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Il cielo. 15

tana da quella realtà, alla quale il genio pratico dello storico romano voleva farla corrispondere, che fosse insomma della stessa natura di quel paradiso terrestre della tradizione semitica ed iranica, di quell’orto ellenico delle Esperidi, che appare una ipostasi terrestre del paradiso cosmogonico celeste figurato in quasi tutta la mitologia indo-europea. Così, quando il poeta vedico fantastica intorno al creatore possibile di Dyaus e di Pr’ithivî, attribuendoli ora all’uno ora all’altro degli Dei, appare molto evidente che si tratta per lo più di una Pr’ithvî celeste. Per la disperazione di risolvere in modo adeguato la grave questione intorno all’origine del cielo e della Pr’ithivî che doveano poi creare alla loro volta tutte le cose, il popolo indo-europeo si levò forse d’imbarazzo, immaginando un nume apposito quasi mostruoso e caotico, con la qualità di fabbricatore e fabbro degli Dei. Al Vulcano latino, all’Efesto greco, risponde il vedico Tvashtar che vuol dire propriamente l’artefice, chiamato pure Viçvakarman, ossia che fa tutto, od anche Viçvarûpa che assume e che crea tutte le forme. Come dal caos uscirono i mondi, così dalla tenebra e dalla nuvola attraversata da lampi escono gli Dei luminosi; il fabbro degli Dei è propriamente il genio che elabora le figure divine nel caos cosmogonico, del quale le tenebre della notte e le ombre della nuvola tempestosa, ove egli riappare, sembrarono al poeta vedico immagini assidue. Tvashtar chiudendosi poi spesso nella nuvola, si comprende come il nome di lui siasi pure dato nella mitologia vedica al Dio In-