Monumenti storici ed artistici degli Abruzzi/Capitolo I
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CAPITOLO I.
Teramo e la sua Cattedrale.
Interamnia, così detta perchè situata tra i due fiumi, Batino ed Albulata, fu città famosa nell’antichità, e più volte viene con onore ricordata da Tito Livio1, Silio Italico2, Tolomeo3, Plinio4, Polibio, Frontino5 e dalla Tavola Peutingeriana. Fu capitale de’ Pretuziani, Interamnia Praetutianorum, come ne rendono testimonianza un testo di Frontino, ed una iscrizione trovata a Giulianova, dottamente illustrata da B. Borghese e dallo storico aprutino Nicola Palma6. Nell’anno di R. 485 o 486, Interamnia, da metropoli della regione Pretuziana7, divenne Municipio Romano, e fu quando il Console Sempronio Sofo conquistò il Piceno, alla sorte del quale il Pretuzio venne avvinto: tre anni dopo, 489, anche Fermo e Castronuovo vennero contemporaneamente occupati da coloni romani. Roma usò della vittoria con saggia politica; e volle stabilire, almeno nella forma, una specie di confederazione con le due vinte e famose regioni, le quali, come riferiscono gli Storici dell’antichità « fìdem Populi Romani venere ». Ma Interamnia, divenuta Municipio, non cessò dal governarsi con leggi proprie, solo obbligata a fornire di uomini e di sussidi i vincitori nelle lunghe ed ostinate guerre contro i popoli italici. Però in breve dovè soggiacere alla sorte comune, e venne occupata da colonie; e coloni e miinicipi pare che abitassero insieme, ignorandosi in qual modo avessero diviso il territorio. Quando Augusto restrinse il numero soverchio delle regioni italiane, i Vestini sub-Appennini, gli Atriani, i Pretuziani ed i Piceni furon compresi nella quinta, che, dalla più vasta, fu chiamata Regione Picena; ed è per questo che gli scrittori, ad Augusto posteriori, non dubitarono di ricordare la nostra Interamnia con l’appellativo di Picena, alla quale Giovan Berardino Delfico, seguendo le induzioni del Mazzocchi, del Bochard e degli altri orientalisti, assegnò, e non so con quanto solido fondamento, un’origine fenicia 8.
Gl’Interamniti ottennero, dopo la guerra italica, la romana cittadinanza, e furono aggregati alla tribù Velina: ne fanno fede alcune epigrafi illustrate da’ patrii scrittori, e pubblicate di recente, con migliore lezione, da Teodoro Mommsen 9. Valenti nelle armi, essi presero parte a tutti gli avvenimenti più importanti ed a tutte le guerre che Roma ebbe a sostenere per consolidare la propria potenza: li troviamo infatti nella seconda guerra punica, e poscia nella italica o sociale, quando, duce il marso Pompedio Silone, i popoli italici sostennero con le armi il loro diritto, e lo affermarono contro la prepotenza di Roma.
Ma il diritto della romana cittadinanza, acquistato a prezzo di tanti sacrifizii, non impedì ad Augusto di assegnare i campi d’Interamnia, come di molte altre città, a’ suoi veterani: e cosi divenimmo, insieme a Truento, Castro e Beregra, Colonia militare, come lasciò scritto Frontino 10. Per quanto tempo i nostri antenati sopportassero l’indegno giogo, non si sa; ma è certo che la città venne riparata in appresso: nella linea longitudinale tra Interamnia ed Aesculum, l'Helvimitn tornò a dividere le due regioni.
Le divinità, che ottennero culto speciale da’Pretuziani, furono: Silvano, Giunone, Vesta, Feronia, alla quale le Matrone eressero un tempio, Marte pacifero, e principalmente Bacco, dediti com’erano alla coltura delle viti ed a produrre ottimi vini:
Tum qua vitiferos domitat praetutia pubes
laeta laboris agros.... 11 |
come ne fanno ampia fede, non solo le iscrizioni raccolte dal Muzii, da Delfico e da altri, illustrate da Giovan Berardino nel suo dotto libro « Interamnia Praetutia » ma altresì le non poche sculture a basso ed alto rilievo, su marmo, pietra e bronzo, rappresentanti grappoli, pampini ed alcune graziose figurine nude di bellissima fattura. Nel 1811 si scopersero alcuni avanzi di are appartenenti alla Pudicizia ed a Venere, collocate, cosa invero singolare, a breve distanza!
Anche nelle arti, e principalmente nella scultura e nel fondere metalli, i Pretuziani si mostrarono valentissimi: torsi di statue, alti e bassi rilievi, bellissimi genietti nudi; alcuni leoni, de’ quali tre grandissimi, di pietra indigena; idoli ed altri bronzi; non poche monete; ben congegnati pavimenti in musaico; squisite olle cinerarie, lucerne ed altri oggetti di creta provano che i nostri furono eccellenti artisti ed egregi anche nella figulina.
Nel 1804, presso la Chiesa di S. Caterina, vennero scoperte fornaci da cuocer creta e vetri, e ruderi immensi, colonne, capitelli, alcuni fregi di architrave con metope esprimente arnesi di guerra e fatti militari. Ma l’eccellenza dell’industria, dell’arte e dell’architettura presso i nostri antichi ci vien provata dalla istituzione del Collegio de Centonarii e de’ Lanari, e dagli avanzi dell’Anfiteatro Teramnense, fra i più celebrati d’Italia, per grandiosità e bellezza, e per la severa eleganza delle linee 12.
Tre vie attraversavano il Pretuzio; la Consolare Salaria, sul litorale; la Metella, lungo i confini tra i Piceni-Ascolani ed i Truentini; e la Raussa, or sulla destra ed or sulla sinistra del Vernano, tra Pretuziani, Festini Pinnensi ed Atriani. Ma nessuna di queste grandi vie toccava direttamente Interamnia: oggidì si vedono tracce di una via che congiungeva Teramo con la Salaria, passando per Castrum Novum, e con la Raussa.
In tre ordini erano distinti i cittadini Interamniti: i Decemviri, corrispondenti a’ Senatori; i Cavalieri, de’quali i primi sei chiamavansi Seviri, e la plebe. Tra le magistrature ne ebbero forse una speciale, quella de’ Quinquemviri.
Quando l’antico e glorioso impero Romano andò in rovina ed i barbari occuparono le nostre terre, il Praetutium subì la sorte delle altre Provincie d’Italia: i Goti, che prima lo tennero, non rimasero a lungo fra noi, e nessuna traccia lasciarono del loro soggiorno. Al sopravvenire però dei Longobardi, noi mutammo ordinamenti e signoria. Divisa l’Italia in trentasei ducati, l’Abruzzo venne compreso in quello di Spoleto, che abbracciava, de’ paesi a noi limitrofi, il territorio Atriano, Pinnense, Valvense, Amiternino, Forconense e Marsicano, come ce lo provano i moltissimi documenti pubblicati dal Gattola, ed un passo di Anastasio Bibliotecario nella vita di Papa Zaccaria 13. La nostra regione, oltre ai Re, riconosciuti come capi supremi di tutto lo Stato, fu sottoposta a due altri Signori territoriali: il Duca di Spoleto ed il Conte Aprutino. Di quest’ultimo ci fornisce non dubbia testimonianza una lettera, documento preziosissimo per la storia nostra, di S. Gregorio Magno a Passivo vescovo di Fermo, nella quale vien ricordato Anio Comes Castri Apriitiensis tra il 601 e il 602.
Teramo fu la Sede del Contado, e non del Gastaldato, come pretesero Camillo Pellegrino e Pietro Giannone, giacché il Gastaldatus Teramnensis fu quello di Terni, pur esso compreso nel Ducato di Spoleto, come dottamente notarono il P. Laurei ed Angelo della Noce nelle loro annotazioni alla Cronaca Cassinese 14. Il Comes Aprutii aveva sotto di sè parecchi uffiziali minori, gastaldi, sia per l'amministrazione del loro patrimonio e delle loro ville, sia per l’assistenza di placiti, per la leva de’soldati e per la decisione delle liti. E queste magistrature durarono, con lievi variazioni, ne’ secoli seguenti, come da una una notizia dell’anno 986 conservataci dalla Cronaca Casauriense: a’ Gastaldi Carlo Magno aggiunse de’ giudici minori, che si sceglievano ex melioribus civibus. I conti, quantunque di nome soggetti a’Duchi di Spoleto, come questi all'Imperatore o Re, furono di fatto gli assoluti Signori delle città e delle terre loro assegnate, godendo di un’autorità e di un potere quasi senza limiti.
Ai barbari ed alla corruzione da’ medesimi, in qualche modo, apportata alla latina favella, si deve forse l’alterazione della parola Praetutium in Aprntium, nome che vien dato alla nostra regione verso la fine del secolo VI e ne’ principi! del VII secolo; quantunque, in qualche documento apparisca ancora il nome d’Interamnia a distinguere Teramo. E da osservarsi però che nè i Vescovi Aprutini, nè i Conti usarono mai il distintivo d’Interamniti, ma di Aprutiensi, ad indicare probabilmente tutto il territorio soggetto alla loro dominazione.
