò dalle vilezze vicereali al decoro del tempo passato. Parve splendere novellamente i giorni di Roberto e di Alfonso, ed i baroni rivenuti in corte, cinsero la reggia ed i prossimi luoghi di grandi palagi, i quali se non ritraggono della virginità dì forme del 500, tra gli arbitrî ed i capricci attestano alcun che di maestoso ed ornato, sicchè ben discerni la casa dell’artigiano e del mercatante, da quella del reggente di Vicaria e del nobil signore; al che oggidì pare che gli architetti, contravvenendo a’ fini dell’arte, non più pongano mente. Fu quella un’era operosa di costrutture, ed il Re edificava agli Studi, a Capodimonte, a S. Giovanniello, al ponte della Maddalena, e fosse stato in piacer di Dio, che la stupenda opera di Caserta avesse murato in alcuna piazza di Napoli.
       La via maggiore che fu ampliata ed abbellita da Carlo è quella della Marina, ed i lavori più dispendiosi e durevoli furono al Molo nel 1743. Quell’ala di fabbrica che dal faro va spiccata ad oriente per trecento e più palmi, e termina in un bene architettato fortino, colla pìccola lanterna a levante della calata, o, come qui dicono caricatoio, di opera di mattoni e piperno, son costruzioni caroline,

    Miradois, della Stella, della Cesarea, di Gesù e Maria, di S. Efrem nuovo, di Monte-santo, e di S. Leonardo (Chiaia) che tutti vedrai nella mappa correndo in giro da levante per borea e maestro sino a ponente; il che ti da una misura di ventun miglio e passi dugento, secondo il nostro Celano al 1692, o di miglia venti e mezzo, secondo il Carleitti al 1776.
       Traevano i Napolitani la somma de’loro traffichi al Molo e nelle vie interne, prossime alla marina. La strada di Porto serviva di principal mercato di commestibili, come il campo innanzi il Carmine e S. Eligio era la più gran piazza de’ rivenduglioli e de’cenciai. I mercanti di genere in grosso, lasciato il largo dell’Olmo nella regione Forcellense, si posero da prima a’ Banchi-nuovi, alle spalle del nobilissimo convento di S. Chiara, e di poi si strinsero tutti in quel del Maio, presso i Lanzieri e S. Pietro Martire. 1 fabbro-ramai erano allogati giù alle strade dell’angolo orientale del Pendino, una volta detta l’Inferno, di poi Pizzo-falcone, ora de’ Ramari. I magnani ebber preso l’altra ad oriente de’ramari, della degli Zappari. I coltellinai, gente tutta calabrese, presso la quale, prima che in Campobasso era il vanto de’ lavori in acciaio, furon messi in una stradetta ad angolo, a ponente del Pendino. A ponente ancora di essi eran già posti i mercatanti di orificerie, a settentrione de’ quali la lunga, tortuosa, angusta, bassa e sconcia strada che comincia al Pendino e termina a S. Pietro Martire, era, e fu ancor di più occupata da fondachi di telaiuoli, pannaiuoli e gallonai, che ve n’era una moltitudine da non si poter noverare. A lato della marina eran bottai, catramai, cordai, venditori di reti e di calce. I librai si dilungarono per S. Biagio, Nilo, e il Gesù Nuovo: i fabbricanti di cappelli montarono all’Anticaglie: i profumieri ed i merciai a’ Guantai vecchi: i calzolai a S. Nicola de’Caserti ed alla Corsea: i notai alla Pace. Era il palazzo vicereale alla estremità di Toledo: tribunali raccolti in Castelcapuano: il corpo di città ora in S. Lorenzo, ora in S. Agostino: gli studi in S. Domenico ed al Gesù vecchio: l’officina delle monete alla Zecca: i banchi a S. Eligio, alla Pietà, allo Spirito-Santo: le milizie nei castelli. Tutti gli spianati e le vie più grandi

    è pure capace di ristorazione. La dipintura che vedi a porta Capuana non è del Preti, ma opera a fresco di Gennaro Maldarelli, fatta nel 1837.
       Dalla via di mare furono ancor di più protratte le porte; ma fuori l’Olivares, nissuna indica il nome di alcun suo costruttore, e sono addomandate, come nota anche il Celano, de’Pulci, della Calce, del Molo-piccolo, di Massa, del Caputo, della Marina del vino, della Pietra del pesce, di S. Andrea, del Mandrone, di S. Maria a Parete, e del Carmine, tutte, fuori l’ultima, non decorate, non grandi, nè con indizii di gangheri e saracinesche, ma deformi, sviate, sopraccariche di case e casipole, che paion piuttosto supportici bui e brutti, che altro.
       Il molo alfonsino dopo la tempesta del 1591, era quasi fuori dell’uso. Ne fu tenuto parere tra il vicerè Olivares, Alonzo Sanchez, Marchese di Grottola, e l’architetto Domenico Fontana. Lievi riparazioni ne provvennero: ma invece l’architetto diè fuori un disegno, stimando di stringere ne’ripari di un molo le acque che dal fanale correvano alla torre di S. Vincenzo, la quale fu in questa occasione che per le nuove fabbriche si aggiunse alla terra. Nel supremo Consiglio d’Italia che reggevasi a Madrid, non piacque che in Nupoli si facessero spendi di grosse somme; onde fu tolto mano a’ cominciati lavori. Ed a’ fatti del molo soccorrevano il duca d’Alba, ed il Marchese del Carpio, dal 1625 al 1689, ristorando, specialmente il secondo, tutta la lingua di terra che aggiunge al fanale, e murando, il primo, presso di questo un fortino con quattro piccole torri; di che leggi memoria nella base della lanterna.
       Dopo tutte le opere di rifacimenti, di ampliazioni e di mura sin qui ricordate, nel secolo XVI il circuito della città era, secondo il Brienzo, di passi sei mila, pari a miglia sei, e secondo il Summonte, di miglia cinque e mezzo. Quindi fu proibito con prammatiche di alzar costruzioni nel pomerio. Ma, cadute quelle leggi in dimenticanza, o tornate poco acconce a’ cresciuti bisogni, agli antichi borghi di Loreto, di S. Antonio Abbate e de’ Vergini, compresa la Sanità, si aggiunsero gli altri, che sino alla partizione di Napoli in quartieri, si addomanaavano della Montagnola a

    vicerè per Filippo IV di Spagna, la quale prese il suo nome, ed è quella che vedi. Ancora, per commodità pubblica, e specialmente per la gente forense, la porta di Spirito-Santo fu traslocata ancor più su per opera del vicerè duca d’Alba, e le appose il suo nome, il qual presto caduto in disuso, dette luogo all’altro ond’è nota oggidì di porta Sciuscella (Carrubba). Attualmente essa ha ripreso l’antico suo nome di Alba. Sopra tutte queste porte terranee trovi, in bronzo, in marmo ed in istucco una imagine a mezzo busto, o intera di S. Gaetano Tiene, che fu ascritto nel numero de’Santi padroni di Napoli nella pestilenza del 1656. Il fine ed i voti de’ Napolitani son detti in questa epigrafe sotto tutte le imagini del Santo.

    D. O. M.
    Beato Caietano Cler. Reg. Fundatori
    Publicae Sospitatis Vindici
    Civìtas Neapolitana
    Ad Grati Animi Incitamentum
    Simulacrum Hoc Posuit Dicavitque
    Anno Christi MDCLVIII.

    Demolita, come accennammo, la porta di Costantinopoli, il semibusto del Santo, che stava a capo di essa, vedesi ora su decente basamento addossato al muro, tra la porta della chiesa e quella del monastero, ove si legge in bianca pietra questa medesima epigrafe.
       Ogni altra leggenda ha attenenza con i titoli, le bontà e le cortesie de’ vicerè che in qualunque modo posero mano a’bisogni delle porte. Le quali appunto a quel tempo furono decorate con egregie pitture del Cavalier Calabrese, come chiamavano Mattia Preti, per isconto di pena capitale, a cui fu condannato, allorchè riparando da Roma, dove ebbe ucciso un emulo nel concorso delle pitture in S. Pier della Valle, entrò qui a’ 15 agosto 1658, rompendo il cordone. fatto per la peste, e piantando uno stocco nel petto della scolta. Gli affreschi di questo valente dipintore andarono a male, perchè altri furon dalle piogge deturpati, altri dal cannone, altri dagli abitanti de’prossimi palagi, che vi apriron su finestre, o innanzi vi stesero terrazzi, e non avanza che solo quello a porta S. Gennaro, il quale, comecchè guasto in alcun luogo,

    Castelnuovo la porta sino a quel punto della strada di Chiaia, ove per mezzo di essa si volle congiungere il colle Echia all’Ermico. Ad oriente fece ancor più rabbellire Porta-Capuana coll’ insegna del Re cattolico in mezzo alle due statue marmoree di S. Gennaro e di S. Agnello; e ciò perchè comparisse più vaga ed ornata nel dì 25 di novembre 1535, in cui il glorioso Imperador Carlo V fu ricevuto in trionfo da noi, dopo aver domato i barbareschi di Tunisi.
       Per questa; opere ne risultò un vallo, il quale poneva capo dal termine delle mura aragonesi a maestro di Ponte-nuovo, e continuando lungo il Largo delle Pigne, volgeva ad angolo dove piega in giù il convento delle suore di Costantinopoli verso le Fosse del grano. Di quì, attraversato il Mercatello, per una larga curva distendevasi di fronte alla parrocchia di Montesanto, d’onde tirava su verso il monìstero della Trinità, e poi sino a Castel Santermo. In ciò si valse della difficil postura de’ luoghi, perchè ripigliando a lunghi tratti il muro, il mandò intorno per la porta di Chiaia, circondando il Chiatamone, sino o toccar l’Arsenale. Così, come narra il Giannone, in meno di due anni per questa lunga murazione furon racchiusi nella città tutti gli edifizi e le strade ch’eran fuori di Monte-oliveto sino a S. Martino, e da S. Carlo all’Arena a S. Lucia, Questo vallo fu architettato con bene intese leggi di fortificazione irregolare, con cortine e baloardi sostenuti da spalle quadre e fianchi sporgenti ad angolo, con fossi e terrapieni, usatosi il tufo delle prossime colline in pietre più d’un palmo, commesse in tal quantità, da provvenirne un parete molto massiccio, siccome si vede. Da ultimo il circuito delle mura di qua de’ borghi aggiunse la lunghezza di cinque miglia e mezzo, come di poi ne faceva misura il Mormile al 1625.
       Delle porte dalla via di terra soltanto le tre ad oriente rimasero aragonesi: le due a tramontana, e le due a ponente divennero spagnuole. In questa ultima direzione porta Spirito-Santo era molto lontana da porta di Chiaia, onde essendo necessario un altro sbocco in mezzo, verso Monte Santo si usciva al pomerio per un largo foro; il perchè la contrada era detta da’Napoletani il Pertuso (pertugio). Perciò ivi fu costruita una porta dal duca di Medina,

