Mirtilla/Atto quarto

Atto quarto

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Atto terzo Atto quinto


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ATTO QUARTO.

SCENA PRIMA.

Opico, e Tirsi Pastori.


Opi.
H
OR hai Tirsi notato

De l’infelice Uranio
Il lagrimoso stato?
Ch’appoggiato à quel tronco arido, e secco,
Co i languidi occhi à terra
Immobilmente affissi,
Stavasi nel suo duol cotanto immerso,
Che non pur non ci hà visti;
Ma nè anco sentiti,
Se bene amicamente, & assai forte
Salutato l’habbiamo?
Tir.Hò pur troppo compreso,
Che l’infelice Uranio è mesto, quale
Tortore, c’hà perduta la compagna;
Ma s’Uranio provasse anco una volta
La millesima parte de i piaceri,
Che nel cacciar si provano,
Gli uscirebbon di mente
I sofferti martiri;
Nè di seguir si curerebbe in darno
La dispietata Ardelia, per cui temo,
Ch’un di non corra al fin de la sua vita,

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Opi.Ti giuro, Tirsi, per questa mia chioma,
Fatta per man del Tempo,
Si come vedi già squalida, e bianca,
Che quando il vidi (ohime) starsi à quel modo
Pensoso, e muto, à gran fatica il pianto
Ritenni; e se ben sono
Spente in me tutte l’amorose fiamme:
Pur mi sovvene de i passati affanni,
Ne l’età mia più verde, e più fiorita;
Ma, s’Uranio non hà provato ancora
De la caccia i piaceri,
(Che sol quest’esercitio
Potria, sel ver discerno,
Dar bando forse à l’amoroso foco;
Perche levando l’otio, ancor si leva
Tutta la forza, onde ci atterra Amore)
Maravigliar non me’n poss’io, che sono
Già vecchio, e tuttavia
Così fatti piacer non gustai mai;
Ma dimmi, caro Tirsi,
Come hai tu ne la caccia sì gran gusto?
Tir.Opico ben si vede,
Che non provasti un tal piacer giamai:
Perche simil dimanda
Non m’havresti fatta:
Ma sappi, che non è diletto al mondo,
Che possa pareggiar quel de la caccia,
O che piacere immenso
Allhor prov’io, che in picciola Barchetta

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Con un compagno, ò due lieto me’n vado
Turbando à i pesci, & à gli augei palustri
I lor dolci riposi,
Hor con l’esca, hor con gli hami, hor cõ le reti,
Ond’è che mai ritorno
Noi non facciamo à le capanne nostre,
Che la Barchetta non sia tutta carca
Di bella, e ricca preda; e, s’io volessi
Descriverti i bei modi,
Che in ciò da noi si tengono, sò certo,
Che, se ben vecchio sei, non lascieresti
Per qual altro si voglia,
Questo dolce piacere.
Opi.In vero gentil cosa
Stimo, che sia cotesta;
Ma non t’annoia, Tirsi,
E non ti satia mai?
Non hà diletto alcun sì grande il mondo,
Che tal’hor non satolli.
Tir.                                          Quando questo
Piacer m’annoia, immantinente piglio
Altre reti, me’n vado co’ gli stessi
Compagni in qualche solitaria vale:
Quivi trà fronde, e fronde,
Tendiam la nostra rete
Sottile sì, ch’occhio la scorge à pena;
Poi con zolle, e con lassi,
E con gridi gli augei mettiamo in fuga.
I quai drizzando i paurosi voli,
Semplicetti se’n vanno,