Dal Cartolario della Chiesa Aprutina, ossia dal registro dei giudicati, delle donazioni e di qualunque altro contratto riguardante il Vescovado, che comincia dall’886; come pure dalle Cronache di Farla, di Casauria, di S. Giovanni in Venere, di Carpinete, e da altri documenti pubblicati dall’Ughelli, dal Gattola, da Leone Ostiense e dal Muratori 15, si hanno poche, ma preziosissime notizie, riguardanti l’Aprutium e la sua Capitale Interamnes, Interamne, Teramne, come vien chiamata: in esso si rinvengono pure i nomi dei Conti, di alcuni Vescovi, successori di Opportuno, i beni ed i feudi posseduti dalla Chiesa di Santa Maria, quae sita est in territorio Apruliense, in loco uhi Interamnes vocatur. Nel Luglio del 1057 la stessa Città di Teramo ebbe l’onore di ospitare il Sommo Pontefice Vittore II, che tenne un solenne placito presso il Castello de Vitice, determinando i confini della Diocesi Ascolana e dell’Aprutina, e concedendo a questa molti privilegi, che vennero confermati ed ampliati con altra bolla di Anastasio IV — quinto Kal. Decembris, Indic. II, Inc. Dom, anno MCLIII, Pontificatus Domini Anastasii Papae IV anno primo.
Tra il 1077 ed il 1078 Ugone di Malmozzetto, inviato da Roberto Guiscardo, s’impadronì di Teramo; e cosi sotto la nuova conquista Normanna la nostra Regione fu compresa nel Ducato di Puglia. Ma questi Normanni, che prima invasero il nostro territorio, non lo tennero che per 22 anni; giacché, come ce lo mostrano alcuni documenti, e soprattutto una memoria del 1101, che è una donazione all’Episcopio di S. Maria di Teramo, fu riacquistato per l’Imperatore di Germania da Guarnieri, che governava in quel tempo il Dueato di Spoleto e la Marca di Fermo e di Ancona. Attone, dello stipite longobardo, divenne di bel nuovo Signore della Contea Aprutina, posseduta da’ suoi antenati, e tenne solenne placito nel 1108. Durante il governo di Attone e de’ suoi successori, Errico e Matteo, fu Vescovo di Teramo S. Berardo de’ Conti di Palearea (Pagliara); a lui successe il gran Guido II. Teramo cambiò in questi anni tre volte di signoria; ossia nel 1129, tornando alla soggezione de’ Normanni; nel 1137, quando il rivale di Re Ruggieri, Lotario, ne invase i possessi continentali; e nel 1144 tornando di nuovo, e stabilmente, sotto il dominio di Ruggieri, già potentissimo e glorioso Rex Siciliae, Apuliae et Calabriae, adijutor Christianorum et dypeus, Rogerii magni Comitis haeres et filius. La dinastia degli antichi Conti venne spogliata di ogni autorità; ed il primo Conte di stirpe Normanna, che la storia ci ricorda, fu Roberto, gran Giustiziere di Abruzzo, con residenza a Teramo, il quale tenne solenne placito nel 1148, come lo prova un prezioso documento pubblicato dal Gattola.
La nostra Regione fu il teatro di un avvenimento importantissimo durante il Regno di Re Ruggieri: voglio parlare della distruzione di Teramo. Discorde è il parere de’ nostri scrittori intorno a tale avvenimento. Il Muzii crede che questa Città, assediata da Roberto di Bassavilla Conte di Loretello, dopo lunga ed accanita resistenza, fu presa, saccheggiata e data alle fiamme. Lo storico teramano soggiunge che Guido, allora Vescovo Aprutino, si mosse addi 7 Maggio, ossia 37 giorni dopo il fatto, da S. Flaviano, ove erasi ricoverato, per recarsi a Palermo, ed ottenere da Re Ruggieri il permesso di riedificare la Città: ma arrivato colà trovò morto il Re, e coronato il figliuolo di lui Guglielmo, dal quale ebbe in dono Teramo, col peso dell'adoa da pagarsi al regio fisco. Muzii è stato seguito dal Colletti, dal Riccanali, dal Giordani, dall’Ughelli e da altri non pochi. Ma questa narrazione non c del tutto esatta. Se il Re Ruggieri mori nel 26 Febbrajo 1154 — obiit Rex Rogerius mense Februarii MCLIV 16, come lasciò scritto nella sua Cronaca l’anonimo Cassinese, è chiaro che la distruzione di Teramo non dovette aver luogo nel 1149, perchè diversamente il Vescovo Guido avrebbe impiegati cinque buoni anni nel suo viaggio da San Flaviano a Palermo.
Il Delfico fa autori di questa distruzione i Greci, fondando il suo giudizio sull'autorità di Giovanni Cimiamo; ma questa opinione non è accettata dal Palma, il quale sostiene, coll’autorità di altri scrittori, Teramo essere stata distrutta nel 1156 regnando Guglielmo I. Ma anche il Palma, diligente ed accurato scrittore, è caduto in errore quanto all'anno, che non fu il 1156, ma il 1155. Infatti, in questo anno 1155, molti principi e baroni del Regno si ribellarono conti o Guglielmo I, incitati da papa Adriano IV, il quale, secondo Romualdo Salernitano e Guglielmo di Tiro, fu il principale promotore di quella ribellione. Presero essi apertamente le armi guidati da Roberto di Bassavilla, Conte di Loretello, come riferisce Muratori; imperocché il Conte, che era cugino germano del Re, caduto in disgrazia di lui per opera di Majone, aveva giurato di vendicarsi. Siccome la Città di Teramo, governata dal Conte Aprutino, si conservava fedele al legittimo Monarca, venne da Roberto devastata e distrutta. Nell'anno appresso, 1156, il Conte di Loretello avea abbandonato l’Abruzzo, e quindi la Città di Brindisi, occupata da’Greci, per l’appressarsi di Re Guglielmo, ritirandosi a Benevento.
La ribellione dunque di Roberto e la distruzione di Teramo avvenne, per le ricordate ragioni, nel 1-155: e cosi possiam renderci conto di tutte le concessioni che Guglielmo fece in appresso a Guido, a favore di una Città, che a lui crasi serbata fedele. L’opinione poi di quegl’istorici, i quali pretendono che Teramo fosse stata distrutta nel 15 febbrajo II52 dalle armi di Re Corrado IV, non merita confutazione, imperocché si sa che Corrado mori, «mentre si preparava a venire in Italia per prendere la corona imperiale» 17. Quello che non va messo in dubbio é la visita del gran Vescovo Guido alla Corte di Sicilia, e la concessione che ebbe da Re Guglielmo di potere riedificare Teramo, desolai am a Roberto Comite Loretelli, come si trovava notato in un antico cartolario della Chiesa di Santa Maria a Mare, Città che poi ottenne in feudo, come affermano Muzii. Delfico, N. Palma 18 e Giov. Antonio Campano, il quale scriveva al Cardinale di Pavia: me non praesulem modo civitatis, sed et principem vocant. Idque vetustissimis temporibus inveniunt servatum, quod vastatam bastile incendio urbem, ac funditus deletam, Antistes refecerit, quae res majorum decretis est confirmata et celebrata monumentis 19. Ed il Vescovo Guido, inaugurando la rinnovellata Città, rimise in vigore un’antica prerogativa de’ Vescovi Aprutini. Consisteva questa nel privilegio di potere i Vescovi celebrare il pontificale, portando ad armacollo una spada, e tenendo, a fianco dell’altare, insieme alle mitre ed al pastorale, elmi, lance, azze, spade, privilegio durato fino al XVIII secolo, ossia a’ tempi di Monsignor Pirelli. Il novello prelato celebrava sempre armato la sua prima messa pontificale con pompa solenne, e nella Cattedrale di Teramo vedesi tuttodì un quadro dipinto ad olio del Majeschi, il quale ci conserva plasticamente la memoria di quest’uso, rappresentando un pontificale celebrato da S. Berardo. Si sa che nel 1180 Attone, che da Arciprete di S. Flaviano era stato innalzato al Vescovado Aprutino, benignissimus pater, vìrtiituni omnium dilectione repletus, et divinis clementissime armis indutus, prese parte alla cerimonia solenne, quando il corpo di S. Berardo venne trasferito nella nuova Chiesa; ed il Piccolomini, nel Concilio di Trento, celebrò la messa armato, come riferisce l’Ughelli, more suorum praedecessorum, non sine admiratione patrum. La leggenda fa risalire questa costumanza fino al tempo della Crociata bandita da Urbano II, alla quale prese parte Ugone Vescovo di Teramo, che comandava un drappello di Cavalieri; egli celebrò la messa, indossando il piviale sull'armatura ed ottenendo poi da Pasquale II il privilegio di potere esercitare le sacre funzioni armato.
Molte franchigie vennero concesse alla restaurata Città ed ai suoi abitatori da’ Re di Napoli ad intercessione de’ Vescovi, divenuti Signori utilitarii di Teramo, Dionisio, Attone I, Sasso, Attone II, e Silvestro, i quali ultimi ottennero non poche immunità dall'imperatore Federico II, quando il regno, per il matrimonio di Costanza con Arrigo VI, passò dalla Casa Normanna nella Sveva.
Ma i mali e le devastazioni rincominciarono con la morte di Federico; giacché, essendo Pontefice Innocenzo IV, col pretesto essere il Regno feudo della Santa Sede, gli Ascolani,incitati dal legato Pontificio, il Cardinale Capoccio o Capozio, assalirono Teramo, smantellandone le mura, portando via le porte e gli ostaggi, e commettendo molte altre barbarie e ruberie, come lasciò scritto lo storico Ascolano Marcucci. Il Vescovo Matteo de Balato se ne dolse col Pontefice; ma inultimente! Le memorie del XIII secolo provano le premure de’ Vescovi e de’ Cittadini nel porre in opera ogni mezzo per ridurre Teramo allo stato ed alla floridezza di prima; poco fortunati tentativi, sia per le continue guerre e per l’assedio sostenuto dalla Città contro Gualtieri Signore di Bellante, acerrimo partigiano di Pietro d’Aragona; (1286) sia perchè Carlo II di Angiò, vedendo Teramo abbastanza ristorata e ripopolata, la sottopose a regolar tributo (da cui prima era esente) come tutte le altre Città del Regno. Per la decisione degli affari criminali, mandò il Re un Capitano di Giustizia, mentre per lo innanzi i cittadini medesimi sceglievano il proprio giudice, chiamato potestà o rettore, tanto per le cause civili, che per le penali.