    S. Antonio di Vienna; ancora di fuori la porta del Carmine a S. Maria di Loreto, e al di là di Porta S. Gennaro, già nella valle de’Vergini, e su per le falde di Miradois in linea di greco a maestro. Dal verso di ponente, oltre Porta-castello si diffuse il borgo di Chiaia; e due grossi corpi di fabbriche da Porta-reale si spiccarono, l’uno Verso il colle di S. Martino, che si disse prima al celzo (gelso), e poi sopra i quartieri, e l’altro su per il colle olimpiano, che addomandarono l’Infrascata.
         Ne’ venti anni e mezzo che D. Pietro di Toledo tenne l’amministrazione del reame, ridusse questo uno de’ capiluoghi della monarchia spagnuola a quella forma ed a quella nettezza che ha molto di attenenza allo stato presente. Qui non è raccontar delle demolizioni di antichi supportici, che il Rosso nel suo Giornale chiama grotte oscure, nè dello sgombramento degli antri dal Chiatamone che notar Cataldo addimanda sozzi prostiboli; nè si vuol toccar delle chiese, delle fontane, di grandi edifizi di varia natura che costruì; e del come riunisse i tribunali in Castelcapuano; nè di quel palagio turrito, a maestro di Castelnuovo, che ultimamente Ferdinando II radeva da’fondamenti perchè la splendidissima reggia napolitana isoleggiasse nel Largo di Palazzo. Quanto alla via di mare questo illustre vicerè sgomberò delle sabbie e dilatò la muraglia del Molo-piccolo, al grande non volendo menomamente riguardare; imperocchè dominato essendo da’ venti di scirocco, e’ stimava inutile o poco qualunque provvedimento.
       Dal nuovo palazzo in che prese dimora aprì sino allo Spirito Santo una strada che porta il suo nome, in cima alla quale allogò Porta-reale, e fu detta’ dello Spirito Santo. Demolì la porta in cima di S. Giovanni a Carbonara, e costruì il ponte, dì fabbrica, prima levatoio, che abbiam chiamato Ponte-nuovo e che attualmente più non esìste per la nuova strada in costruzione che deve raggiunger quella che mena alle stazioni delle ferrovie, ed alla marina. Da presso la chiesa del Gesù delle monache trasse Porta S. Gennaro al luogo dove la vedi: disfece Porta Donnorso, e la riedificò di lato alla chiesa di S. Maria di Costantinopoli, da cui tolse il nome, ed ora, come abbiam detto, distrutta; e ad occidente trasse da

    Capuana si appellarono l’Honore e la Virtù. Le leggende a Pontenuovo furono guaste e perdute dal tempo. Così restaron rinchiuse dentro la città la contrada del Lavinaro, nome che trasse dal torrente che le piovane ingrossavano calando dalle colline a borea di Napoli, prima che fossero state mandate per il Ponte-nero; la contrada della Duchesca, così detta da’ giardini che ivi fece Affonso li quando era ancora Duca di Calabria; e la contrada di Carbonara, già piazza delle giostre, e quindi decorata sin da’ tempi di Roberto.
       Ferrante fu il primo che usasse all’opera del fortificare la pietra detta piperno delle lave di Succavo e Pianura; e le murazioni furon condotte da Giulian de Maiano; il quale su l’arco di fuori delle porte effigiò in bassorilievo di marmo la persona del Re a cavallo col motto in testa

    Ferdinandus Rex Nobilissimae Patriae.

    e nel basso scolpì le arme de’ signori aragonesi. Queste gravissime opere costarono la somma di ducati ventottomila quattrocento sessantasei.
       Impedirono la continuazione del recinto aragonese le turbolenze che seguitarono per le nuove guerre che ebbe a sostenere il Re nella famosa congiura de’ baroni, il cui subbietto per eloquenza e sapienza rendette famoso nelle lettere Camillo Porzio, e nell’arte della pittura Pietro e Polito dei Donzello che ne istoriarono a fresco i fatti nelle pareti del palazzo di Poggio-reale.
       Opere Vicereali — Durante il reggimento de’ vicerè accadde in Napoli ciò che in Roma avveniva del governo ecclesiastico rispetto alle opere pubbliche; perocchè siccome in questa città ogni nuovo Pontefice emulando i fatti del predecessore, veniva con le arti celebrando il suo nome, così presso di noi ogni nuovo vicerè non volle comparir da meno di chi tolse il luogo. Molti di essi applicaron la mente ad abbellir la città; ma per ciò che spetta al perimetro di essa, troviamo solo i nomi del Toledo, dell’Alba, del Carpio e del Medina che ebbero diretta intenzione d’ampliare il muro.
       Oltre il pomerio dopo le murazioni reali si formarono de’ nuovi borghi, principalmente agl’Incarnati ora vicoli del Cavalcatoio oltre Porta-Capuana, e dal capo in giù della badia di

    scirocco di Castelnuovo, verso la torre di S. Vincenzo, dove eran riparate le regie galee, e più volentieri ancoravan le navi. Così egli portò le fabbriche sino a quel gomito della nostra lanterna che guarda le batterie. E poichè indi a poco i Genovesi gli dichiararon guerra, volle attendere a fortificare anche meglio il porto ordinando che fossesi accosto il faro gettata una scogliera delle pietre tagliate alla lava della solfatara in Pozzuoli. Da quell’ora il Molo piccolo fu usato per lo commercio de’battelli e delle navi di poco levata; ed i vascelli e galeoni presero a trafficare le acque del nostro porto. Il quale fu detto a quel tempo, e dicesi tuttora Molo grande.
       Essendo oltra le mura orientali cresciuta la città in borghi, Ferrante I intese l’anima a farne un corpo con la metropoli, e dette mano all’opera dal lìmite di Mercato, tirando un muro in linea d’austro a tramontana, sino alla contrada che dicesi di Pontenuovo: così rimasero parte abbattute, e parte tramutate in case ed officine di lavoratori le mura angioine. Il giorno e l’anno delle costruzioni son notati in due modi: un autore di quel tempo afferma: a dì 1 di luglio 1484, re Ferrante fé cominciare le mura di Napoli, et isso nge pose lo palo dereto a lo Carmine avendo a lato Francesco Spinelli, sindaco della città, e promotor fervorosissimo della nuova opera, di cui fu nominato commessario; ed un altro scrittore pur contemporaneo asserisce così: Hoggi che sono 15 di jugno 1484 si è posta la prima preta de le mura nove di Napoli con le turre, et s’ei (è) posta innanzi lo Carmine presente la maestà de lo signore re Ferrante et lo capo de dette mura ei messer Francisco Spiniello. Per opere siffatte la porta di Mercato fu riaperta al Carmine; da sotto il colle di Soprammuro si trasportò Porta forcella al sito dove ora col nome di Portanolana; a S, Caterina a Formello si trasse Porta Capuana; e l’antica Porta S. Sofia si traslocò tra le due torri, dove appresso fu demolita, sopra Ponte nuovo. Le quali porte furon costrutte ciascuna in mezzo a due torri, a cui si vollero imporre in quadretti di marmo di questi nomi che ancora sì leggono. Le torri al Carmine si dissero la Fedelissima e la Vittoria: quelle a porta Nolana si addomandarono la Cara Fe e la Speranza: le altre a porta

    alto trecento cubiti, come dice il Raimo citato dal Summonte, ed abbattuto ne’tempi Aragonesi per ampliare la via. A lei dobbiamo ancora un altro porto; perocchè inutile era una specie di sbarcatoio o seno che s’incurvava presso l’odierna Calata del Gigante, ove trafficando con ispezialità que’ di Provenza, che ivi presso dimoravano, si diceva il Porto Provenzale; e quasi fuor di pratica era messo il molo de’suoi antecessori, già conformato quasi tutto a spiaggia, ed a cui dette l’ultima rovina la spaventevole tempesta del 1343 nel giorno di S. Caterina della ruota, quando lo mare feo montagne de aqqua, e lo vento de le Vacche de Capre (punta della Campanella) le portao en terra; e l’aqqua arrivao a la midietà de Monterone (Ss. Salvatore sino a S. Marcellino, così che la gente che abitava la marina si prosternò de factia en terra, credendo che fusse juncto lo dio de lo judizio. Fu in quell’orribile giorno che ipsa Regina plangendo si portao scalza ne la ecclesia di Santo Lirenzo; e nel porto non ci restao barca, o nave che non fusse restata submersa. Nè il disastro cessò che doppo de hore hotto quando lo mare latrone inrnao a lo luoco suo, e se portao un trisoro de robba, che passaro piue di duieciento mille scuti, e lassao en terra piue de dieci vractia de arena, taliter che illi che si trovavo in qualche casa, usciro per le fenestre.
       l limiti del Molo-piccolo, fin d’allora così detto, non vogliasi credere essere i brevi ripari che oggidì tu vedi, ma debbonsi considerar sopra la mappa della Dogana vecchia sino alla Porta della marina del vino; e lungo questa linea furono rifatte parecchie porte, che, lasciato il primo lor nome, ne presero un nuovo. Così la città fu ampliata nuovamente a mezzodì, appunto in quel sito che da S. Maria di Porto-Salvo in su è solcato e dìsvolto da traghetti e viottoli affondati e fangosi ed oscuri, che oggidì mercè coloro che reggono le cose nostre, vannosi ampliando ed abbellendo.
       Se Alfonso il Magnanimo non è additato come ampliatore della città, debbasi nondimeno a lui esser grati per le opere che fece alla marina. Innanzi di muover guerra a’ Fiorentini nell’anno 1447 riuscito il Molo più piccolo di poca commodità e sicurezza a’bisogni del mare, prese a distendere le costruzioni angioine a

    luogo del pomerio che i nostri antichi addimandavano il Paradiso, e volle il re che fosse chiamata Porta-Regale, e sull’arco vi pose questa breve leggenda.