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Ov’è teso l’inganno,
E con nostro piacer restan prigioni,
Poscia, quando vediamo, che la rete
Carca n’è sì, che gli sostiene à pena,
I capi à poco, à poco
Allentiam de la fune, e quivi presi
Troviam diversi augelli in tanta copia,
Che non sappiam dove riporgli, e spesso
Con la rete gli augelli
Avviluppati insieme
Portiamo al nostro albergo.
Opi.Egl’è pur troppo vero,
Che chi teme del mal più, che non deve,
In vece di fuggirlo, alcuna volta
Nel peggio intoppa; testimon ne sono
Gli augei, di che tu parli, i quai temendo
Lieve rumore, inavedutamente,
Per fuggirsi da quel, corrono à morte;
Ma segui, se ti piace, che mi sembra
D’esser presente a tutto quel, che vai
Si maestrevolmente descrivendo.
Tir.Hor senti, Opico mio, di qual maniera
Prendiam dolce sollazzo, e’n quanti modi
Facciam di vari augei diverse prede,
Lunge dal mio tugurio,
Quanto in sei colpi tirerebbe un’arco,
Siede un’ombrosa valle,
Che di bellezza non invidia à quella
Tanto famosa d’Ida,

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Ove già le tre Dee fur giudicate.
Quest’è d’intorno cinta
Di bei dipinti, e mansueti poggi;
Tra quali un più de gli altri
Eminente si scopre: è sopra questo
Un leggiadro boschetto,
Di sempre verdi lauri, e d’odorati
Ginepri, e di mortelle;
Quivi habbiam fabricata
Piccioletta capanna, e’n torno a quella
D’ogni pianta recisi habbiamo i rami;
Onde calando poi, gli avidi augelli
Ne ritrovando ove posar il piede,
Si ponghin, sopra le invischiate verghe,
Quivi da noi per arrestargli il volo,
Tra pianta, e pianta in ordine disposte.
Noi poi taciti, e chiusi,
Nel picciolo alberghetto,
Fatto di molli giunchi,
Con ingannevol canto
Imitiamo la voce
De’ Tordi, che passando
Si lasciano ingannar dal finto suono,
E con più lento volo,
Vanno girando a lor morte intorno.
Noi poscia ad altri Tordi,
Che vivi ad uso tal serbiamo in gabbia,
La Civetta mostriam, che non sì tosto
E veduta da lor, ch’alzan le voci,

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Come soliti sono; ò sia per tema,
O pur per odio, che nè questo posso
Affermarti, nè quello.
Basta ch’allhora i peregrini Tordi
Incautamente al non pensato male,
Corron con presto, e furioso volo;
E rideresti tu certo, vedendo
Con quale, e quanta lor vana fatica
Studian di liberarsi; e mentre cercano
Di sviluppar i piedi, intrican l’ali;
Onde poscia ciascun n’empie il suo Zaino.
Opi.Simil a questi augelli
Sono gli incauti Amanti,
Che lusingar si lasciano dal canto,
E da le soavissime parole
De lor Ninfe, e poi
Sù le tenaci panie
Della lor ferità perdon la vita.
Ma se tra noi ci fusse
Qualche nuova Medea,
Che mi ringiovenisse, io ti prometto,
Ch’io vorrei del mio tempo alcuna parte
Spender in questi sì soavi giochi.
Tir.Taccio poi d’altri modi,
Ch’usiamo nel pigliar diverse sorti
D’uccelli, e sol dirò di quel piacere,
Che nel seguir si prova
Le timidette Damme, e le paurose
Lepri, e i molli conigli, e i capri snelli,