Rainaldo di Acquaviva fu l’ultimo vescovo nominato dal Capitolo Aprutino ed anche l’ultimo a godere della perfetta Signoria della Città. Nicolò degli Arcioni, che gli successe, venne eletto nel 1317 da Giovanni XXII: a Nicolò tennero dietro Stefano de Teramo nel 1355, ed a costui Pietro de Valle nel 1366: è questo il periodo più splendido della storia Teramana, giacché si fecero molti acquisti; il territorio fu ampliato, molti privilegi ottenuti da’ Sovrani, e principalmente da Giovanna I; molti conventi e molte chiese edificati, molti superbi e belli palagi innalzati.
Fra tanti beni non mancarono guai, come la ribellione di Berardo da Teramo a capo di 150 banditi; la famosa peste del 1348; le scorrerie di Fra Moniale di Provenza, del Conte Lando e di Annichino di Mongardo; le ostilità con i Camplesi nel 1369, e finalmente il terremoto del 1384!..
Ma da quest’epoca incominciarono per la Città calamità anche più terribili — la scissura de’ cittadini in due rabbiosi partiti. che trassero origine dalle inimicizie delle due più potenti famiglie Teramane, de’ Melatini e di Valle, durando la minorità di Ladislao, mentre la città ed i baroni ardevano in continue guerre, parteggiando alcuni per i Durazzo, ed altri per Luigi II d’Angiò 20 — e le pretese che accampò sul dominio di Teramo la potentissima Casa degli Acquaviva. Questi partiti si disputarono l’impero della Città, cui allagarono di sangue, e si oppressero vicendevolmente, per 96 anni. Ma tali tristissimi e luttuosi avvenimenti, che sono tanta parte della storia nostra, furono da noi diffusamente narrati nel 2° e 3° Volume de’ nostri studi su Castel S. Flaviano, a’ quali rimandiamo il cortese lettore.
La Città di Teramo dal 1530 al 1684, e da quest’epoca fino a’ giorni nostri subi la sorte comune a quella di tutte le altre Città del Regno delle Due Sicilie, ridotto, da stato autonomo e splendido, alla miserabile condizione di provincia Spagnuola; mala signoria che rese ognora più gravi le già tristissime condizioni de’ popoli, e potentemente contribui alla corruzione de’ costumi, delle lettere e delle arti. Teramo, situata sui confini delle Stato, andò soggetta a due mali gravissimi: a fornire di alloggi militari l’esercito nelle incessanti guerre che la Spagna ebbe a sostenere ne’ Paesi Bassi e nella Lombardia; ed a’ banditi, i quali, rinchiusisi ed afforzatisi nelle montagne di Civitella e di Ascoli, recavano gravi e continue molestie alle due provincie limitrofe, con non piccolo detrimento dell’agricoltura, del commercio, dell’industria e delle finanze della città, già esausta, perchè obbligata a stare continuamente sulla difesa. E come se tutto questo ben di Dio non fosse stato sufficiente, una carestia afflisse nel 1621 i miseri cittadini. Ecco in che si compendia la storia nostra durante lo infelicissimo sgoverno spagnuolo! Nè effetto alcuno sorti la gloriosa rivoluzione del 1647, alla quale Teramo e gli Abruzzi presero parte: oppressi dalla tirannia, i popoli eran divenuti impotenti a migliorar la loro politica condizione: servivano e tacevano!
Mentre era Viceré di Napoli il Marchese del Carpio, con ordinanza del 27 Novembre 1684, venne distaccata dalla giurisdizione dell'udienza di Chieti quel tratto di paese, che trovasi fra il corso del fiume Pescara e le frontiere dello Stato Pontificio, e se ne formò una nuova Provincia, con capo-ruota, uditori, fiscale, ed avvocato dei poveri. E cosi Teramo divenne capo di questa nuova Provincia, quantunque avesse comune con Chieti il Preside, il quale teneva però residenza ora nell'uno, ora nell'altro de’ capiluoghi, secondo il bisogno, rimanendo il tribunale per 60 anni ad essere collegiato: venne abbreviato in appresso durante il Regno di Carlo III di Borbone. Ma alla imperfetta amministrazione della giustizia fu dato riparo nel 1778 per opera ed incitamento dell’illustre Melchiorre Delfico; e Teramo non solo ricuperò la regia udienza nella sua pienezza, ma in luogo di avere il Preside comune con Chieti, ne ottenne uno stabile e proprio.
Negli anni che seguirono, la città progredì sempre più: la Cattedrale fu restaurata, (21 Maggio 1776) e compiuto il bel Cappellone, ove, nel detto anno, furono portate processionalmente le ossa di S. Berardo dal Vescovo Sambiase; nel 1788 s’istituì una Società letteraria, alla quale presero parte gl’ingegni più eletti della provincia: nel 1791 la Città eresse un pubblico Teatro, il quale doveva essere in appresso superato, per decoro e splendidezza, da un altro sorto nel largo di porta S. Giorgio. Momentanee perturbazioni arrecarono i gravi avvenimenti degli anni che seguirono, durante il tempo della invasione dei francesi, e del loro dominio nelle nostre provincie: ma giunse anche per noi il giorno tanto aspettato del politico risorgimento, quando, proclamata l’Unità d’Italia con Casa di Savoia, ci fu dato congiungere le nostre sorti a quelle delle altre città sorelle. Oggi Teramo, capoluogo della Provincia di Abruzzo Ultra I, è bella, colta, ricca, allegra, elegante e popolata città!
Uomini illustri nelle scienze, nelle lettere, nelle arti, nelle armi, ne’ commerci, nelle industrie, nella vita santa ed esemplare onorarono in ogni tempo Teramo e la regione che ab antiquo le appartenne: Bruno Bruni di Colonnella, insignis doctrina, et regulari observantia celeberrimus, fondatore di molti Cenobii, come lasciò scritto Brunetti; il B. Cherubino da Civitella, vir doctissimus, secondo il martirologio Francescano; Monello Salamitto, celebre viaggiatore ed apostolo della fede nelle Indie; Giacomo de Turdis di Campli, eletto vescovo di Penne ed Atri, e poi Vescovo di Spoleto e Legato di Martino V. al Concilio generale di Pavia, scrutatore de’ voti nel Concilio di Costanza; Pietro Paolo Quintavalle celeberrimo canonista e dottore nell'uno e nell'altro diritto; Berardo di Tortoreto, Giustiziere di Abruzzo e di Sicilia citra nel 1269 e di Sicilia Ultra 21; Ludovico de Monti giustiziere di Terra d’Otranto nel 6 giugno 1279 22 e nel 1283; Pietro Parisio professore di medicina 23; il Maestro Sadiceto segretario di Re Roberto; Giacomo Palladino, Teodoro de Lellis, Pasquale Riccio, Berardo da Teramo di sir Pasquale, dottori di molto nome, come si legge registrato in un istrumento del 1334 ; Francesco di Valle judex et sapiens vir; Guglielmo da Teramo, professore di logica e di altre arti liberali nel Ginnasio Napoletano verso l’a. 1271 24; Matteo da Teramo, celebre nel diritto civile e canonico, e nella teologia, morto a Siena verso la fine del secolo XIII in fama di santità 25; Monti da Campli Papae capellanus, ipsiusque sacri Palatii Apostolici causarum auditor (1429); Girolamo Forti regio cappellano, letterato e poeta, autore di un poema epico, degno di molta lode, avuto riguardo al tempo in cui venne scritto; Mariano d’Adamo, eximius legum doctor, come da documento del 1454, riferito dal Muzii; Bartolomeo da Teramo, celebre dottore vissuto a’ tempi della Regina Sancia nel 1344; Belisario Clemente di Castel Basso, dottore in diritto, ricordato con elogi dal Toppi; Domenico de Rubeis di Tottea, fecondo scrittore, fra i più dotti ed eloquenti del suo tempo, soprannominato il Cicerone degli Abruzzi; Giandomenico Raynaldi di Giulianova, illustre scrittore ed avvocato; Antonio Tattoni di Bellante, Generoso Cornacchia, Gian Filippo Delfico, Giovanni Thaulero, letterati di bella fama; Giovanni de Panicis di Montorio al Vomano, medico insigne e professore di scienze naturali, autore di opere stimatissime; Melchiorre Delfico, che onora con la dottrina, non pure Teramo e l’Abruzzo, ma l’Italia tutta; il dottissimo e tanto benemerito raccoglitore di documenti putrii. Brunetti di Campli; l’illustre poeta Francesco Filippi-Pepe di Civitella, ammirato in Italia e fuori; Principio Fabbrizì, Alessio Tulli, Rodolfo leracinto, Stefano Coletti, letterati egregi; Forti, Boncori, Tosi, Bonolis, ed altri viventi, artisti valentissimi. Ed anche il sesso gentile illustrò sè stesso e la città nativa con opere egregie; e viva sarà sempre la ricordanza di Camilla Porzii, Cinzia Forti, Lucrezia de Lellis, Maria Felice Palaferri, Marianna Segnani, Teresa Pompetti e di tante altre valorose!....