    Egregia Nidi Sum Regia Porta Plateae
    Moenia Nobilitas Hujus Urbis Partenopea.

    Sotto il reggimento di questo operoso sovrano Napoli fu ornata di belli e sontuosi edifizî. Il Duomo e la chiesa di S. Lorenzo ampliati e condotti a termine; edificati ì tempii di S. Pietro Martire di S. Domenico, e di S. Agostino tutti grandiosi e con vasti e nobili conventi. Oltre le mura fece opera che i baroni ponessero deliziose ville, qui invitati e interessati dalle cortesie ed onoranze onde loro era largo il re, del quale gli storici ricordano uno splendidissimo palagio suburbicario dugento passi lungi da Porta Capuana in quel sito che oggidì chiamasi Casanova, dove questo magnifico Signore, che per la liberalità, la clemenza, e le altre virtù sue il Costanzo rassomiglia ad Alessandro Magno, la sera del 5 Maggio del 1309 sopraffatto da febbre acutissima, amaramente da tutti rimpianto, morì.
       Le opere littorali de’ signori d’Angiò segnano ancora il nome delle due Giovanne. Della seconda regina vuolsi dir fuggevole parola; Imperciocchè ampliando la città a ponente nel 1425 trasse le mura della Dogana del Sale sino alla strada della Conceria. Giovanna I pur nelle sue strettezze, volse la mente a’ traffichi, e volle che non mai sopra i mercatanti cadesse alcuna gravezza. Ed affinchè non fosse luogo a discordie tra genti di diverse nazioni, assegnò loro distinti quartieri. A’ Francesi aprì la piazza ad oriente di Caslelnuovo, che anche oggidì tien l’aggiunto di francese, togliendo questi mercati dalla Rua francesca ad oriente degli Orefici, dove li avea collocati Carlo I. I toscani allogò nella Rua toscana alla Sellaria. A’ Provenzali concedette lo spazio che fu detto Rua provenzale, appunto in quel luogo dove al secolo XVI si edificò il palazzo reale. Fece una contrada a’Catalani, là dove Rua catalana anche oggi si dice; e già alla Pietra del pesce, pose la Loggia ai Genovesi, dove si. vedeva un portico sostenuto da trenta pilastri,

    assegnò un nobilissimo convento con una magnifica chiesa detta di S. Maria la Nova tutto per lui innalzato. All’aspetto australe di questo nobil tempio fu traslocata una vecchia porta che addomandarono Petruccia, e di qui lungo il lido trovansi la Porta delle calcare dov’è S. Pietro martire, la Porta della Paya al capo occidentale del Pendino, presso il più recente ghetto degli Ebrei, essendo l’antico a S. Niccolò de’Caserti. Ancora, ad oriente della fontana Medusa rinviensi la Porta di Pizzofalcone, appunto la dove Carlo fece diroccar l’antica torre napolitana, e giù al Mercato ricordasi la Porta del Moricino. Da ultimo fu questo re che volle la prima volta lastricate le strade; usando a tal uopo le pietre rinvenute nella via Appia.
       Ma già il porto antichissimo di Napoli erasi renduto impratticabile per la copia del limo, di sassi e lapilli che il mare lasciava sopra la spiaggia, acquistando terra verso Pozzuoli. Onde che Carlo II al 1300 coll’opera di Marin Nassaro, Matteo Lanzalonga e Griffo Goffredo, dettero mano al Porto di mezzo ed usarono a questo fine lo spazio che corre da S. Onofrio de’ vecchi oltre piazza di Porto ed alzarono il nuovo faro a quel sito che anche a’ nostri di addomandasi della Lanterna vecchia, proprio alle spalle della chiesa testè nominata. Questa opera alle antiche regioni ne aggiunse due nuove, dette fin d’allora di Porta-nova e di Porto. Le ampliazioni di questo monarca non trovaron segno verso la marina. A levante, a’limiti del Mercato presso lo sbocco del Lavinaro si cavò la porta che dicemmo di Pizzo falcone e fu detta Porta-Nuova e del Mercato; e lungo la linea meridionale troviamo a questi tempi notate la Porta-Portella alla Selleria, la Porta de’monaci agli Armieri, e la Porta dalle palme, il sito della quale sin qui è sfuggito alle nostre indagini. Fu ricostruita la Porta delle calcare col nuovo nome di S. Pietro Martire della egregia chiesa che ivi presso Carlo fondò e dedicava a quel santo; e più sopra ritraevasi la Porta-Petruccio fin presso a Castelnuovo, e se le apponeva il nome di Porta a Castello, e delle Corregge, così come si chiamava la prossima strada, che fu pure usata all’esercizio delle giostre. Allogavasi la Porta- Ventosa presso il palazzo del principe di Salerno Sanseverino, oggi tempio della Trinità Maggiore, in quel

    riedificò la porta di Capua quasi in cima alla fontana di Formello, Buono, architetto e scultore napolitano del secolo XII fu allogato a queste costruzioni; se non che di Castelcapuano non alzò che le corti e le tre spaziose nobili scale. Si dirà più largamente altrove come Federigo II il compisse coll’opera non del Pisano che dicono, ma del Puccio nostro concittadino; e come il Vicerè Don Pietro Toledo vi ragunasse i tribunali, commesso il carico del disegno a’ nostri architetti Ferdinando Maglione e Giovanni Benincasa.
       Devoluta la corona di Napoli alla nobilissima stirpe di Svevia, Errico VI fin dal cuore di Lamagna al 1196 ordinò che si abbattesse il muro di Napoli, immemore, come dice Riccardo da S. Germano, della divozione de’ cittadini, che volontariamente gli ebbero posto in mano le chiavi della città. Non dimenticarono l’ingiuria i Napolitani, che con gravissime spese ripararono al danno portato, e fecero ragione di contraddire i propositi di Corrado, nipote dell’Alemanno, quando con impeti ostili si volse contro questa città fortificata alquanti anni addietro nel baliato d’Innocenzo III durante la minorità di Federico II. Volgea l’anno 1253 che Corrado si occupò nella pianura di Carbonara, che verso quel tempo servì di piazza per le giostre dove al capo d’aquilone re Ladislao pose al 1400 le fondamenta della chiesa di S. Giovanni, dove le sue ceneri riposano in quel famoso sepolcro che Giovanna II sorella di lui, quattordici anni appresso gli faceva ergere per lo scalpello di Andrea Ciccione. Ma il feroce figliuolo del magnanimo Federico ebbe lieta la fortuna delle armi; prese Napoli dopo ostinato assedio; e mal reprimendo l’ira per la valorosa resistenza che gli opponemmo, spiantò le mura della città.
       Le quali al 1260 Carlo I d’Angiò protraeva più lungi, tra levante e mezzodì, in una curva rientrante da Castelnuovo, da lui edificato il 1279, sino al Campo moricino, oggi Mercato grande, dove dal Foro augustale trasportò le faccende del minuto traffico. In altro luogo si dirà dove ed in che modo fu murato quel castello, e come il re ivi presso edificasse su piccola isoletta una torre che fu detta di S. Vincenzo, Qui e d’uopo soltanto notare che a’ frati di S. Francesco, che tolse di quel sito,

    furon corrotti con voci barbare, onde troviamo mutato il nome ad alcune delle antiche porte. Nella via di mare si cominciano a nominar tra le antiche carte degli archivi di S. Sebastiano e della Zecca (oggi nell’archivio generale del Regno) le porte di Posterula e delle Ferole o Ferola, che noi saremmo tentali d’interpetrar Falero, e se qui il luogo consentisse, recheremmo moltissimi esempi dì corruzioni di voci anticamente in altro modo pronunziate: ancora, porta Baiana fu detta Sposa-nuova, e la Licinia cangiata in Ventosa. A tramontana rinviensi Porta S. Gennaro e più sopra di questa la Porta-padronata forse l’antica Pavezia. La porta innominata verso S. Pietro a Maiella si disse di Donnorso o Orsitana. E qui cade in acconcio notare che il Celano l’addita per quella di Costantinopoli perchè d’appresso vista la chiesa dedicata alla Vergine sotto questo titolo. Oggidì per le belle opere d’ornato pubblico che la città ha fatto e sta facendo, come diremo, sotto gli auspici dell’Augusto Nostro Signore, questa porta fin dall’anno antipassato più non esiste. La porta-Campana, e poi regia, fu addimandata Capuana per la quale entrò Ruggiero la prima volta in Napoli nel 1140, poichè pacificatosi con Papa Innocenzo II, il trasse della prigione di Galluccio, e n’ebbe la investitura del regno.
       Il perimetro della città in sul mettersi la monarchia contava passi nostrali duemila trecento sessantatre, val dire due miglia napolitane e poco più d’un terzo. Questa misura fu tolta per ordine sovrano in tempo di notte come attesta Falcon Beneventano, vagheggiando il re in cuor suo il pensiero dei nuovo dominio. Ogni passo equivale a palmi sette, ed un antichissimo tipo di esso in bronzo puoi vederlo in cima della nave minore del duomo al corno del vangelo, incastonato nel muro del primo pilastro verso l’altare. E se del palmo napolitano hai pur diletto di osservare un modello, guardalo in marmo sul piedistallo del leone in fondo alla corte del palazzo della Vicaria dove troverai anche incavato nel sodo le antiche misure del vino e dell’olio.
       Opere regie — Guglielmo I di belli edifizi decorò la città, fortificandola, e protraendone il muro verso levante. Sono provvidenza di questo re Castel dell’uovo e Caslelcapuano , a cui presso riedi-

    generosità del principe è questo marmo che nella cattedrale raccoglieva le reliquie del nostro santo Vescovo Aspreno:

    Dominus Placidius Valentin
    Janus Augustissimus Om-
    nium Retro Principum
    Salvo Atque Concordi
    Dn, FL Theodosio. Invic-
    tissimo Aug. Ad Decus
    Nominis Sui Neapolita-
    nam Civitatem Ad Omnes
    Terra Marique Incursus
    Expositam Et Nulla
    Securitate Gaudentem
    Ingenti Studio Atque
    Sumptu Muris Turni
    busque Munivit,

       Queste non furono ampliazioni, ma ristorazioni; e non si tosto fornite, andarono a mala sorte. A sacco ed a ruba ci posero di nuovo i Goti al 412. Maggiori travagli sopportammo da’ Vandali nel 456, Difesi, e nella difesa malmenati da’ Greci il 490, ricevemmo non guari dopo le ingiurie degli Eruli, a cui, come se la sventura fosse ancor poca, si aggiunse l’invasione de’secondi Goti su il primo terzo del secolo VI. Quando Belisario venne a cacciarli d’Italia, trovò le mura napolitano in salde condizioni di difesa. Pure attesta l’autore della vita di S. Attanagio, che l’eunuco Narsete avesse riparato il muro dalla via di mare, quando caduto dalla grazia della imperatrice Sofia, qui si ridusse verso il 568, d’onde appellò il feroce Alboino, condottiere de’ Longobardi meditando nel suo malvagio animo la vendetta sopra i suoi signori d’Oriente. Contro queste fortificazioni, in fede di Messandro Telesino, che fu lo storico di re Ruggiero, dovettero pugnare un’altrafiata i Longobardi, i Saracini, e di poi i Normanni.
       A’ tempi di che tiensi rapido conto molti nomi greci e romani

    all’anno decimo dì nostra redenzione. Avrebbe dovuto perciò dire piuttosto: Questa rifazione fu fatta da Ottaviano Cesare, altrimenti s’intenderebbe fatta da Giulio Cesare di lui padre adottante, se non si trovasse espresso col proprio nome di esso Augusto, che rifece le mura e le torri di Napoli 54 anni dopo la morte di Giulio Cesare.
       Si nomina Adriano come secondo ristoratore delle mura napolitane al 156 quando intese ad innalzare un tempio al suo Antinoo là dove oggi sorge S. Giovanni Maggiore, Ma è da notare che non vuolsi meritar codesto Cesare del rifacimento delle muraglie, perocchè nissuna notizia certa ne abbiam potuto attingere nelle opere degli amichi, i quali di ciò non si sarebbero taciuti, inclinati come e’ sono in tutte le cose loro a far lodi e romori. Ciò che v’ha di vero, e che puoi raccogliere dal Pontano e da’ suoi contraddittori, è che Adriano ricolmò due valloncelli a ponente del tempio per mettere avanti di esso alcun poco di piazza; onde distese più verso austro il suolo della città.
       Più generoso ampliatore fu il gran Costantino. Il quale, recato la pace alla Chiesa, pose di suo ordine in Napoli, a documento di sua fede, molti templi cristiani, che ancora oggidì veder puoi in S. Giovanni in fonte nel Duomo, in S. Sofia ed in altri luoghi, di che appresso si dirà: ma con ciò non tutte le chiese di quel tempo son da attribuire a lui; anzi si ha da notare la sollecitudine degli antichi a dargli tanta operosità. Allora Porta-Campana venne abbattuta, e riedificato in capo al sito dove si alzò a’ primi tempi della monarchia Castelcapuano, e fu detta regia; e la porta innominata a settentrione del Duomo fu allogata più in giù in quel luogo che fin d’allora si disse di S. Sofia per una chiesetta ivi presso innalzata.
       Nel secolo V cademmo nuovamente in preda de’ barbari; e più di tutti Alarico alla testa de’ suoi Goti fece aspro governo di noi al 410. Fugato di Napoli per le armi di Valentiniano, questo infelice monarca, che non meritava di cadere sotto il pugnale di quel Massimo a cui ebbe dato la chiave del suo cuore, ricostruì il nostro muro e lo munì con nuove torri. Testimonio della

    in che fu travolta per le armi alemanne, francesi e spagnuole, dappoi in qua che andò ornata del nome di metropoli di fiorente monarchia, debbonsi tenere principal cagione operatrice del suo ingrandimento; a cui è mestieri che aggiungi la celebrità del fertilissimo territorio, che a se chiamò gli abitanti di prossime e lontane contrade; le spaventevoli eruzioni del Vesuvio, onde qui trassero altre genti, come in regione più remota dal pericolo; e da ultimo le vicende geologiche e fisiche onde il mare, ritirandosi sempre, aggiunse man mano nuova spiaggia al lido.
       Si attribuisce ad Augusto la prima ristorazione delle mura napolitane; per le opere di cui è da credere che la città si fosse allargata alcun poco verso oriente; imperciocchè ne’ tempi prossimamente posteriori a quel principe troviamo Porta-nolana, mutato il nome in Ercolanense, addossata alla bassa collinetta di Soprammuro, a ponente della Ss. Annunciata, Colui dell’ultimo triumvirato che più prudente non si lasciò fuggire la sua reggia fortuna, narra Dion Cassio, che assai benignamente ci ebbe portato in cuore per tutta la sua vita, tra perchè con grandissima fede accogliemmo i Liparoti che volle ricoverar presso di noi; e perchè lo ricolmammo di onori quando si piacque d’intertenersi ai nostri giuochi quinquennali. Così furono riparati i danni sofferti nel secondo assedio di che Annibale ci strinse l’anno 538 di Roma: ed il benefizio del primo Cesare è ricordato nell’epigrafe appunto riportata dal Celano.
       Ma volendo stare alle parole di quel marmo che fu a caso rinvenuto sotto le fondamenta della chiesa di S. Giacomo degli Italiani all’Ormo, pare che egli sia caduto in equivoco; perciocchè quando dagli antichi si nomina Cesare, senz’altro nome, s’intende Giulio Cesare fondaior del Romano Imperio dopo la caduta della repubblica, da cui presero i suoi successori il soprannome di Cesare. Egli fu spento, com’è notissimo, in senato negli anni di Roma 709, cioè 43 anni prima di nostra salute. Ottaviano suo successore, e per l’adozione fattagli dal zio si diceva Divi F. cioè Filius. Nell’anno di Roma 726 ebbe il titolo d’Augusto, come in detta iscrizione si legge; la quale essendosi fatta nella trentaduesima podestà tribunizia di Ottaviano, corrisponde all’anno 763 di Roma ed

    tornasse saldissimo agli impeti delle macchine guerresche di quei remoti dì, non è mestieri che si comenti. Narra Livio, che lo stesso Annibale, la prima volta che cinse d’assedio la città nostra, si spaventò all’aspetto di quello; ed alla pronta difesa dei cittadini dovette ritirare le armi.
       Tal era Napoli nell’Opicia, nella Campania, in Terra di Lavoro, nomi onde in diverse età fu addomandaio il territorio che oggidì si appella Provincia di Napoli. La sicurezza, come accennammo, e la commodità del sito, la vaghezza della vista, la clemenza dell’aere dettero gran voce dai suoi primissimi dì a questa bella contrada, a cui raddoppiò grido e la solerzia, e il valore, e la sapienza de’ maestrati e del popolo; sicchè fu soprannominata Napoli la greca, la nobile, la gentile, la dotta. Attesta Cicerone che divenne 1’amore de’ capitani, de’patrizii, de’nobili giovinetti, e perfino de’ senatori di Roma, i quali non negli orti, nè nelle ville suburbane della superba trionfatrice del mondo, si recavano per cagion di salute o di studii, ma qui nelle mura di Napoli, come in celeberrimo Oppido. E Strabone non seppe più soave stanza consigliare a chiunque ponevasì ad operar le lettere, che questa città, per serena quiete e beati ozii dolcissima.
       Le notizie che quì dianzi ponevamo insieme sono la somma dei fatti più certi o men dubbii che potemmo sceverare dalle ipotesi e dalle favole dei più caldi ed immaginosi ricercatori di patrie antichità: ancora vogliam notare che, indicate le cose come vedute da cima, abbiam voluto schivare d’impelagarci nel marame delle erudizioni, onde tolsero tanto grido gli archeologi del secolo XVII, e dottissimi uomini del passato. Di certo non ignoriamo anche noi, che molte particolarità di luoghi e di edifizi qui furono omesse; ma pure abbiam voluto a bella posta trasandarle, perchè bastava il darne una complessa e generale idea per ridurci ad un punto, d’onde più concisamente avessimo potuto additare le successive ampliazioni della città.
       Opere de’ bassi tempi — Le guerre che ebbe Napoli a sostenere contro i Romani, i barbari, i Greci bizantini, i Saracini, i Normanni nelle successive sue condizioni di repubblica, di città confederata, di colonia, di ducea, ed ancora i mutamenti dinastici