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De’ quali altri con cani, altri con dardi,
Altri con lacci agevolmente prendo.
Ma che dirò de l’atterrar un’Orso,
O con l’acuto spiedo un fier cignale?
Certo potrebbe il Sol tre volte, e quattro
Tornar all’Oriente,
Prima, ch’io ti potessi
Dir a bastanza del piacer, ch’io provo
Ne la caccia, e son certo, se non mancano
A l’aria augelli, pesci à l’acque, e fiere
Al bosco, che in virtù de le mie reti,
De gli hami, de le panie
De i lacci, de’ miei cani, de gli strali,
E di quest’Arco, che mi diede in dono
La Dea del primo Cielo,
Non mi mancheran mai piaceri, e giochi:
Quest’è quel Arco, onde non osa Amore
Accostarmisi punto,
Che teme rimaner ferito, in vece
Di ferir me.
Opi.                      Non dir così figliuolo,
Non esser tanto ardito, che ’l soverchio
Ardir conduce altrui sovente à morte.
D’Icaro ti sovenga, e di Fetonte;
Ma non posso più quì fermarmi teco:
Ti lascio adunque à Dio, Tirsi gentile.
Tir.Opico a Dio. Si crede questo vecchio,
Che dispregiando Amore, io faccia oltraggio.
A qualche Dio, ma non son tanto ardito,
Nè tanto temerario,

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Ch’io disprezzi gli Dei, gli honoro, e colo:
Non lui, che non è Dio. ma chi veggio
Ver me venir sì lieto?
Quest’è’l buon Coridon, che sopra l’uso
Del saper de le selve, i gran segreti
Scorge de l’ampio Cielo; e ben ch’ei sia
Cittadino de i boschi: nondimeno
A gli studi giovevoli s’è dato,
Così del lavorar la terra, come
D’ogni altra cosa, che più a l’huom convenga.



SCENA SECONDA.

Coridone, e Tirsi Pastori.


Cor.
D
Io ti salvi, o buon Tirsi.

Tir.O coridon ben venga.
Dove inviato sei?
Cor.                              Egli è buon pezzo,
Che per cercar de la mia bella Nisa
Da la capanna mia feci partita;
Nisa da Coridone amata tanto,
Quanto da Nisa è Coridone amato.
Tir.Dimmi, chi tanto t’ha tenuto a bada?
Cor.Tu solo.
Tir.               E come, s’hora a me ne vieni?
Cor.Sappi, che giunto quì vicino vidi
Opico il saggio, che si stava teco,
E fatto più vicino, intesi come
Tu ragionavi seco, e perche certo
Sono, ch’egli non have per costume

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D’ascoltar cosa mai, che non sia degna
D’esser udita, desioso fatto
D’udir cosa notabile frenai
I lunghi passi, & appoggiato a un’Orno
Attentamente udij ciò, che fu detto.
E conosco, e confesso veramente,
Che diporti piacevoli, e soavi
Sono quei de la caccia; ma rispetto
A piaceri amorosi
Son’ombra, fumo, sogno, nebbia, e vento.
Tir.S’ogn’un nel costui regno,
Com’Uranio è felice, e se i piaceri,
Ch’egli concede a voi, son come i suoi,
Dolgasi ogn’un di voi, che liberale
De’ suoi beni vi sia; procuri ogn’uno
Di farlo avaro; o miserelli amanti,
Per un mentito sguardo, per un ciglio
Perfido, & incostante,
Per un finto sorriso,
E per una soave paroletta,
Ma traditrice, perdere in un punto
La cara libertà, l’arbitrio, il core;
Far de le proprie [v]oglie
Tiranna una crudele,
Astuta, lusinghiera, e falsa Ninfa;
O cieche menti, o pensier vani, e folli.
Cor.Deh scusa Amor costui, che non conosce
I doni del tuo Regno:
Egli non dee saper. ch’l sommo Giove,