Ma prima di por termine a queste notizie di storia patria, noi inchiniamo riverente la fronte a tre insigni luminari della storia e della archeologia Abruzzese; Muzio Muzii, Gian Berardino Delfico e Nicola Palma. E così la patria riconoscente voglia consacrare alla memoria di questi egregi e benemeriti cittadini almeno una lapide nel Civico Palazzo, che ne ricordi il nome ai futuri, e sia viva e parlante testimonianza, che l’affetto non vien mai meno nell’animo de’ Teramani verso uomini, che tanto onorarono con l’ingegno, con gli studi e con la virtù il paese nativo!
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«Al tempo della Regina Giovanna, anzi assai prima, regnando il Re Roberto, fu Vescovo in questa Città Nicolò degli Arcioni, nobile Romano, il quale nel 1332 fè ampliare la Porta maestra della Chiesa Cattedrale, ed ornarla di colonnette, di statue, d’intagli ed altri ornamenti. Al tempo anche di questo buon Vescovo fu fabbricata la nave superiore di detta Cattedrale; ed egli edificò
la cappella dedicata alla nascita di nostro Signore, ora fatta
officiare dalla compagnia delle donne, cognominata di Maria Vergine
nostra Signora, quale cappella era chiusa con una cancellata
di ferro, che si serrava con chiave. La dedicò per sepoltura ai
Pontefici. Volle anche il detto Vescovo essere sepellito in detta Cappella, siccome fino a questi nostri tempi si vede la sepoltura,
con suo ritratto in marmo con questa iscrizione:
HIC REQUIESCIT
DOMINUS NICOLAUS DE URBE
EPISCOPUS APRUTINUS
QUI OBIIT A. DOMINI MCCCLV.
Cosi il Muzii nella sua Storia ms. di Teramo, dialogo 2° 26.
Antichissima, come noi abbiamo ricordato, è la Chiesa Aprutina, la quale, se non venne innalzata a Sede Episcopale fin dal tempo degli Apostoli, come lasciò scritto l'Ughelli: Lumen Evangelii hansit jam inde Apostolorum temporibus, dignitateque Episcopali ab iisdem insignita est 27, ebbe però senza dubbio Vescovi proprii molto prima del secolo VI. La Cattedrale, dedicata alla Vergine Maria, fu quasi interamente distrutta dal Conte Roberto di Bassavilla, eccetto due Cappelle, le quali formano ora la piccola Chiesa di S. Getulio, altrimenti S. Anna, appartenente a’ Signori Pompetti. Ed anche oggi si mostra la base della vecchia torre in pietra, di belle e grandiose forme, detta volgarmente, insieme alle attigue fabbriche di proprietà della Chiesa Vescovile, Casa di S. Berardo, ed un interno in cui si ammirano volte a croce, che poggiavano sopra colonne con capitelli di ordine jonico, alcuni pregevoli avanzi di pittura a fresco, ed una iscrizione, ricordante forse.il nome dell’artista, che comincia: Ego Johannes,... Il Gran Vescovo Guido, vedendo che la chiesa non poteva essere restaurata, che con spese ingenti, ne fabbricò un’altra dalle fondamenta, dedicandola del pari a S. Maria, in luogo più centrale e meglio adatto al culto dei fedeli, ove venne poi sepellito nel 1170, come ricorda lo stesso Ughelli: Coeterum Guido, post multa praeclara gesta, decessit anno 1170, non sine populorum lacrymis, in Cathedrali humatus, quam a fundamentis aedifìcare coeperat 28.
Poche ed insignificanti variazioni architettoniche subi questo edilizio sotto il governo de’ Vescovi, che a Guido successero; ma non cosi durante il Vescovado di Monsignor Nicolò degli Arcioni, nobile Romano, il quale, nato in una Città celebre in tutto il mondo per i suoi superbi monumenti, ebbe l’animo educato al culto delle arti belle, e dette perciò alacre opera a nobilitare la sua Sede con egregi monumenti, lasciando principalmente di sè onorata memoria nella fondazione dell’Ospedale Maggiore, e nella magnifica porta della Chiesa Cattedrale.
Egli, per renderla più spaziosa e meglio rispondente alla maestà del culto, volle prolungarla verso ponente, e fabbricò dalle fondamenta tutta quella parte, la quale rimane sopra l’attuale Cappellone di S. Berardo, al di sopra dell’organo e della cupola, la quale per lo innanzi si elevava sull'altare maggiore. La nuova fabbrica ebbe il pavimento di un livello più alto dell’antica, ed è perciò che da questa a quella si accede per sei gradini. Le Chiesa è nell'insieme alquanto storta, a causa dell’inclinazione verso settentrione de’muri laterali, forse per errore del poco esperto architetto, o per i riguardi e la venerazione dovuta all'antico cimitero. Fece l’Arcioni costruire la Cappella della nascita del Signore, che servi poi, come si è detto, di sepoltura a’ Vescovi. Ma il maggiore monumento di arte di cui arricchì Teramo, lasciando non peritura testimonianza della sua splendidezza, fu la facciata della Chiesa Cattedrale, con la elegante porta a bellissimi e vaghi intagli istoriata.
Affidò il Vescovo l’esecuzione di questa opera a DIODATO Romano, suo concittadino, uno de’ migliori artisti del suo tempo, resosi già celebre per altri superbi lavori di scultura e di musaico. Dice di lui il Ciampini 29: Narrai etiam (Oldoinus in vita Cardinalis Capisucci) cum in tempio D. Mariae ad Campitellum Lipsanorum custodiam fuisse, quam nos vidisse recordaniur, nobilissimis marmorum incrustationibus concinnatum, ubi ejusdem Familiae Capisuccae insignia conspiciebantur opere vermiculato expressa, aureum nempe balteum in coerulei coloris aroala, ibique etiam artificis nomen legebatur, nempe — Hoc opus fecit Magister Deodatus— 30 Ed il Titi 31, descrivendo la medesima Chiesa di S. Maria in Campitelli, cosi ricorda le opere del Diodato: L'altar maggiore fu fatto d'inventione et disegni di Melchior Gasar Maltese: quivi era prima un Tabernacolo di marmo di fattura gotica, nella forma di quelli di S. M. Maggiore, disfatto nella rinnovatione della Chiesa, fatto fare dalla famiglia de Capizucchi nel 1290 con armi loro di mosaico col campo azzurro e sbarra a traverso, d’opera di Adeodato figlio di Cosmo Cosmati artefice famoso, che fece la Cappella del Sancta San- ctorum del Laterano». Fu egli altresì autore, insieme al fratello Giacomo, del pavimento di S. Iacopo alla Lungara; e la epigrafe vien riportata dal Crescimbeni nelle Storia della Basilica di Santa Maria in Cosmodin — Deodatus filius Cosmati et Iacobus fecerunt hoc opus: per questa chiesa esegui altresi un bellissimo Ciborio 32.
Questa Cattedrale adunque, di stile neo-latino, che è in massima parte opera del XIV secolo, giacché, come si è detto, fu rinnovata tra il 1317 ed il 1335, venne ampliata con fabbrica che i Vescovi le addossarono, con fare barocco, nel secolo susseguente. La sua facciata, a pietre ad a mattoni, senza ordine ed armonia disposti, mostra i disordinati restauri de’ diversi secoli, ed il poco gusto degli artefici che vi posero mano: priva di decorazioni e di quello stile elegante e grandioso, che rese illustri i nostri monumenti de’ secoli precedenti, presenta la forma quadrangolare, simile alla Cattedrale di Atri, ed è adorna di un semplice cornicione di mattoni intagliati, vagamente commessi, terminato da larghi merli, che a guisa di fregio lo coronano.
Alcuni pilastri, che si vedono tuttodì, accennano forse alla esistenza di un portico sul davanti della Chiesa in tempi assai remoti, portico che doveva aggiungere maestà e decoro all'aspetto venerando dell’edificio. Delle tre porte, alle quali si accede per dieci marmorei scalini, che si prolungano per tutta la lunghezza della facciata, quella di mezzo è bellissima, ed è a ragione stimata uno de’ più egregi monumenti di arte della Provincia di Teramo. Sei colonnine, le prime due, sul davanti, rotonde, a spirale le altre quattro, sostengono più archi concentrici a tutto sesto, che, man mano degradando e restringendosi, s’intrecciano mirabilmente, e sono alla vista di bellissimo effetto. Le basi di tutto il gruppo bene inteso di colonne sono in modo disposte, che le due prime vengono sostenute da due leoni in maestoso atto di riposo, a simboleggiare forse la potenza della Chiesa e la vigilanza de’ Sacerdoti. La bella proporzione del disegno, gl’istoriati capitelli, i vaghi fregi, i finissimi lavori d’intaglio, i magnifici festoni di foglie e di fiori, che, separando l’una colonna dall'altra, corrono, tutto in giro l’arco; gli ornamenti di musaico, da’ vivaci colori artisticamente fusi ed intrecciati, i bassirilievi e le simboliche sculture, rendono in tutte le sue parti bella ed armonica questa egregia opera dell’arte cristiana del XIV secolo. Sull'arco della facciata, si eleva un grosso fregio triangolare, al quale l’arco medesimo serve di base, a pietre quadrate, rinchiuso da una semplice cornice: un finestrone rotondo, anche esso di più archi concentrici, adorni di vaghi e bellissimi lavori di scalpello, è posto quasi nel centro del fregio: tre nicchie a sesto acuto con colonnine a spirale e statue di Santi, delle quali le prime due a destra ed a sinistra della base sopra l’arco, e l’altra sopra il finestrone; alcuni angioli in atto pudico e raccolto, d’ingenua fattura; una grande aquila che, in atto di riposo, guarda superba il cielo, sulla sommità del descritto fregio triangolare, completa questa magnifica porta, che presenta cosi un insieme bello e nuovo, non disgiunto da eleganza e da sveltezza. Un largo fregio a musaico ricorda il nome dell’artista:
MAGISTER DEODATVS DE VRBE FECIT HOC OPVS-MCCCXXXII.