    questo nome; oggi nominato Croce di S. Agostino. Vicus Fistula per una fontana in cui scorga l’acqua dalla bocca di una Medusa luogo che oggidì si appella Fontana dei serpi. Vicus Pistorius, ora detto de’ Pistasi, occupato a mezzodì dalle fabbriche del monistero del Divino Amore, nel quale agli antichi tempi erano i molini ed i forni da cuocer pane.
       Breve a quella età fu il numero delle porte. Agli sbocchi delle vie maggiori presso le mura era schiuso il sentiero alla campagna Verso la chiesa di S. Giorgio era Porta Nolana, e al capo estremo, dove è ora l’obelisco di S. Domenico, aprivasi Porta Cumana. Prossimo agli odierni gradini minori del Duomo voltavasi l’arco di Porta Campana, e di rincontro presso S. Pietro a Maiella trovar doveasi un’altra porta, che se forse non è la Pavezia fu per certo quella che in altri tempi si addomandò di Donnorso. Fra il Duomo e la chiesa di Donna Regina vuolsi porre un’altra porta, che dopo l’età costantiniane trovasi detta S. Sofia; e in alto di rincontro ad essa, è da allogare Porta Montana. Dalla via di mare si ricorda Porta Licinia, presso la chiesa una volta di S. Geronimo, ora mutata in officina di macchinista, e da ultimo notasi la porta di lato alla rocca che vuolsi di Falero, la quale stimiamo che fosse Porta Baiana. Oltre di queste non trovansi notizie di altre porte nel lato meridionale della città ne’ tempi più remoti di essa, comechè sia da credere, perciò che appresso diremo, che ancora di altre parecchie ne doveva numerare, spezialmente in verso di tramontana, delle quali a noi non è giunto il primo nome.
       Il muro antico di Napoli era altissimo, e di tratto in tratto confortato da torri robuste: la faccia esterna verso il pomerio componevasi di grandi quadroni di tufo, a cui si addossava una parete di dieci a dodici palmi di calce e pietre confusamente. Ve ne fu un nobile avanzo fino in sul declinare del secolo XVI. sotto l’ultimo chiostro di S. Severino, aggettando alcun poco in fuori della parete settentrionale, quando per alcune stanzucce di breve casipola ivi presso costrutta, andò parte diroccato, e parte coperto d’intonachi. Non così alla via di terra, dove ne puoi veder qualche indizio più certo alla salita del vico Loffredo, e all’angolo settentrionale del palazzo della Vicaria vecchia. Cotesto muro se

    Vicus ad Arcum, anche ora così chiamato, presso la chiesa del del Purgatorio, Vicus Lunae, domandato oggi della Pietra Santa perchè scendeva al tempio di Diana, sopra le cui rovine fu edificata la chiesa di S. Maria Maggiore. Vicus solis, in onore di Apollo, fratello di Artemide, il quale serba lo stesso nome a costo la cappella del Pontano.
       Nella regione Campana toccheremo di cinque che furono i principali vìcoli. Vicus Gurges, forse da un’abbondante sorgente di acqua, notata fino a’tempi di Giovanni Villani, e ancor di poi, in quel sito che diciamo S. Giuseppe de’ Ruffi, Vicus Solis, il qual, per nulla confondendosi con quello di sopra, traeva al tempio di Mitra o Apollo, nella piazza dove or sorge l’Arcivescovado. Radius Solis era una via breve alla porta meridionale del tempio sul luogo che quindi occupò la cappella del Tesoro. Vicus Draconarius, oggidì nominato della Lava. Vicus Cornelianus, detto ora di S. Maria ad Agnone.
       Della regione Nilense i vicoli più famosi son questi. Vicus Alexandrinus, prossimo al porto, già denominato de’Bisi, come qui dicono gli impiccati; nome provvenuto non certo da famiglie che siensi, ma da che coloro, i quali erano condannati nel capo, da Castel Capuano per questo luogo traevano al Mercato, dove ora da più di trent’anni non si giustizia. Presentemente questo vico porta il nome del Nilo. Vicus Vestorianus, oggi S. Luciella. Vicus Calpurnianus, or di S. Nicola a Nido: il marmo che serba i nomi di questi due vicoli era nell’antico palagio de’Carafa Colobrano oggi della famiglia Santangelo. Vicus Augustalis, detto di S. Liguoro, che da questa bassa contrada menava al Foro.
        La regione Ercolanense contò maggior numero di vie mezzane e noi accenneremo solo a quelle più corte. Vicus Thermensis a S. Ncola de’Caserti, ove presso gli archi si possono designar le rovine di antiche terme. Vicus Lampadius, ricordato con lo stesso nome da S. Gregorio, dove nudi giovanetti si esercitavano alla corsa con le lampade accese in mano: oggi è detto Vico della Pace. Vicus Serculensis, il quale menava ad un tempio eretto al poderoso figliuolo di Giove e di Alcmena là dove oggi è una Chiesuola detta di S. Eligio de’Chiavettieri. Vicus Cupidinis da un altare a

  1. Questo spettacolo, scrive un ch. ingegno del nostro paese, riesce mille tanti più caro per la benignità del clima. Perocchè, senza descrivere le fresche sere o un chiaro di luna della più cocente stagione, come potrebbe tacersi la luminosità del nostro sole, e le tiepide aure che ci rimenano il dolce aprile a mezzo l’aspro e dispettoso febbraio? Come que’ mattutini raggi che spuntano dal Vesuvio stendendovi a strisce una nebbia d’oro, che cangiasi in torrente di luce per allagar di colpo la bassa costiera? Epperò cantava il poeta:

    Largior hic campos aether et lumine vestit
    Purpureo, lumenque suum; sua sidera norunt.

    Che se, mentre il fumo dell’ignivomo monte si estolle in guisa di smisurato pino, ed il sole tuffasi in un mare di fiamme, comparisse pure la bianca luna sotto il più bel sereno del cielo, allora sì che noi sfideremmo tutte le lingue del mondo ad esprimere la maravigliosa bellezza di quello spettacolo. Intanto mettiamoci per la città. Qui apronsi larghe strade; là vaste piazze; appresso girano tortuosi sentieri; più innanzi son erte facili; più oltre chine dolcemente incurvate; ad ogni angolo botteghe da provvedere dìi qualsivoglia mangereccio non un rione, ma l’intera metropoli; da per tutto templi magnifici, case altissime, di cinque ordini per lo più, spesso di sette ancora, ed un popolo vivace grazioso festivo e nel canto sì privilegiato da natura, che la città ben abbia potuto meritarsi di torre il home da una Sirena. Eccoti ogni venditore, vuoi stabile vuoi ambulante, col canto offrirti la sua merce. Alcuni improvvisano per via con alterno metro: altri con robusto intercalare rispondono a coro alle strofe estemporanee di tale che regge il concerto ed altri van ripetendo la favorita canzone del popolo, e trovano un eco nelle grotte Platanomie, per su le balze d’Echia, negli antri di Mergellina. Non è luogo nè ore del giorno in cui non sentirai infin dalla bocca de’ fanciulli le più care melodie de’ solenni maestri onde Napoli è famosa. Bastan loro due cocci per farne sonori cembali, e la scorza d’ un ramoscello o solo l’ erboso gambo d’ una spiga per tramutar quelle in flauto, e questo in piffero dolcissimo. Da ultimo, quando ti piacerà contemplare a corsa d’occhio gli svariatissimi aspetti di Napoli, potrai scegliere a punto di vista S. Martino, Miradois, Capodimonte, Castel dell’ Uovo, l’erta del Camposanto vecchio, le due-porte all’Arenella, alla villa Gravina, a Portici. Da qualsivoglia eminenza guardata, Napoli ti si parerà dinanzi come lucido prisma, che ad ogni tuo cangiar di postura, vestesi d’una vaghezza diversa sempre dalla primiera, non però meno singolare o men gioconda.
       Non fia superfluo l’osservare che la geografica posizione dall’autore indicata non ben s’ accorda con altri eruditi che delle condizioni fisiche della città diffusamente trattarono. Perciocchè, secondo alcuno di essi, Napoli dal reale osservatorio di Capodimonte sta al grado 40° e 52’ di latitudine boreale, ed all’11° 55’ 45" di longitudine orientale dal meridiano di Parigi. Ed a questa latitudine il pendolo a minuti decimali è lungo 993 millimetri, e 741 quello a secondi sessagesimali: la declinazione dell’ago magnetico, secondo le più recenti osservazioni, giunge a 14° 42’ verso ponente, comechè seguiti eziandio a scemare, siccome per gli anni discorsi: l’ inclinazione a 59 31, e l’intensità assoluta ad 1. 249. Il sole, che sorge alle ore 4 29’ per tramontare alle 7 1’ nel solstizio di state, nasce e tramonta a 7 25’ ed a 4 8’ in quello d’inverno, quando negli equinozi levasi alle 5 e si corica alle 6 con differenza di soli due minuti primi.