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Per goder le tue gratie, in terra scese,
Mugghiò Toro, arse Fiamme, e cantò Cigno,
Fatt’Aquila rapì, piovve fatt’Oro,
E saltò fatto Satiro: & in somma
Sotto diverse forme si nascose,
Poco curando la gelosa Giuno,
Per gustar le tue gioie, e i tuoi diletti.
Tirsi, confesso ben, che alcuna noia
Sostien chi è d’Amor seguace, e servo;
Ma le pene d’Amor son tanto dolci,
Che tormentando porgano conforto,
E poco dolce molto amaro appaga.
Tir.Io non crederò mai, che dolce frutto
Venga d’amaro seme.
Cor.Se non ti rincrescesse d’ascoltarmi,
Forse ti renderei di ciò pentito.
Tir.Si pente sol chi erra, io non commetto
Alcuno errore, e però indarno tenti
Farmi pentir; ma compiacer ti voglio.
Sù dunque narra homai queste dolcezze
Piene di tanto assentio, e tanto fele,
Cor.Pensi tu, Tirsi, che l’haver in copia
Lanosa greggia, e l’esser abondante
In tutte le stagion di fresco latte,
L’haver paschi fioriti,
E più fiorito Armento;
Feconde piagge, e ben fronzute selve,
Vaghe colline, e coppiosi fonti,
E cani, e servi; e tutto quello in somma,

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Che può fare un Pastor lieto, e felice,
Siano a i lor possessor di gran contento?
Tir.Non solo il, penso ma senz’altro il credo:
Poi che son le ricchezze una quiete
De l’animo, e del cor, senza laquale
Non si può mai saper, che cosa è bene.
Cor.E pensi tu, che sia d’alma gentile
Felicità l’haver le Muse anche,
Saper con dolce, e dotta maestria
Dar fiato a le incerate inegual canne,
Cantar al suon di boscareccia avena
Soavi versi, e l’insegnare a i [s]assi,
Ove sepolta stassi
L’infaticabil Eco, di ridire
Gl’ultimi accenti; Pensi tu, che sia
Di gran contento il saper con la falce
Troncare i rami secchi, & infecondi,
Il saper quando, e come
Si debba far gl’innesti;
Quando le [v]iti maritar a gli Olmi;
Quando sfrondar le piante,
Tonder la greggia; e quando
Premer le mamme tumide, e cavarne
Il dolce latte, e poi formarne il cacio;
E come fender con l’Aratro adunco
Si dee la terra, e quando trarre il mele
Da l’Api si convenga; e quando l’uve
Si debbon corre, e spremerne il liquore.
Credi tu Tirsi, che sia gran contento

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Saper sanar la greggia,
Quando la pruina
Gli vien scabbia, ò podagra,
E saperla dal fascino guardare?
E saper con la Falce
Troncar de’ verdi prati
L’erboso frutto; ò da gli amati campi
Sveller l’inutil felce, e la gramigna,
E l’infelice l’oglio, ch’à le bionde
Spighe tanto è nocivo; quando poi
Tagliarsi den con più minuta falce?
Deh dimmi, Tirsi, non è gran contento
Saper appieno il corso de le stelle,
De’ Pianeti la forza, e perche il Sole
Si corchi in grembo à Theti;
Perche vari la Luna:
Perche la terra spesso
S’interponga tra ’l Sole, e la sorella:
Perche sien brevi, e perche lunghi i giorni,
All’hor che ’l sol si scosta, ò s’avvicina;
Perche dal terzo Ciel dolcezza piova;
Perche il pigro Saturno di veleno
Sia pieno, e Marte di superbia, e d’ira.
Perche Giove benigno: e perche l’Anno
Habbia tante Stagioni, e così varie?
E finalmente non è gran contento
Saper investigar gli alti segreti
Di Natura, e del Cielo? e non sia cosa,
Che si nasconda a l’intelletto nostro?

