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Il cielo. 5

e la diligenza de’ curiosi raccoglitori di tradizioni popolari d’ogni maniera e d’ogni età, orali e scritte, potranno riempire. Io non vi insegnerò dunque nulla; ma solamente avrete da me qualche accenno, onde rileverete quale sia l’oggetto più tosto che l’esito finale, ancora assai lontano, delle nostre ricerche.

Il popolo, come fu già detto più volte, immagina e crea a modo d’un fanciullo, ossia a modo d’un ignorante pieno d’ingenuità, di sincerità, di curiosità, d’impressionabilità, scusate la parola che non è di Crusca; ma la Crusca non sapendomene finora offrire un’altra che esprima la stessa idea, mi conviene adoperare quella che mi sembra atta a rendere evidente il mio pensiero.

Uno scienziato, poniamo un astronomo, che contempli oggi il cielo con un buon telescopio, d’onde gli si fa vicino ciò che appariva lontano, e intieramente palese la natura de’ corpi celesti, non inventerà di certo più alcun mito. La mitologia è la poesia degli ignoranti commossi o stupefatti od atterriti. Bisogna esser creduli, paurosi, ingenui, ignari come fanciulli per trovar tante occasioni di meraviglia o di terrore nel cielo. Fin che un oggetto non si conosce può apparir mirabile; appena si conosce com’è fatto, cessa lo stupore. Lo scienziato può ammirare ancora l’armonia suprema delle cose che sfugge ancora e sfuggirà sempre alla sua indagine; ma gli sarebbe certamente impossibile raffigurarsi più il Dio Febo in quella gran luminosa massa celeste di cui esamina col telescopio le macchie. Il Mitologo deve dunque, se vuole esser com-