  2. La meteorologìa, siccome oggi è ridotta, abbraccia ampiamente la Fisica del nostro globo, investigando e notando tutto quanto accade nell’aria che respiriamo e su la terra che ne sostenta, cioè a dire le vicissitudini del calorico, della luce, dell’ umidezza, dell’ elettricismo o del magnetismo, non meno che l’ imperio di cosiffatte naturali potenze su la vita degli uomini, de’bruti e de’ vegetabili, e sin anche della materia inerte. La quale, obbedendo eziandio all’armonìa di questo corpo grandioso, ha per mirabile divino ordinamento, e non altrimenti che ogni ente dotato di organi, i suoi fluidi in regolare circolazione, e con i propri periodi e le intermittenze, e con i suoi parosismi dichiarati. Questa scienza ha in sopraccapo bisogno di fatti; e noi per comune utilità e diletto vorremmo esporre almeno alquanti i più essenziali ed a questo nostro clima peculiari, ma troppo ristretti sono i limiti del nostro lavoro. Direm soltanto, che la temperatura media nell’anno è di 13 a 14 gradi del termometro di Reaumur, e si ha ordinariamente due volte, verso il 5 di maggio e il 20 di ottobre. L’estremo di temperatura estiva è di gradi 32 quello della iemale di 2. sotto il zero. La qual cosa per altro si osserva raramente; imperciocchè in ventidue anni, due volte il termometro è aggiunto a 32 gradi, cioè il 7 di agosto 1824 ed il 17 dì luglio 1841, e due volte si è abbassato a due gradi sotto lo zero, cioè il 2 ed il 23 di gennaio degli anni 1836 e 4842. D’ordinario il massimo calore si rimane a 26 gradi, e ciò accade da’22 di giugno a’22 di agosto; ed il massimo freddo da 1 a 2 gradi sopra lo zero, e si ha da’12 dicembre a’20 di marzo. I giorni medi sono il 27 di luglio per il massimo calore, ed il 24 di gennaio per il freddo massimo. Però il medio della temperatura estiva è di circa 20 gradi, quello della iemale di 8. La massima elevazione nel termometro è alle ore due pomeridiane; il massimo abbassamento due ore innanzi allo spuntare del sole. La maggiore variazione giornaliera avviene dalla mezzanotte al mezzodì; quella de’ diversi mesi, da aprile a settembre, toccando l’estremo nella state.
       La maggiore altezza del barometro, che siesi potuto vedere in ventìdue anni sul reale osservatorio è di pollici parigini 28 6. 6, la minima di 26 8. 8: sull’ altro della real marineria la massima fra ventun anno giunse a 28 6.9, la minima a 26. 10 6. La maggior variazione giornaliera si osserva dal mezzogiorno alla mezzanotte, quella mensuale da ottobre a marzo; e fra le stagioni nell’ autunno e nell’ inverno. Nel corso dell’anno il barometro presenta due massimi, In gennaio ed in giugno; e due minimi, in aprile ed in novembre.
       I venti dominanti da ottobre a marzo sono gli australi (dal sud al sud-ovest) e sogliono apportar la pioggia; e da aprile a settembre sono i boreali (dal nord al nord-est), e ci danno la serenità. Essi sogliono spirare nel seguente ordine: SN-E. N. S-SO S-O.
       La quantità media annuale della pioggia è di 25 pollici parigini. Le piogge sono più frequenti dopo il levar del sole, e verso il mezzogiorno. Quelle di state sogliono esser più violente e tempestose; le autunnali più continuate ed eguali. Il mese di novembre è più degli altri piovoso; quello di luglio, più asciutto.
       I giorni affatto sereni in un anno sono all’incirca 90; i nuvolosi 70; i variabili 120, ed 80 i piovosi: de’ quali ultimi 30 sogliono appartenere all’autunno, 24 all’inverno, 18 alla primavera, ed 8 alla state.
       Rarissime sono in Napoli le nebbie e di breve durata. La grandine cade cinque o sei volle l’anno e talora impetuosa e di grosso volume. Le nevi si fanno aspettare per molti anni, e sono sempre scarse e di brevissima durata.
       Passando alla constituzione Geologica diremo, che il nostro suolo componesi di terreno interamente vulcanico; e non ha pietre o terre che non siano state generate dal fuoco di due ordini di vulcani sì vicini tra loro, che quasi toccansiper le basi: ciò sono il monte Vesuvio, ed i vulcani de’ Campi-flegrei, il primo ad oriente i secondi all’occidente dì Napoli, da quello divisi per la sola piccola pianura dove corre il Sebeto.
       Le colline che coronano la città appartengono ad un ordine di vulcani, che è quello de’ Campi-flegrei, e si estende da Napoli fino a Cuma, ed è composto di un gruppo di crateri. Le quali colline ancora sono avanzi di crateri, secondo che fan vedere la loro forma e le materie di che sono composte. Il primo ed il più orientale è costituito dalle colline della Madonna del Pianto, di Capodichino, e di Miradois. Ed esse danno origine ad un ricinto semicircolare che comincia dal Pianto e termina all’Osservatorio astronomico. Questo ricinto è la metà dell’antico cratere, di cui l’altra metà volta a mezzogiorno è stata distrutta; ed il suo fondo è occupato in gran parte dalle contrade di S. Carlo all’Arena e de’Vergini, La sua forma bene si ravvisa dall’alto della casa campestre di Cotugno che è posta sull’ orlo del perimetro e giù nel piano dal principio della strada delle Puglie. Il secondo cratere contiguo al primo è formato dalle colline di Capodimonte, dello Scutillo e di S. Eramo, le quali compongono eziandio un ricinto semicircolare che comincia dall’Osservatorio e termina al castello eminente. L’altra metà è stata eziandio disfatta verso il mezzogiorno; se non che se ne possono scorgere gli avanzi nelle alture dell’Osservatorio della marineria, e nella collina di S. Teresa, Nel fondo son poste le contrade della Sanità, dell’ Infrascata e del Cavone Il miglior punto per raffigurarlo è il mezzo del ponte della Sanità. Dalla collina di S. Eramo muove un altro ordine di eminenze di forma ancora presso a poco semicircolare, che da un lato si abbassano a Pizzofalcone ed al Castel dell’ Ovo, formando l’antico monte Echia, dall’altro si prolungano verso il Vomero ed il capo di Posilipo. Qui vuole Breislack che si riscontri un terzo cratere contiguo al precedente, il cui fondo è occupato in gran parte dal quartiere di Chiaia. Ma in verità non pare che la cosa stia a questo modo. Sembra invece che la collina del Vomero e di Posilipo si ordini ad un grande e vastissimo cratere, che ha il suo fondo non già verso Napoli, ma sì verso la pianura de’ Bagnuoli come bene si vede di su il colle di Camaldoli, ed è nel resto assai guasto e sdrucito; talchè si giunge a stento a riconoscerlo, e solo dopo un’accuratissima indagine. Quindi derivano le difficoltà che trovava Breislack nel concepire la formazion del capo di Posilipo; ed in verità, secondo la opinion sua, questo lunghissimo capo rimane mal ordinato al cratere da lui scorto nel quartiere di Chiaia, avente per cinta le colline del Vomero e di Posilipo.
       Ciò che la configurazione delle colline dì Napoli fa supporre è fermamente dimostrato dalle materie ond’ esse sono composte. Le quali son tutte di natura vulcanica, e molto differenti da quelle del Vesuvio; potendosi in generale affermare che si appartengono a due distinte formazioni, delle quali una inferiore composta di tufo pomicioso massiccio, l’altra superiore fatta di lapilli, pozzolane e sabbie stratificate. Queste due formazioni, e la lor giacitura correlativa si veggono in ogni luogo dove sono stati fatti tagli profondi, per esempio nel cratere orientale, nella collina della Madonna del Pianto, nella salita di Capodichino e di Miradois, nella salita dello Scutillo, e finalmente nella collina di Posilipo all’entrata della grottla dì Pozzuoli, Giova dire divisamente di queste due formazioni.
       Il tufo che costituisce la formazione inferire è fatto di minuzzoli di pomici scomposte, legati da un cemento delle stesse pomici tritate. Ha colore gialliccio, e poca durezza, comunque coerente, ed è lavorabile sicchè facilmente si taglia con la scure. Contiene in molti luoghi frammenti di vetri vulcanici, di pomici nere, di tracheite compatta sparsa di cristalli vitrei di feldispato bianco. Le pomici che racchiude son talvolta allungate e molto fibrose onde i poco esperti li credon pezzi di legno corrotto. Vi si trovan qua e là conchiglie marme, come ostriche, pettini, cardi, ceriti, spezie identiche a quelle che vivono nel prossimo mare; ma questi fossili sono assai raramente rinvenuti soltanto nelle cave dì Posilipo e delle Fontanelle ancora verso la contrada della Sanità. Ciò dimostra la origine sommarina della roccia che gli tiene. La quale è massiccia al tutto, secondo che ben si vede nelle ampie grotte che vi sono state cavate per la estrazion delle pietre da costruttura, nelle cave delle Fontanelle e di Capodimonte, nelle Catacombe di S. Gennaro, nella Grotta e nelle cave di Posilipo. Solamente le masse che formano sono interrotte in qualche luogo da lunghe ed irregolari fenditure. La grossezza di questa formazione è stata lungo tempo ignorata, mai non essendosi giunti a toccare il limite inferiore. Ma, la mercè di un pozzo artesiano cavato di costa al real Palagio, è venuta certezza, che la materia del tufo giunge a dugento palmi, cui seguita altrettanta doppiezza di sabbie e di lapilli vulcanici a strati a strati, di fiacca coerenza anzi che no, e vi sono congiunti eziandio non pochi frammenti di lava e talvolta ciottoli di tufo di natura conforme al superiore. Vien poscia una roccia marnosa con abbondanti granelli di sabbie, nella quale incontra trovare di conchiglie fossili, che son carattere della parte suprema del gruppo terziario. Pur non si vuole tacere che in luoghi posti a maggior altezza sul mare, che non è la reggia, assai probabilmente il tufo va oltre a’ dugento palmi summentovati.