Sull'architrave si vedono tre scudi; nel mezzo quello del Vescovo Nicolò degli Arcioni rappresentante un arcione da basto; a destra lo stemma di Teramo, (Teramum) a sinistra quello di Atri, (Hatria) monumento forse eretto alla buona amicizia tra le due città 33; nella
lunetta dell’arco è effigiato a fresco il monogramma di Maria, circondato da raggi luminosi. Giova qui osservare, che tanto le colonne di ordine corintio che adornavano la Cattedrale, l’ornato descritto, l’altro dello stesso tempo, che si ammira nel portone della Chiesa di S. Francesco, opera forse dello stesso artifice Deodato, e la maggior parte dei lavori antichi e de’bassi tempi, che si vedono in Teramo, sono di pietra viva, ed appartengono alla cava di Ioannella. Ed altri lavori della stessa pietra esistono tuttodì, fra cui la tazza del battistero col suo piedistallo, gli stipiti delle porte della Chiesa di San Matteo e dello Spirito Santo, dovuti all'ingegno degl’illustri scultori Ascolani Ciosafatti.
E le arti non vennero meno negli anni seguenti: sotto il Vescovado di Pietro della Valle furono condotti probabilmente a fresco due dipinti sul muro boreale delle botteghe attigue al Duomo, sporgenti sulla piazza del mercato: ai tempi dello storico Muzii vi si leggeva questa iscrizione: Omnes iste Apotece (sic) fuerunt facte tempore Rev. in Cristo Patris et domini D. Petri de Valle de Teramo Episcopi Apriitini, Anno Domini 1381, V. Indict.
«In uno sta dipinto un personaggio, cosi il Muzii, che siede con una bacchetta nella mano destra, ed un libro aperto sopra il ginocchio sinistro; ed un altro personaggio in piedi, vestito di rosso, che con la destra giura sopra il libro, e con la sinistra piglia la bacchetta. A lato del personaggio in piedi stanno paggi, servitori e due trombetti suonando». Il Muzii pensa che questo bel dipinto dovesse rappresentare l’investitura che Re Guglielmo fece della distrutta Teramo al Vescovo Guido; ed il rosso colore dell’abito di costui indicherebbe la prerogativa concessa da’ Pontefici a’Vescovi Aprutini di vestire la porpora. Nel popolo, in atteggiamento di mestizia, raffigurato nell’altro quadro. Egli vuol ravvisare i superstiti cittadini usciti incontro a Guido, allorché fé ritorno da S. Flaviano a Teramo.
Poco appresso, 1483, venne anche compiuta la torre, da’ merli grandi infino alla cima; e tra le molte campane, ve nera una del peso di undici mila libbre di metallo, nella fusione della quale fu mescolato qualche poco di oro e molto argento offerto dalle donne per loro divozione; e fu necessario condurre ingegneri di fuori, e fare molti artificii, come lasciò scritto il Muzii, e macchine solo a tale effetto per tirarla su la torre, spendendosi per tale egregia opera dalla città la somma, non lieve per quei tempi, di scudi ottomila. Questa campana, tra le più grandi degli Abruzzi, portava la seguente iscrizione:
Vivite concordes Terami populosa juventus:
Admonet hoc dulci vos Aprutina modo.
In ea dulci sonat pariter dum pecutit aera:
Convocat ad landes quemlibet ipsa Dei.
Horrida jam simplum latus en si pecutit haec est
Ipsa aversa sono civibus arma parat 34.
E il più volte citato Muzio de’ Muzii, nella sua Storia di Teramo ms. ricordando queste opere ed altre ancora, ben meritamente esclama: Considerate dunque quanti danari siensi spesi per edificar la nave superiore della Cattedrale, fatta tutto di nuovo; quanti in fabbricare ed alzare l’altra torre di detta Cattedrale; quanto nel lavoro delle pietre e del legname della porta maggiore; (le imposte oggi più non esistono; quelle che si vedono sono copia delle antiche, che dovevano essere bellissime, modellate su di un frammento, che si conserva) quanto nel fare un palliotto di argento assai più bello, dicono, di quello che oggi si vede, il quale fu rubato da’ soldati nel 1416; lascio al dirvi delle belle croci, del gran numero di calici ed incensieri di argento, che nelle depopulationi della città furon perduti o per bisogno venduti; considerate anche quanto si sia speso nell'edificare le Chiese ed i Monasteri, i pubblici palagi, tutti gli antichi ornamenti di argento, le Cappelle delle Chiese, tutte le doti de Conventi e de’ Monasteri, le compere fatte, e si avrà un idea giusta della grandezza e dello splendore della città in questo tempo 35.
Il Duomo di Teramo venne in seguito rimordernato; e Monsignor de Rossi pose la prima pietra del nuovo fabbricato il di 6 marzo 1739 con grande solennità. Vennero ricostruiti i muri laterali dell’antica Chiesa, giacché la nave superiore e la facciata restaurate, come si è detto, da Nicolò degli Arcioni, si conservavano in buono stato. Non si pose però rimedio al difetto dell’antica struttura; furono sostituiti alcuni pilastri alle vecchie pregevoli colonne; si costruirono volte; si rinnovò il tetto, l'intonaco ed il pavimento; l’altare maggiore venne trasportato verso la parte superiore della Chiesa. Questi restauri, eseguiti con poco gusto e con minore intelligenza, distrussero sventuratamente molti antichi monumenti, con irreparabile danno delle arti nostre 36. Ma quello che rende più pregiata la Cattedrale di Teramo, e resta monumento insigne dello splendore e dell'eccellenza dell’arte Abruzzese ne’ passati secoli, è un palliotto di argento massiccio, di cui, il giorno delle feste solenni, si adorna l’altare maggiore, e che venne sostituito all'altro, anche di argento, magni valoris, rubato nella triste congiuntura del 1416. È opera singolare di maestro Nicola Gallucci di Guardiagrele, scultore e cesellatore davvero insigne, e da non temer rivali, non dico negli Abruzzi, ma nell'Italia tutta, vissuto un secolo prima di quel Benvenuto Cellini, che doveva poi elevarsi principe tra tutti i cesellatori del suo tempo 37. Le opere che egli condusse furono davvero meravigliose per arte, per istile purissimo, per leggiadria e per concetto, e collocano il nome del nostro Nicola di Guardiagrele, finora, per somma incuria, ignoto nella storia artistica Napoletana, fra i primi che nobilitarono e restaurarono l’arte del cesello.
Questo superbo palliotto venne dunque compiuto durante il tempo che teneva la signoria della Città Giosia di Acquaviva, signoria che, al dire degli storici Teramani, fu la più mite e la pia liberale di tutte le altre che si erano succedute. L’opera fu incominciata nel 1433 38 e compiuta nel 1448, ossia nello spazio di quindici anni. Presenta essa nel mezzo il Salvatore del mondo, circondato da raggi luminosi, che sostiene con la mano sinistra un libro aperto, nel quale si legge; Ego sum lux Mundi, via, veritas, et vita — mentre tiene la destra levata in alto nell'atto di benedire. A destra si vedono i quattro Evangelisti, con epigrafi tolte da’ primi versetti dei loro Evangeli; a sinistra i quattro Dottori della Chiesa Latina. Scolpi poi, in altrettanti quadretti simmetricamente disposti, i principali misteri di nostra Redenzione: L’Annanziazione — La Nascita — L'adorazione de’ Magi — Cristo che disputa con i Dottori — La fuga in Egitto — Cristo tentato dal demonio — Cristo tolto dal Sepolcro — Gli Apostoli e le Marie — L’ultima Cena — La Trasfigurazione — Cristo in mezzo a’ Giudei — Ecce Rex Iudeorum — La Flagellazione — Cristo coronato di spine — Cristo condotto al Calvario — La Crocifissione — Cristo deposto nel sepolcro — La risurrezione — Cristo che apparisce alla Maddalena — Cristo adorato dagli Angioli — E poi la discesa dello Spirito Santo — Il giudizio di Salomone — San Francesco che riceve le stimmate. Altre figure di Santi e Sante ed emblemi diversi, condotti a niello con grande finezza e bene armoniosi colori, dividono l’un quadretto dall'altro; o a dir meglio vengono meravigliosamente e con molta arte disposti a’ quattro lati estremi di ciascun quadretto, intorno a cui gira una cornice a vaghissimi festoni di fiori, e di foglie a guisa di fine ricamo. Mirabile composizione, con le figure terzine scolpite a rilievo su fondo dorato, sorprendenti davvero per espressione, decoro nelle pieghe, nelle teste e negli atteggiamenti del volto e della persona, per leggiadria e correttezza somma di disegno, per purezza di stile. Anche gli accessorii, eseguiti con isquisito magistero e con valentia degna di un grande artista, aggiungono pregio singolare all'insieme della bella, vasta, ben condotta ed ordinata composizione. Vi si legge in gotici caratteri questa iscrizione:
Ma non vogliamo lasciare questo insigne e poco noto nostro Artista, senza ricordare altre due opere da lui condotte, che decorano anche oggi i nostri Abruzzi. La prima è l’argentea statua di San Giustino, che si venera nella Cattedrale Teatina. Ne ha lasciato memoria, oltre il Nicolino, anche il Polidoro nella sua dissertazione manoscritta intorno alle Arti ne' Frentani con le seguenti parole: Inter antiqua monimenta, quae de Sancto Iustino Episcopo et Patrono Theatinorum primum in lucem edita a Hieronymo Nicolino Lib. II historiae Theatinae, occurit sequens memoria artificis statuae argenteae ejusdem Sancti Autistitis conflatae anno Domini millesimo, quadrigentesimo, quinquagesimo quinto:
OPUS NICOLAI DE GUARDIA GRELIS A. D. MCCCCLV.
