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Il cielo. 13

sima parte, tutti da qualche nume veramente olimpico. Per la stessa ragione per la quale il Dio vedico Indra intieramente celeste si trasforma nel bellissimo principe Argiuna del Mahâbhârata, ossia, per avere raffigurato il cielo come un enorme açvatha o ficus religiosa, si concede quindi un culto sacro anche all’açvattha terrestre. Così, ripeto, raffigurato il cielo ora come un gran giardino, ora come un gran campo, ora come una grande prateria, ora come una grande foresta, ossia tutto insieme, spesso, come una terra mirabile, si cercarono e si credettero trovare anche sulla terra giardini, campi, praterie, foreste miracolose, e s’attribuirono talora anche alla terra singolari virtù magiche. Ed ecco in qual modo veramente sono nate più spesso quelle che noi chiamiamo ora credenze ed usanze superstiziose, ossia da una traduzione terrestre della mitologia celeste, la quale, in origine, fu una semplice poesia. La Dêmêtêr è certamente una Dea celeste, e 1a madre universale come l’Aditi vedica; con essa fu identificata la Gêmêtêr; anzi i due nomi si confondono in uno e raffigurano la stessa Dea. Perciò Pindaro può dire nelle Nemesie che uomini e Dei traggono la loro origine dalla stessa madre, dalla stessa Gê. Da quanto abbiamo detto finora intorno alla terra celeste, noi possiamo renderci dunque ragione della somiglianza che si trova negli inni vedici fra Dyaus e Pr’ithivî, invocati insieme e in certo modo identificati, e spiegarci pure come la madre del filosofo Anassagora gli raccontasse un giorno una cosa che era certamente un’antica tradizione popolare, cioè