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Tir.Certo sì: Coridon poi che da i bruti
Ci distingue il sapere;
E per la conoscenza al sommo Giove
Quasi veniamo eguali.
Cor.O Tirsi, ancor che le ricchezze, e ’l senno
Sien gran doni stimati, non son tali,
Però, che co’ diletti
D’Amor vadan del pari;
Non hai sentito dire
Al vecchio Melibeo, che ’l Pastor Frigio
Negò di dar l’aurato pomo a Palla,
Ancor che saggia, & a Giunon regina,
Sol per donarlo a Venere amorosa?
Saggio, che più prezzò di bella Donna,
Gli abbracciamenti, e l’amorose gioie,
Che ’l profondo saper, che le ricchezze.
Tir.Io hò fin quì creduto, che la caccia
Fusse d’ogni piacer, piacer più dolce;
E, s’alcuno sentia, che ragionasse
D’altri diletti, io la fuggiva, poco
Stimando’l saggio; e questa è la cagione,
Ch’io mai non posi mente
Al saggio ragionar di Melibeo:
E finalmente hò fin ad hor creduto,
Ch’Amor fusse la peste de’ mortali,
E non credea ch’alcuna gioia fusse,
O nel volto, ò nel sen di bella Ninfa:
Ma ’l tuo parlar è sì soave, e dolce,
Che ’l mio core ostinato alquanto molce.

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Cor.Tirsi, tanta dolcezza Amore hà posto
Ne le Ninfe leggiadre, che colui
Si può chiamar tre volte fortunato,
Se fatto amante alcuna ne possiede.
E credi, che color, che son chiamati
A un tanto bene, il suo celeste seggio
Non invidiano a Giove:
Amor mai non apporta
Danno alcuno a i mortali,
E sappi Tirsi.
Che per lui solo è così cara a l’huomo
La Donna; e chi lei fugge, ancora fugge
Di se la più pregiata, e nobil parte.
Tir.E non può dunque l’huom senza la donna
Al mondo mantenersi?
Cor.                                        Tanto l’huomo
Può viver senza lei, quant’ella puote
Senza l’huom sostener sua fragil vita.
E così dolce, e cara,
Questa dal Ciel donata compagnia,
E sì soave è ’l maritale ardore,
Ch’insieme la mantiene,
Che l’un privo de l’altro,
O non vive, ò mal vive;
Che più? Sentano ancor le piante istesse
D’Amor l’alta possanza;
Ma perche Amor non cresce
Senza la sua pregiata compagnia,
Tutte le piante, che son senza il maschio
Over senza la femina, son tardi:

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Ciò chiaro mostra l’Edera, e ’l Cipresso,
E l’Amandola sola poco frutta:
La Palma senza il maschio suo non genera,
Ma se vicine son, l’una si piega
Con natural amor verso la cara
Sua dolce compagnia;
E fanno a gara il frutto: le ritorte
Viti s’abbraccian volontieri à l’Olmo,
E al Pioppo suoi cari mariti; il Mirto
Ama la bianca Oliva;
Gli augei s’amano anch’essi, ama il colombo
La sua cara colomba, e così gli altri.
In somma il Mar, la Terra, e ’l Ciel son pieni
D’Amore Età non fù, non fù mai sesso,
Che senza Amor si fusse.
Ogn’animale, e con ragione, e senza,
Per fruir le dolcezze
D’Amor, ardito sprezza ogni periglio,
E manifesta morte non ricusa.
Ama dunque tu ancor, prova di quanto
Contento sia l’amar Ninfa, che t’ami;
E con lei gire à queste valli intorno,
Cogliendo fiori, e tesserne ghirlande,
E quanti fiori han le ghirlande inteste,
Tanti baci a lei dare,
E da lei tanti haverne.
Prova di quanta gioia sia ’l vedersi
Da leggiadretta man cinger le tempie
Di vaga ghirlandetta;

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Deh prova un poco di qual gioia sia
Sedersi a l’ombra de i fioriti poggi,
Cantando hor gli occhi, hor le dorate chiome
Di bella Ninfa, e far sonar le sponde
Del suo bel nome, e come dolce sia,
Ch’ella interrompa le parole spesso
Con cari, e dolci baci:
Prova, deh prova, di qual gaudio sia
Trovarsi in Antro di fresch’ombre grato,
Allhor che ’l Sol co’ suoi cocenti raggi
Arde la terra, in grembo a vaga Ninfa.
E dolce canti, amorosotti versi
Per allettarti al sonno,
Scacciando in tanto l’importuna mosca,
Indi trahendo dal suo bianco seno,
E da le treccie d’or, novelli fiori,
Coronate ne faccia;
E con un bianco velo,
Mentre soave dormi,
Hor t’asciughi la fronte, hor scuota l’aure:
Fin che desto in compagnia n’andiate
Al fortunato albergo,
Trahendo le notturne hore felici;
Poi co ’l nascente giorno
Far a i dolci piacer nuovo ritorno.
Tir.Se ben mi pare una incredibil cosa,
Che quel, che tu racconti,
Sia di tanto contento: nondimeno
Provo qualche piacer ne l’ascoltarti;