2. La magnifica Croce di argento della Cattedrale di Aquila. Da un lato, nel mezzo, si vede Gesù Crocifisso, avendo a diritta la Vergine ed a sinistra l’Evangelista Giovanni. Due Angioli manifestano con bella movenza del capo, del volto e delle mani vivo affetto, e nel tempo stesso venerazione. Nella parte superiore della Croce è effigiato il Nazzareno, che scoverchia l’avello, e vittorioso ascende al Cielo; all'intorno si vedono i militi prostrati dalla sfolgorante luce divina. Un tempietto dalle svelte colonne è posto ai suoi piedi; e poi la Vergine che piange sul corpo esanime del fìgliuol suo. Dall'altra parte della Croce, adorna di bellissimi altorilievi a getto, si ammira, nel mezzo, l’immagine del Redentore del Mondo, che sostiene con la mano sinistra una scritta, nella quale a gotici caratteri si legge: Ego sum lux mundi, via, veritas; ed alle estremità i quattro Evangelisti a rilievo con gli animali simbolici a niello, di bellissimo effetto. Tutto il lavoro è adorno di bassirilievi a punta di cesello, rappresentanti l’incoronazione della Vergine, la Vergine con in braccio il Bambino Gesù; l’arme del Capitolo un Aquila, col motto — Ecclesiae Aquilanae caput — lo stemma del Cardinale Amico Agnifili, che fece eseguire la stupenda opera, e ne fé poscia dono alla Chiesa; ed altri belli lavori di niello, che il tempo e l’incuria degli uomini hanno in buona parte cancellati. Vi si legge questa epigrafe:
Opus Nicolai Andree de Guardia
MCCCCXXXIV
Il prezzo di questa opera non oltrepassò i ducati quattrocento. Sappiamo infatti da pubblico istrumento di Notar Antonuccio di Lucio di Poggio Vicario di Cigoli, con la data del 20 febbrajo 1447, che lo stesso Nicola di Guardiagrele convenne con l’Arciprete di S.a Maria di Paganica e con il Capitolo della medesima chiesa di fare a sue spese, e nel termine di due anni, una Croce di argento, con pomo di argento indorato e smaltato, a somiglianza della Croce di S. Massimo di Aquila, pel prezzo di ducati 590: ed il valente artista dichiarava di riceversi in conto una piccola quantità di argento rotto e poco danaro 40. Nello stesso Antinori troviamo di lui quest’altra notizia. Nel 1462 alla presenta di Gaglioffo Gaglioffi, di Giacomo Antonio di Ludovico, il Sindaco di S. Vittorino, in nome della Chiesa di S. Biagio di quel Castello dell’Aquila, contrattò con Giovanni di Maestro Zittio di S. Vittorino, che avendo quello promesso all'Arciprete di far lavorare dal Maestro Nicolò orefice una Croce precessionale di argento, sculta ed indorata a somiglianza di quella di S. Silvestro, per la quale aveva ricevuto otto libbre e mezzo di argento di carlini; che essendo morto quell'artefice facesse da altri compire quel lavoro.
Appartengono ancora al nostro Nicolò il piedistallo della statua di S. Massimo, che oggi più non esiste; le quadre antiche statue di argento de’Protettori di Aquila; la bella Croce di Monticchio; l’antica Croce di S. Silvestro di Aquila; il piede di un reliquiario sotto forma di tempietto gotico, diviso in nicchie tricuspidali con i dodici Apostoli, portanti ciascheduno una scritta; una bella base di statua con figure, armi e stemmi 41; ed altri lavori, che qui lungo sarebbe il ricordare. E tutte queste opere collocano l’artista Abruzzese a fianco del Donatello, del Ghiberti e dello stesso Benvenuto Cellini. Che se egli avesse ricevuto il battesimo a Firenze, a Roma od a Milano e non in un umile paese degli Abruzzi, e da storici partigiani dell’arte fosse stato encomiato più del dovere, non sarebbe certamente meno di quelli famoso! Ma la storia artistica delle nostre Provincie deve essere rifatta da capo! 42.
- ↑ Lib. XXII, Capit. 6. Lib. XXVII, Cap. 35
- ↑ Lib. 15.
- ↑ Geog. lib. 3. tab. 6.
- ↑ Lib. XIV. Cap. 5 e 7.
- ↑ De Coloniis.
- ↑ L’iscrizione si conservava presso il compianto Conte di Conversano. È un importante e pregiato monumento epigrafico, che tanto interessa la storia patria.
- ↑ V. Micali e Bossi. C. Pellegrini in Auct. ad Ostiens. lib. IV, cap. XXII: etc.
- ↑ Inter. Praetutia. Gap. 1, pag. 1, 2 e seg.
- ↑ V. I. R. N. Muzii, Delfico, Palma, Mozzetti, U. Valia, N. Sorricchio, G. Cherubini, V. Iandelli, D. De Guidobaldi, V. Gentile, per tacere di altri, raccolsero ed illustrarono non poche epigrafi che si riferiscono all'antica regione Pretuziana. V. il Voi. I del nostro Castel S, Flaviano (presso i Romani Castrum Novuni), etc.
- ↑ De Coloniis.
- ↑ Silio Italico. Punic. Lib. XIV.
- ↑
COLLEGIO
CENTONARIOROM
INTERAMNITIUM
PRAETUTIANORUM
IN PRONT. P. XXX AGRO P. XL.
- ↑ V. Muratori. Dissertazione sulle antichità italiane, Voi. 1, Diss. 11, pag. 12.)
- ↑ Libro IV, Gap. XXII.)
- ↑ V. Ughelli — Ital. Sacr. in Aprut. Episc. Cronicon S. Ioannis in Venere Mss. della Biblioteca Valicelliana di Roma; Ostiense — Hist. Sac. Monast. Gas. Lut. Paris. 1658 — Murat. R. I. S. Voi. 2. 709. etc. Non abbiamo qui ricordata la Gronaca di S. Stefano ad Rivum maris perchè l’autenticità di questo documento, raccolto dal Polidoro ed edito del prof. Saraceni nel l877, è messa, con forti ragioni, in dubbio dal mio amico prof. M. Schipa in un pregevole saggio critico, che egli inserì nell’Archivio storico delle Provincie Napolitane.
- ↑ La morte di Ruggiero primo nostro Re, avvenne senza dubbio nel 26 o 28 Febbrajo 1154, data che non solamente è confermata dalla citata Cronaca dell’Anonimo Cassinese, ma da molti documenti dell’Archivio di Stato di Napoli, che nel mese di Aprile, Maggio e Giugno son segnati soltanto con gli anni di Guglielmo I. Gli scrittori che segnano l’anno 1149 sono di epoca assai posteriore, mentre esistono moltissime carte ed anche diplomi che segnano il nome di Ruggiero o sono dati da Ruggiero negli anni 1150, 1151, 1153. Una larga discussione sul proposito si può leggere negli Annali del P. di Meo, tom. X, pag. 195 e seg. ove il dotto storico ne parla con erudizione e diligenza. Dello tesso parere è l’illustre B. Capasso, al quale ci siamo rivolti.
- ↑ Intorno a questi avvenimenti v. Muratori, Annali; Romualdo Salernitano, in Cronic. etc.
- ↑ V. Palma, Storia Ecclesiastica e civile della Regione più settentrionale del Regno di Napoli. Voi. I. Il Palma, come più volte si è da noi ripetuto nei nostri lavori, raccolse immensi documenti per la Storia Aprutina, della quale si rese benemerentissimo.
- ↑ Epistolarum liber primus. Campano Opera omnia edite del Ferno, Venetiis MCCCCXCIIII. Il Muzii, nella sua storia di Teramo manoscritta, e di cui un esemplare presso di me si conserva, così racconta il viaggio del Vescovo Guido in Sicilia. «Or arrivato il Vescovo in Palermo e trovato il nuovo Re piacevole e pronto a conceder grazie, se gli presentò davanti, et espose che la Città di Teramo della Provincia di Apruzzo (della quale egli era Vescovo) era stata con crudeltà, strage ed uccisione abbruciata e dosolata affatto dall'esercito guidato da Roberto Conte di Loretello, solo perchè i Cittadini volevano servare fedeltà all’imperatore Corrado loro antico Signore. Fu il Vescovo graziosamente ascoltato, ed ottenne, non solo che la Città si riedificasse, ma il Re, senza esserne richiesto, ne fè a lui libero il dono, e che a suo beneplacito ne disponesse, con condizione però che pagasse ogni anno al Regio erario l’adoa, siccome s’usa a questi nostri tempi pagar pei feudi delli Castelli distrutti; ed acciocché con più prestezza la città si riempisse di abitatori, il Re diede potestà al Vescovo di concedere franchizie ed immunità nel modo che egli avria giudicato necessario. Ritornato il Vescovo in Teramo, richiamò quelle genti che stavano nella pianura di S. Angelo, le quali con allegrezza vi vennero, ciascuno accomodando la propria abitazione in forma di capanna nel luogo ove per primo aveva avuto la casa». (Dialogo secondo).