       La formazione superiore è tutta di materie incoerenti, cioè di lapilli, sabbie e pozzolane. Le quali materie sono di grigio traente ora al chiaro, ora al bruno. 1 lapilli sono fatti di minuzzoli di pomici; le sabbie di tritumi trachitici piccolissimi con ferro titanato arenaceo; le pozzolane, or più or meno terrose, fanno appena lieve effervescenza con gli acidi. La loro disposizione è distintamente stratificata, ed il parallelismo degli strati si seguita per lunghi tratti infino nelle flessioni e negli ondeggiamenti di essi. Varia poi la spessezza degli strati da pochi pollici fino a quattro e cinque piedi. E si veggono molte volte alternar fra di loro, come si può osservare lungo la strada nuova di Posilipo, Varia ancora è la lor direzione ed inclinazione; per lo più han pendenza inverso il fondo de’ crateri, ovvero verso le coste esterne, e la loro inclinazione non suol essere molto grande, di rado eccedente i trenta gradi. La spessezza in fine di questa formazione è parimenti variabilissima; in alcuni luoghi aggiunge a pochi piedi, in altri si alza oltre a cento.
       La formazione che ora abbiamo discorsa soggiace alla terra vegetale, la quale si può considerare come una mescolanza di pozzolane e di terriccio derivante dalla scomposizione delle piante. È composta quindi in gran parte di minuzzoli di pomici e di feldispato vitreo finamente tritati con lapilluzzi più rari di trachite e di pomice; la sua qualità magra è temperata dall’ humus; onde risulta una terra di color grigio piuttosto grassa, capace di ritenere l’ umido, e ferve con gli acidi. Dopo aver detto in generale delle materie componenti le colline di Napoli, dovremmo vedere le particolarità che presentano i principali siti di queste, muovendo di levante a ponente; ma si andrebbe assai per le lunghe, nè lo comportano i limiti del presente lavoro.
       Il numero e la varietà delle piante di una contrada dipendono dalle cagioni che producono e sostengono la vita vegetativa. Le quali si dicono comunemente naturali, e sono la temperatura e la qualità dell’aria rispetto alla umidità ed a’ suoi movimenti, la luce, l’ acqua, la terra in ciò che riguarda la sua conformazione, la positura, e la natura propria del suolo; e si potrebbe aggiungerne due altre, l’azione reciproca degli esseri organizzati e la estensione della contrada. Le cagioni naturali, sopratutto la temperatura e l’umidità, considerate appresso noi intorno al grado medio, si vede che son tanto favorevoli ad una rigogliosa e svariata vegetazione, che in Europa poche contrade è da mettere a paro con la nostra; niuna forse al di sopra: perocchè gli estremi gradi di temperatura, cui moltissime piante non possono reggere, sono la principale cagione della copiosa o scarsa vegetazione. Ora il massimo freddo che siasi fra noi notato nuoce non pure alle piante de’ luoghi, che non è il nostro, più vicini all’equatore, ma si bene a quelle coltivate che fossero indigene di luoghi caldi posti sulla medesima zona ed alla stessa latitudine di Napoli, ed ancora alle piante indigene annuali e perenni di struttura delicata. Il massimo caldo, già innanzi notato, fa perire o intristire le piante dell’Europa settentrionale, delle Alpi, e parecchie che stanno sugli alti gioghi degli Appennini. Ma perciocchè la temperatura giunge di raro a questi termini, noi veggiamo prosperare nel suolo di Napoli, in campo aperto, poco meno come nel luogo nativo, moltissime piante delle principali parti della terra. Le quali piante non si potendo qui tutte da noi noverare, ne porremo alcune come pruova di quello che si è detto, e di differenti luoghi dove si coltiva piante esotiche, e dove le differenze di temperatura sono piuttosto rilevanti, comechè non molto tra loro lontani. Diremo adunque vedersi da per tutto ne’ giardini facilmente coltivate camelie, ortenzie, ed altre piante del Giappone; iridee, gigliacee, cactee , pelargoni, mesembriantemi, pittospori, erba vainiglia, non che tante altre piante del Capo di Buona Speranza, e magnolie liriopendri, ed altre dell’America settentrionale, come osservare si possono al Vomero, a Capodimonte, a Chiaia, all’Orto botanico, ed in altri siti deliziosi della città e de’ dintorni.
       L’azione de’ venti può molto ancora sulla vegetazione in genere massime sopra quella delle piante esotiche. I venti che dominano sono gli australi, siccome notammo, e questi arrecano con essi il caldo e l’umidità ancora, passando sul mare interposto tra la Sicilia e Napoli. Egli può stare che l’aria umida sia la cagion principale per cui tante sorte di acacie eucalipti, metrosideri, melaleuche, ed altre piante della Nuova-Olanda appresso noi fanno rigogliosamente in campo aperto; mentre a Palermo, volendo fare una comparazione, comechè tra questa città e Napoli ci sia pochissima differenza di temperatura, muoiono subitamente in tempo di estate, o vivono pochi anni e languidamente. Perciocchè essendo quelle molto fronzute, sempre verdi, e piuttosto abbondevoli di parti fibrose, e con poche e superficiali radici a petto dell’ampia cima che esse fanno, dove l’aria sia calda e secca perdono di leggieri il poco umido che si hanno ed intristiscono.
       Il suolo di Napoli, da per tutto dr natura vulcanico e discioto, vuol esser distinto in quello antico coltivato e fertilissimo, dell’altro che si forma a mano a mano dal disfacimento delle lave poco compatte e dalle scorie del Vesuvio; e questo per gran tratto di quel monte è affatto sterile. La varia conformazione di una contrada e la sua altezza sul pelo delle acque, mutando di tratto in tratto la natura del suolo e la qualità dell’aria, rispetto alla temperatura ed umidità, accresce primieramente la estensione del paese, e porge stanza e dimora a molti e differenti vegetabili trovandovisi allora varie stazioni siccome dicesi nella scienza, ossia luoghi diversi acconci a produrre svariata vegetazione. Or siffatti luoghi presso Napoli sono principalmente; il mare — le spiagge — le acque dolci — gli orti che si dicono volgarmente paludi, posti tra il Vesuvio e Capodichino — le praterie, come che poche e molto ristrette — le macerie— i luoghi colti — i luoghi sabbiosi, e quegli sterili a pie del Vesuvio — i boschi e le selve cedue — le colline, a principiare da Capodichino ai Camaldoli — le montagne — quella di Somma che si eleva sul mare circa 2600 piedi.
       In tanti e siffatti luoghi del distretto di Napoli nascono spontaneamente poco più che novecento piante fanerogame, numero invero assai grande, quando si considera la poca estensione della contrada, l’essere in gran parie coltivata o impedita da selve cedue, e l’avere il Vesuvio incapace di qualunque vegetazione intorno al cono, e sterile per gran tratto delle sue falde.
       I paesi vicini hanno molte spezie di piante comuni, e quelle che sono differenti, spesso convengono nel portamento (habitus) ed in una tal quale ciera di famiglie. E simigliantemenie avviene tra paesi alquanto lontani, posto che il clima sia lo stesso o poco differente, e le vie aperte alla migrazione de’ vegetabili. Perciò la flora de’contorni di Napoli, comechè scarsa per le ragioni testè mentovate, ha moltissima attenenza sia nella spezie, sia nella somiglianza delle forme delle differenti spezie, con le flore de’ paesi posti intorno al mediterraneo e delle isole che si trovano in cotesto mare. Niuna spezie ci ha che non si trovasse altrove; ma alcune spezie, che in altri paesi hanno certa e più littìitata dimora, presso Napoli per contrario si distendono salendo per colli e talvolta infino alla maggiore altezza de’ monti. Di che per mettere un esempio, diremo trovarsi la medicago marina presso alla base del cono del Vesuvio ne’ contorni dell’Eremo; nè possiamo passarci di notare che l’alno a foglie cordate: il tiglio europeo: il carpino nero: l’artemisia volgare e variabile: la saponaria officinale: l’acetosella moltifida: il rovo comune: ed il rovo acherontino; e l’acero napolitano, ed altre dalla base del monte Somma salgono in fino alla sommità; ove loro non nuoce nè il freddo, nè il seccore ed il caldo di state, e manco la foga de’ venti che sfrenatamente vi soffiano. Dopo il monte di Somma il luogo più alto è la collina de’ Camaldoli, dove la vegetazione in generale è più copiosa e svariata, avendoci maggior numero di piante erbali che in quella. Ma un fatto degno d’esser notato si è che sulla più alta vetta del Somma nell’arena arsiccia cresce in uno colle piante sopra mentovate la betulla (betulla alba). Questo albero assai comune nella Lapponia, ed in genere nelle parti fredde dell’Europa, si trova su i più elevati gioghi degli Appennini di Abruzzo, dì Basilicata, e di Calabria; viene pure sull’Etna; se ne vede alcuno sulla montagna di Castellammare, e per ultima sua stanza sul monte Somma. Cosicchè per esso la vegetazione delle circostanze della metropoli è come toccasse in un sol punto quella delle Alpi, e de’ più alti gioghi degli Appennini, quando nel rimanente è molto somigliante a quella de’ luoghi più caldi e bassi dell’Europa posti sul mare.
        In quanto agli animali diremo, che attiva e feconda essendo questa terra ridente, per lo simultaneo concorso di propizî elementi alla vita, svariata ne rende la produzione de’ viventi. Se non che l’industre mano dell’uomo, mettendo a piena coltura i campi, gravissimo ostacolo oppone al moltiplicarsi spontaneo di non poca parte nociva di essi. Laonde qua e colà il suolo verdeggia e si copre di fiori, e veggonsi alberi vivacissimi e fruttiferi.
        All’infuori di quegli animali che trasse l’uomo compagni al suo vivere, per custodia e difesa, o per aiutarsene nel lavoro, niun altro ne alberga di quanti minacciar gli possono la vita, o menomargli il ricolto. Le sole minute razze di carnaci, e di rosicchianti vi trovano asilo; sicchè i pipistrelli, la talpa, i topi, gli arvicoli, i miossi e qualche raro topo-talpino sono gli abitatori delle nostre terre.