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Dì dunque, s’altro a dire in ciò resta.
Cor.Credi, o mio Tirsi, che non è contento,
Che si possa uguagliare a quel diletto,
A quella gran dolcezza, a quella gioia,
Che provano gli Amanti, allhor, che senza
Sospetto, e gelosia,
S’aman l’un l’altro. Tacerò del gaudio,
Ch’essi nel cominciar provano, mentre
Và crescendo d’Amor la bella fiamma.
Tacerò quel piacer, ben che sia immenso,
Che si sente bevendo per le luci
L’anima di chi s’ama; e taccio ancora
Quel diletto, che mandano l’orecchie
Al cor, sentendo amata voce, e chiara.
Lascio in disparte l’accoglienze grate,
Le lusinghe, i favori, i vezzi, i doni,
Et assai più de i doni, i frutti cari,
E aggiunger man sì dolcemente à manno,
E mill’altri contenti; e dirò solo
Di quel dolce piacer, che non ha meta,
Di quel piacer, quando gli amanti, e sposi,
Dopo qualche sospiro, e qualche stilla
Di lagrimette, sopra l’herbe, e i fiori
Sicuri stanno, od in spelonca opaca,
Dei diletti d’Amore
Segretaria fedele,
E che senza timor, senza rispetto
Mostra ciascuno a l’altro il core aperto;
E svelati i pensieri, e le passate

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Pene van rimembrando, e per la gioia
Del ben presente ogni dolor s’oblia;
E se d’amaritudine, e d’affanno
Piansero un tempo, hor bagna il viso, e ’l seno
Di lagrime ciascun, per la dolcezza
De i loro amori. O quanto è poi soave
Quel mormorar, che fan con bassa voce,
Quel sussurrar, quei baci, hor dati, hor tolti,
Quel affissar nelle due luci amate,
L’inamorate luci,
Sopra humana
Se non da chi lo prova, o quanto sono
Miseri quei Pastori, e quelle Ninfe,
Che non provan d’amor l’alte dolcezze;
Dunque non è felicitade al mondo
Maggior di quella di due cori amanti,
Cui marital’amor lega, e congiunge.
Tir.Deh non seguir più oltre.
Che m’hai tanto ammollito
Il duro cor, ch’io non son piu qual fui,
Anzi ardo di desio di farmi servo
Di gratiosa, Ninfa;
Cor.O te felice quattro volte, e sei,
Se sei disposto a sì lodata impresa.
Ma voglio homai partirmi,
Per ritrovar la mia leggiadra Nisa,
Laqual dovunque và col bianco piede
Nascer fa gigli, e rose;
Nisa mia vaga, e bella.

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A l’apparir de’ cui begl’occhi ardenti,
Si fermano i torrenti,
Fan letitia le valli, e i colli, e i prati:
Nisa, che non è, sol, che di splendore
L’uguagli, e non è fior, che di bellezza
La vinca; hor dunque tu rimanti in pace.
Tir.Vanne lieto, e felice;
Egl’è pur vero, e non lo credo a pena,
Che l’accorto parlar di Coridone
M’hà svegliata la mente, che sopita
E stata in fin ad hor; ma che beltade
E questa? che splendor gli occhi m’abbaglia?



SCENA TERZA.