- ↑ Il Signor F. Savini ha di recente pubblicato eleganza di tipi edito a Firenze (1881) dalla un assai bel libro, con Tipografia Ricci — Discorre in esso con competenza e giudizio della potente famiglia Teramana de’ Melatino, narrandone, con l’ajuto di molti nuovi, importanti ed inediti documenti, le antiche origini; e ricordando i feudi e gli altri possessi, le vicende, e gli uomini illustri, che resero celebri questi potenti Signori. E lavoro erudito, scritto con esattezza e con coscienza di storico. Il libro viene corredato da 14 tavole di autografi, stemmi etc. e da un esatto albero genealogico.
- ↑ Reg. 1268 n. 6, fol. l6o l. 172 t. Reg. 1278 A. n. 29. fol. 120.
- ↑ Reg. 1278-79 H. n. 33. fol. 210 l. Di Ludovico Monti, ignoto agli scrittori patrii, abbiamo quest’altra notizia. Nel 29 sett. 1282 11a indiz. era capitano a faro ultra tisque ad confinia lerrarum sancte Romane Ecclesie, e faceva le funzioni di maestro giustiziere del Regno di Sicilia, come appare da un documento dello stesso anno, che è un mandato indirizzato da Re Carlo I d’Angiò allo stesso Ludovico, col quale gli partecipa e descrive l’assalto dato alla città di Messina, e che per l’approssimarsi della cattiva stagione e pel pericoloso passaggio del Faro, ritira l’esercito al quartiere d’inverno in Reggio. Il documento è intestato nobili viro Lodoyco de Montibus. Continuava nell'ufficio il 16 Maggio 1283. Reg. 1284, E. n. 46, fol. 14 l. Reg. 1283 n. 46 fol. 85.
- ↑ Il Principe Carlo di Salerno ordina che sia ricevuto conventato nello Studio di Napoli, avendo insegnato, ed essendo stato esaminato ed approvato. Reg. 1284, B. n. 48, fol. 165.
- ↑ Anche di questo insigne Teramano tacciono il Palma e gli altri storici. Reg. a. 1271 lit. A fol. 139, et A. 1380, Arca B, m. 42, n. 3.
- ↑ Anche ignoto nella storia lett. abruzzese.
- ↑ L’Antinori nelle sue Schede manoscritte, possedute dal mio chiarissimo amico il Marchese Dragonetti, e da lui generosamente donate alla Biblioteca Provinciale di Aquila, lasciò notato che «Nicolò degli Arcioni aveva edificata la parte superiore di sua nuova Cattedrale con Cappella con sepoltura dei Vescovi, Se ne mori, ed in quella fu sepolto con epitaffio modesto e col suo ritratto in marmo. Si appose poi nel muro a man destra altra iscrizione in versi esametri
alludenti al cognome Arcione, e ad un Giovanni, ivi pure sepolto:
Urbe sola fato facta voceni intuìit Archion Ouem los Patris habet proprio sub nomine Colam,
Et geminis decem secundus aree Monarcus
Johannes cathedrat letum sub teneris annis
Pontificat lustris pluris, quam vite septenis
Et vixit multo populi sub famine foelix.
Hic jacet in aula dicata numini sancto
Quos una dies par poena locusque peremit
Ad gloriam parem, gladius nec defuit idem
Haud exitus spargit, quos vita cara nerescit
In charitate quorum plebs altare duodena
Ad Regna polorurn Praesulem deducat amoena. - ↑ Ughelli. Voi. 2° in Aprut. Episc.
- ↑ Stor. Aprut. V. 1° pag. 183. Lasciò scritto il ricordato Muzii: «Il Vescovo, conoscendo che la Chiesa cattedrale antica non senza grande spesa si poteva riedificare, giacché era tutta distrutta ed abbrugiata, fuorché due cappelle, che ora stanno in piedi in forma di Chiesiola, con titolo di S. Getulio, e vedendo che un’altra Chiesa sarebbe situata nel mezzo della Città, secondò la sua intenzione di farla circondare di muraglie: la fé con celerità possibile, ed al meglio che si potè, raccomodare et ornare»; e parlando poco appresso della sua ampiezza, soggiunge: «Tutto il cortile e le stanze terrene ch’ora sono dentro del luogo di detta Chiesa e la piazza di fuori (s’estendeva l’ampiezza); anzi dicono alcuni assai più oltre, perché già sapete quelle colonne di sottil intaglio, sepolture integre di travertino et altre belle pietre furono cavate nell’anno 1587».
- ↑ Vetera Monumenta etc. Roma 1690, parte I, pag. 181.
- ↑ Vide: Abbas Costantinus in Vita PP. Gelasii II.
- ↑ Studio di pittura, scultura ed architettura nelle Chiese di Roma etc. Roma et Macerata 1675, pag. 116.
- ↑ V. Gian Battista de’Rossi sugli artefici Cosmati. Il mio compianto amico, Comm. Demetrio Salazaro, nella sua opera «L’Arte Romana al Medio Evo, Napoli 1881» a pag. 33, ricordando Adeodato e traendo suo pro dagli studi fatti intorno a’ Cosmati dal d’Agincourt, Cicognara, de Witte, Promis, Barbier, Gregorovius, de Reumont, G. B. de Rossi e C. Boito, in una nota scrive: Si volle attribuire a questo Adeodato la iscrizione che trovasi al disopra dell’architrave del Duomo di Teramo. A noi non pare che questo Adeodato sia lo stesso della famiglia degli artisti romani detti Cosmati..... D’altra parte, oltre l’epigrafe, che indica l’artefice, nulla è rimasto della originaria fabbrica, si nell'interno, che nell'esterno.... Ma quali sono le prove che confermano questa sua assertiva? Veramente nessuna. Da quanto abbiamo detto, risulta chiaro che il vescovo Arcione, dovendo affidare l’esecuzione di un lavoro monumentale ad un artista egregio di Roma, sua Città nativa, non poteva scegliere che uno fra quelli che godevano maggior fama. Ora se Adeodato de’Cosmati romano visse in questo tempo ed eseguì altri lodati lavori, perchè dobbiamo creare un altro artista delle stesso nome, che nessuno sa chi sia, e che non è ricordato da nessuno storico dell’arte? Del pari inesatta assai è la notizia che il Salazaro dà della Cattedrale. L’interno della medesima, è vero, venne restaurato; ma l’esterno e la porta con le sue belle sculture, opera di Maestro Deodato, è rimasto qual’era e non subì, col decorrere degli anni, variazione di sorta, e sono lì ad attestarlo tutti gli Storici nostri.
- ↑ E quest’amicizia si mantenne anche in appresso, come si vedrà da’ Patti tra le due città, che noi pubblicheremo.
- ↑ V. anche Palma op. c. V. 2, pag. 171. Riccanole riporta l’iscrizione che vi si leggeva intorno: Mentem sanctam, spontaneam, honorem Deo et Patriae libertatem. Sir Franciscus Antonius et Magister Bartolomeus Doati me fecerunt, anno Domini 1483. Nove anni prima fu posto sopra l’altare maggiore del Duomo vago ed artificioso soffitto, detto Ciborio, che più non esiste; sulla punta della piramide, che si eleva nel campanile, venne fissata una sfera di rame dorato, sormontata da Croce di ferro parimente dorato, opera dell’egregio artifice M. Antonio di Lodi; e molte altre opere di arte furono eseguite.
- ↑ In un antico inventario vien ricordato una mitra ornata de argento, et penne et prete, il braccio di S. Berardo e due Croci di argento; alcuni calici etc. Nella citata lettera di Monsignor G. A. Campano al Cardine Giacomo degli Ammannati, così vien descritta la Cattedrale: Media Urbe prominet Templum maximum Virgini Matri sacrum. Ejus basis tota silicea, est; reliqua moles, lateritiis tollitur. Contis templi testudine pereleganti fastigiaiur. Ilalae porrectius illae quidem, sed tamen subductius patent, materia tegulisque contectae. Fores tergeminae marmore expoliuntur, quaram unae recipiunt orientem solem, alterae ostendunt occidentem, tertiae verguntur ad septentrionem, quae spectantur prae foribus scalae marmoreae tractu longo porriguntur et surgunt: Conus medio imminet Tempio, despicitque altare ad pcrpendiculum, ut tot tempia quot Templi laterà esse videantur. Il coro è formato da bei lavori in legno intagliato; esso venne incominciato nel 1747.
- ↑ Il Muzii (dialogo 1° Mss.) vuole che la nave inferiore del Duomo fosse stata anticamente il Tempio di Giunone «tempio che egli dice magnifico, superbo, come ne fanno fede il musaico, l’astrico e le grosse scannellate, fogliate e bene intagliate colonne di marmo, che sono in esso» e lo storico Palma (op. citata Vol. 1° pag. 57 soggiunge: E veramente l’antichità del colonnato e d’altri frammenti d’iscrizioni esistenti nell'anzidetto pavimento, riferiti dal Brunetti, indicano che un Tempio de’gentili fossesi convertito in Chiesa ne’primi tempi della cristiana libertà. E qui, come perdonarla a Monsignor de Rossi, il quale mal soffrendo il malanconico aspetto di quelle colonne ed i mali trattamenti, che il tempo vi aveva operati, applaudendosi di voler rimodernare la sua Chiesa, ad esse sostituì quei grossolani pilastri, i quali occupano uno spazio smisurato, per poi non sostenere più che una misera volta? Quelle povere basi, fusti e capitelli che non rimasero rincalzati dal fabbricato nuovo, giacquero lunga pezza ammucchiati nella Piazza inferiore, finchè furono l’uno dopo l’altro rubati per essere alla rinfusa impiegati. I fusti meglio conservati servirono per pietre da olio, e si riconoscono nei magazzini di varie famiglie!!...