       Dugento e più specie d’uccelli venendo dall’Asia e dall’Africa, o scendendo da’ monti del settentrione, salutano due volte l’anno le nostre regioni. Non vi si arrestano che le razze sole frugivore. L’avoltoio non vi tiene albergo; lo sparviere si tien lontano; raro è il gufo notturno. I rampicanti abbelliscono soltanto le sale de’ ricchi; i trampolini e palmipedi, i quali dimorano ne’ remoti luoghi palustri e ne’ laghi, impinguano i mercati; i ruzzolanti popolano le case della minuta gente e del contadino; e di ogni altro che per bellezza di piume fa vagheggiarsi, si veggono adorne nobili uccelliere.
       Qui non isiriscia alcun velenoso serpente; rara è pure l’innocente natrice, che i più confondono con la vipera vera; vedesi frequente la lucertola delle muraglie; ma il volgo teme un altro piccolo rettile fra le domestiche mura, che certo non è velenoso benchè assai lucido, e di cui ha due generi, hemidactyhlus e ascalabotes, che van pure col nome di lucertole, cui quello aggiunge l’epiteto di vermenare o fracetane. La rana mangereccia vive ne’ prossimi stagni e nel Sebeto; tenendosi fuori della città il rospo o botta volgare, il verde ed il temporario. La greca tartaruga si trova quì condotta da’ luoghi fiuittimi; la lutaria non si ha che al lago di Patria, e la marina caretta non si accosta che di rado alla riva.
       Ci ha trecento e più specie di pesci che fanno ricco prodotto, non essendo quasi che alcuno che non sia buono a mangiare, o accomodato ad uso delle arti. Se per altro quì manca il pregiato storione, che picciolo e ben raro si vede, squisita trovasi la ricciola, la bocca d’oro e non meno buona la cernia, pingue la lunga ’famiglia degli spari, dilicata la triglia barbata volgarmente di morso, il molle merluzzo, le ben sapide e tenere sogliole volgarmente quì delle palaie: e ne’ periodi equinoziali copiosi gli scomberoidei generalmente graditi, i quali più sodisfano al nutrimento del popolo, siccome lo spadone (pesce spada), il tonno, lo sgombero, l’alalonga ed altri. La stessa lunga famiglia di agresti selacini in gran parte di pasto all’indigente, non lascia di offrire alcune specie rare, che godono l’onore di essere imbandite nella mensa dell’opulento. Tale è l’angiò, sotto il cui nome ben due altre speciosi comprendono svestite già de’ naturali caratteri; e molti altri si pescano che sveglian solo l’attenzione dell’ittiologo. Da ultimo non lascia il nostro mare di offrire a quando a quando qualche sua nuova dovizia.
       E qui trovandosi il natural confine delle specie più alte, succedono le altre più basse, che dal granchio alle monade compongono il resto della lunghissima scala. E di questi sì che la terra nostra ed il mare si trovano sovrabbondantemente gremiti.
       Il fondo del mare, le scogliere, le arenose spiagge son ricche di granchi, de’quali per altro pochi vanno sui desco, la più parte restando ignota e negletta; e ci ha di quelli di che fa tesoro soltanto lo zoologo.
       Ci è forza preterire quanto dir si potrebbe degli Aracnidi, Miriapodi, Molluschi, Anellidi, Echinodermi, Vermi, Medusari , Polipi ed Infusori, perchè il noverarli sarebbe lungo e noioso; ma ognun che ne sia vago potrà vederli, e nelle opere di penna napolitana e nelle acque che bagnano questa regione.
       Delle acque dolci o potabili della Città parleremo a suo luogo, seguendo il testo.
       Molte sono le acque minerali che sgorgano in quella parte della provincia di Napoli che è presso al mare, ma sopratutto del distretto di Pozzuoli; e numerosissime son quelle, ond’è ricca l’isola d’Ischia, tanto che basta scavare alcun po’ addentro il terreno per vederne sorger dappertutto. Ma noi quì mentoveremo soltanto quelle che sorgono in Napoli, essendochè questa città è il principal nostro obbietto, e sarebbe un non finirla mai più, se volessimo ad una ad una noverar le infinite acque minerali delle circostanze di essa, ed indicarne le proprietà fisiche e mediche, e le analisi fattene da chimici.
       La acque minerali di Napoli docciano a piè del promontorio di Pizzofalcone, e presso al lido del mare, dov’è la strada di S. Lucia e la Real Villa del Chiatamone. Son quattro le diverse vene, e poco son distanti fra loro. Due son da lungo tempo conosciute co’ nomi di acqua solfurea e di acqua ferrata; le altre furon vedute nel mese di giugno del 1834, e da’ chimici che le studiarono furon chiamate l’una, nuova acqua solfurea, e l’altra acqua acidula dì S. Lucia.
       Le proprietà fisiche dell’acqua solfurea antica sono: d’esser limpida, schiumosa, di forte odore come di uova guaste, ed è alquanto più leggera dell’acqua distillata. La sua temperatura è di 14° 4. Quanto alle sue proprietà mediche, essa è stomachica, catartrica, diuretica, diaforetica; e s’applica anche esternamente sulle vecchie piaghe.
       L’acqua ferrata è limpida, di odore frizzante, e di sapore acido astringente: segna 16° sul termometro di Reaumur, e pesa poco più dell’acqua comune. E per le sue medicinali virtù si usa come tonica nell’ipostenia del sistema digerente, nella clorosi, nella cachessia, e nelle ostruzioni internamente. Anche nella rachitide riesce utile per bagno.
       L’acqua solfurea nuova è limpida, di odor forte, e sente come di uova putrefatte. Segna 14°, e pesa 1,0025.
       L’acqua acidula di S. Lucia non ha colore, dà un odore come di uova putrefatte ed ha il sapore piuttosto pizzicante, la temperatura di 14°, e il suo peso specifico di 1,0102.
       Oltre alle dette acque ce ne ha un’altra, che spiccia presso l’imboccatura della Darsena, dov’ è lo scalo delle navi da guerra, la quale è siffattamente saturata di zolfo, che se ne veggono in copia i depositi.
       Tocchiamo per poco la Salute pubblica. Le vicende dell’atmosfera, la natura del suolo, la qualità e la distribuzione delle acque sono le precipue e più larghe cagioni della sanità e de’morbi. E Napoli, per ciò che spetta alle migliori condizioni di questi elementi, ha antico vanto in Europa, perocchè la sua postura declive e in faccia a mezzodì, la dolcezza del clima, e la clemenza dell’aere la francano d’ogni cagion locale d’insalubrità; nè alcuna malattia conta che si possa tenere per endemica. Sonovi rarissime le periodiche così perniciose e originali al cader della state e al principiar dell’autunno; nè si osservan molto frequentemente nel verno le gravi infiammazioni, e manco di tutte quelle che prendono i parenchimi degli organi; ma soltanto si mostrano nel lungo dominar de’ venti aquilonari, i quali dopo il volgere di anni rendon talora rigida la stagion brumale.
       Però i morbi non vengon quì prodotti che da cagioni comuni, ed assumono la forma sporadica. Che se vuolsi scrupolosamente andare indagando le cagioni speciali e proprie del nostro clima, o della costruzione della nostra città, non se ne troveranno che due sole: 1° la variabilità della temperatura, ed il rapido alternarsi di alcune meteore, le quali non rendono stabile il clima; 2° la costruzione della parte antica della città, la quale, avendo anguste le strade e le case alte, non consente che l’aria agevolmente vi circoli; onde umida e grave è l’atmosfera, sopratutto nelle abitazioni del basso popolo, poste a pian terreno e sul nudo suolo. Ma la prima cagione, tutta della natura non è poi sì grave da spingere a tale estremo la variabilità del clima, che non se ne possano evitare gli effetti con le cautele di una consigliata igiene. E di vero la osservazione dimostra che ne’ tempi più rotti, soltanto le persone mal preservantisi ne risentono la maligna, virtù, la quale non sempre si manifesta con gravi malattie, assai spesso ingenerando semplici affezioni catarrali, o infiammazioni erisipelatose della mucosa bronchiale e della gastro-enterica. L’altra cagione va per le cure del Comune successivamente scemando, ed è eziandio svigorita dalla dolcezza del clima e dalle abitudini del popolo, che se ne può star lungamente all’aria libera, in tutto il corso del giorno, prescegliendo le piazze e i luoghi meglio esposti, sia per vendere commestibili a minuto, sia per lavori di arti.
       Per la qual cosa le malattie più comuni soglion essere ne’ bambini la difficile dentizione e le convulsioni; ne’ giovanetti la scrofola; negli adulti le diverse flemmasie accompagnate da febbri, le congestioni cerebrali e le suppurazioni pulmonari.
       Quanto a’contorni, la regione orientale, che alle falde del Vesuvio e del Somma è salubre e deliziosa, ma anch’essa mal acconcia per le lente infiammazioni e suppurazioni pulmonari e per le organiche malattie del cuore e de’ grossi vasi. Tutti conoscono l’utilità che si ritrae dall’aria di Torre del Greco nelle idropisie non congiunte a infiammazione, e gran numero d’infermi d’ogni natura ha sperimentato l’efficacia del clima di S. Giorgio a Cremano, Portici e Resina fino a Torre Annunziata da una parte, e dall’altra di Pollena, Trocchia, S. Sebastiano e S. Anastasia e delle altre circostanti terre. La Barra, posta in luogo più basso fra primi ed i secondi paesi, giova nelle croniche affezioni toraciche. Più lontano verso scirocco trovasi Castellammare bellissimo soggiorno di state, ricca di acque minerali, e da ultimo Sorrento, che ad un’amenissima dimora del luogo riunisce un’aria dolce e sana, profumata da boschetti di aranci e da verzieri di frutta e di fiori. La parte opposta del golfo rivolta ad occidente, è occupata prima dalla collina di Posilipo, indi dalla regione di Pozzuoli; quella provveduta di aria efficacissima, agitata da venti, ed esposta alia brezza del mare; questa di aria calda, grave e malsana nella state, ma tiepida e dolce si fattamente nel verno, che non saprebbero scegliere miglior dimora in quella stagione le persone, gracili, irritabili, nervose, e quelle che son tormentate dall’artritide e da gotta. Le irritazioni croniche de’ bronchi, l’asma umorale, il catarro senile, e la stessa tisichezza pulmonare, risentono nel verno la benefica virtù d’un aria mite, purificata da vapori solforosi dei prossimi antichi vulcani.