- ↑ Guardiagrele, patria di celebri artisti, formava parte de’ beni dotali di Tommassina de Sangro, vedova di Giovanni Russo da Suliaco: essendole premorto il figliuol suo Ugolino, Maria, altra figliuola, diventata moglie di Napoleone Orsini, costui, per cessione fattagli dalla moglie e dalla suocera, venne da Re Roberto d’Angiò investito, insieme alla Rocca di Manoppello, della terra di Guardiagrele (R. Archivio di Napoli) R. 1328 D, fol. 57 t. Napoleone rese omaggio in Aquila all'invasore Ludovico Re d’Ungheria. Rimesso nel 1353 nelle buone grazie delle Regina Giovanna, dalla quale venne creato logoteta, protonotario del Regno di Sicilia, collaterale e consigliere, morì, a quando pare, nell'anno 1368. I suoi figliuoli, Giovanni ed Ugolino, parteggiarono per Carlo di Durazzo contro Luigi d’Angiò: furono eredi di costoro cinque fratelli, figliuoli di Ugolino, e Napoleone II, figliuolo di Giovanni. Costui ebbe confermata nel 1390 la contea di S. Valentino, di cui il padre Carlo: da Re Ladislao era stato investito da Re ebbe altre grazie e privilegi, tra cui la facoltà di aprire una Zecca a Guardiagrele per battervi i bolognini con diploma del 4 Giugno 1391 : Magnifico Napoleoni de Ursinis Comiti Manuppelli et S. Valeniini, logothete ed Protbnotario Regni Sicilie, Collaterali, Consiliario concessio licentie faciendi cudi bolonginos in terra Sua Guardia in Aprutio, qui fiant boni argenti recteque lige et juxti ponderis duranti presenti guerra, qui expendi possint in partibus bujus Regni (Registro 1390 A, n. 369, fol. 87). Egli serbò fedeltà a Ladislao e firmò un patto di comune dipesa ad onore di Ladislao con li Sindici di Chieti, Lanciano, Ortona, Francavilla, Atessa. La Contea di Manoppello, essendo egli caduto in disgrazia, nel 1407 venne data dal Re a Ludovico Migliorati. Ebbe per figliuolo Giordano Leone morto il 1414. De’ figliuoli di Ugolino, Orso nel 1424 ebbe confermato da Alfonso d’Aragona il feudo di Guardiagrele; ma nè egli, nè i fratelli pare godesser lungamente del possesso di questa terra, giacché lo stesso Alfonso, con diploma del 1456, la dava in feudo a Marino d’Alagno. Nel 1465 Ferdinando II la dichiarò appartenente al Regio Demanio. Col tempo i cittadini si resero liberi dal dominio feudale, pagando ingenti somme di danaro. V. Lazzari Zecche e monete degli Abruzzi ne’ bassi tempi, Venezia 1858, p. 75 e seg. Dixionario geografico del Giustiniani art. Guardiagrele; Ravizza Gennaro, Raccolta di Diplomi etc. Voil. III; ed i molti documenti del Regio Archivio di Stato di Napoli, pubblicati principalmente nelle sue opere dal compianto Camillo Minieri-Riccio.
- ↑ Come dalla seguente iscrizione che vi si legge:
Ave. Maria, gratin piena, Dominus tecum.
Anno Domini MCCCCXXXIII.
- ↑ l) Questo insigne capolavoro dell’arte e della oreficeria abruzzese fu restaurato in alcune parti accessorie nel 1732, come dalla seguente iscrizione intorno alla cornice, fatta di nuovo:
Restaurava omnes coelatas figuras
D.s Dominicus Santacroce Teramnensis de
integr. fecìt 1734.
- ↑ Vedi Antinori, mss. nella Biblioteca Prov. di Aquila.
- ↑ La bella Croce per la Chiesa Maggiore di Lanciano, in grandi proporzioni, nella quale si vedono condotte a rilievo le immagini de’dodici Apostoli, de’ quattro Evangelisti, ed altre figure di Santi e Dottori bellamente cesellate, venne eseguita da Andrea di Guardiagrele, padre del nostro Nicola, anch'egli artista valentissimo e da nessuno de’nostri scrittori ricordato. E questa verità appare dalle seguenti iscrizioni, che vi si leggono:
a dr.
Hoc opus factum est
tempore Abbatis Philippi
Cappellani hujus Ecclesiae.
nel rov.Hoc opus feci ego
ANDREA DE GUARDIA
A. D. MCCCCXXII.
Mi rivolsi all'egregio Sindaco di Guardiagrele per avere altre notizie intorno all’insigne artista Nicolò; ma, a dire il vero, dalla cortese risposta, che Egli mi diresse, nulla di nuovo ebbi ad apprendere intorno alla vita ed alle opere di lui.Trascrivo qui il brano della lettera che lo riguarda:
«La famiglia Gallucci di Guardiagrele si distinse sempre ne’ lavori di cesello; e fra tanti artisti di questa famiglia, Nicola Gallucci di Andrea sopra gli altri come Aquila vola. Il suo nome è stato oggi rivendicato dall’incuria dei tempi e dall’ignoranza degli uomini.
Fra tante sue opere sparse in Francavilla a mare, in Fontecchio, in Roma stessa, merita speciale attenzione il Palliotto che gelosamente serbasi nella Città di Teramo, il quale fu valutato un milione di lire nell’ultima Esposizione di Milano. Esistono in Guardiagrele, terra natale del Gallucci, un calice cesellato di argento, che pesa un chilogramma; sotto la coppa è tre volte espresso il bollo con queste lettere; Nicolaus’Andree fecit, seguendo l’uso degli antichi epigrafisti latini, i quali mettevan per cognome il nome del padre, trattandosi di persone illustri. Esiste pure una Croce istoriata di grandissimo valore nella Chiesa di S. Maria maggiore di Guardiagrele, di proprietà Municipale, e due altre consimili Croci trovansi una in Chieti e l’altra in Roma».
Anche nella Chiesa di S. Maria Maggiore di Francavilla a mare si con serva un lavoro pregevolissimo rii Nicola Gal lucci di Guardiagrele. E un ostensorio, a cui se ha recato molto nocumento l’ingiuria del tempo, resta tuttavia la impronta di una mano maestra nell'arte del cesello. Esso fu lavorato, come si legge nella epigrafe che segue, in caratteri Longobardi, nel 1413: Ego Namus Tempioni (?) et itniciis Benedictus filius meus Butius donamus istud Tahernaculum Ecclesie S. M. de Francavilla, quod factum est per manus Abbatis Nicolai Gallucii de Guardia, Archipresbyteri Francaville, ad usum Eucharistie. Nicolaus Andree de Guardia me fecit A. D. MCCCCXIII.
Non mi pare che questa opera egregia sia ricordata dagli altri storici patrii. Essa è sommamente importante, non solo per l’eccellenza dell’arte del cesello, comune anche agli altri lavori, che di lui restano, ma perchè è il primo lavoro eseguito dal Gallucci, non conoscendosene altro che porti una data anteriore. Dal documento citato a p. 26, rilevasi che Nicolò fosse morto nel 1463, Pare dunque, dal primo lavoro 1413, all’ultimo 1462, che egli non avesse oltrepassato di molto l'età di anni settanta. Mi rivolsi Francavilla per sapere se all'egregio Sindaco di documenti esistessero negli archivii di quel Municipio riguardanti Nicola di Guardiagrele, ma egli, con sua cortese lettera del 6 Dic. 1887, N. 1496, mi ripose negativamente.
- ↑ Nella piccola raccolta di quadri nella Sala del disegno in Teramo, raccolta in buona parte dovuta all'opera ed a’consigli del eh. artista Teramano, Gennaro della Monica, si conservano alcuni pregevoli dipinti, torsi di statue, busti e qualche fregio a rilievo. Vi è, tra le altre opere di arte, una tavola con figure su fondo dorato, divisa in 12 compartimenti, in ciascuno de’ quali vengono rappresentati Santi c- Sante. Nel piano inferiore l’artista volle effigiare San Ambrogio con pastorale in mano, S. Girolamo in abito cardinalizio, e S. Agostino, uno dei protettori di Teramo, con paludamento vescovile: nel mezzo, Gesù e la Vergine seduti su faldistorio: Gesù alza la mano in atto di benedire e sembra concedere alla madre la grazia che domanda. Tutto all'intorno una bellissima corona di angioli con le mani giunte sul petto, o piegate in atteggiamento di preghiera. Nello stesso compartimento, ma nella parte inferiore, si vede nel mezzo una Città, circondata da mura, da torri e da due fiumi: a diritta de’ monaci col loro priore in ginocchio: a sinistra i cittadini con i costumi del tempo in atto supplichevole: il Monaco porta la scritta: Magister Nicotaus; la città la parola: Teramum. A sinistrasi vede S. Berardo con pastorale, mitra, ed una scritta in mano, che dice: Avertatur obsecratio tua et furor tuus a civitate tua Teramana; e poi un S. Gregorio con tiara, e S. Nicola da Tolentino con motti allusivi. Sul davanti è rappresentato in ginocchio lo stesso artista, con la seguente firma: Jacobel de Flore p. Il quadro apparteneva alla Chiesa di S. Agostino. Questa composizione, eseguita a Teramo dal celebre pittore veneziano, è davvero stupenda per verità, espressione, grazia, morbidezza di pennello, e pel modo come vengono trattati gli accessorii.