Mirtilla Ninfa, e Tirsi Pastore.


Mir.
M
Isera non sò dove

Mi guidi la mia sorte, io mi raggiro,
Come incantato serpe, che s’affanna
Per non andar là, dove
Magico verso il tira.
Può esser mai, che, se ’l crudel Uranio
Sapesse, come io vivo,
Misera, ò per dir meglio,
Come per lui mi moro,
Mi lasciasse morire? ahi, che se ’l vede
Pur troppo, e non me ’l crede.
Tir.Voglio tentar, se mi vien dato in sorte

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Di seco ragionar. il Ciel ti salvi
Bella Ninfa, splendor di queste selve.
Mir.Ben venuto Pastor, qual tu ti sia.
Tir.Tirsi son’io del dotto Alcimedonte
Già figlio, e di Licori, ch’anzi tempo
Se n’andar lieti a più tranquilla vita,
Lasciando me d’ampie ricchezze herede:
Che quanta greggia in Aracinto pasce
E tutta mia, che numerosa è tanto,
Che annoverarla occhio mortal non puote:
E presso ad Erimanto in mille prati
Mi pasce, e custodisce Alfesibeo
Un fortunato Armento, onde giamai
Novello, non mi manca, e fresco latte.
E se t’aggrada di saper, quant’io
Agile sia, leggiadra Ninfa, sappi,
Che sì destro Pastor, nè sì veloce,
(Nè parlo cosa ignota) alcun non vive,
Che nel corso m’agguagli, ò ne la Lotta,
O nel lanciare il Palo, ò vibrar Dardo,
O con l’Arco ferir selvaggia fiera,
O scagliar con la fromba i gravi sassi,
Io canto, come già cantava Mopso,
Il cui nome ancor vive per le selve,
E tra le Ninfe, e tra i Pastori è chiaro;
E quella Cetra, che ’l mio caro padre
Lasciommi, tocco sì soavemente,
Che lascian le Napee, lascian le Naiadi
Spesso i lor seggi, e liete al suon ne vengono

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Con humidetto piè danzando a gara.
Hor tu non mi sprezzar Ninfa gentile,
Gradisci questo cor, che per te sola
Già tutto è pieno d’amoroso foco;
E se Giove tonante, e gli altri Dei
Prezzano le primitie de’ Pastori,
Anco tu prezzar dei, mortal mia Dea,
Le primitie del cor, ch’io ti consacro.
Mir.Comprendo dal tuo dir, gentil Pastore,
Come tu sei d’Amor nuovo seguace:
Onde non dei saper, che, dove Amore
Una volta ferisce, a questa piaga
Morte è sol medicina. hor sappi, ch’io
Amo, & osservo Uranio tanto crudo,
(Misera) quanto bello; e chi volesse
La bella imagin sua trarmi dal petto,
Bisogneria, ch’egli potesse ancora
Trar le stelle dal Ciel, levar la chiara
Luce del Sole, e rischiarar la notte.
Onde accettar da te quelle primitie,
Che donar mi vorresti, Amor mi toglie;
Dunque lascia Mirtilla, & altra segui.
Tir.Mirtilla anima mia, che tanto merti,
S’Uranio non apprezza l’amor tuo,
Donalo à me, che a me sarà più caro,
Che non è questa vita.
Mir.Vera serva d’Amore
Non può donar se non a un solo il core.
Tir.Sollo; ma se gradito da colui,

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A cui donato fù, non viene il dono,
Non torna in libertà, come era prima,
Del donator il dono?
E se ben rifiutata,
Sarà la gratia tua; nondimen’io
Accetterolla volentieri, o bella,
E gratiosa Ninfa, e se per tuo
M’accetti, tu vedrai per l’allegrezza
Danzar la greggia mia,
E saltellar il mio cornuto Armento.
Mir.Quando del dono mio fusse avvenuto
Quel, che mi narri, all’hor potrei concederti
La gratia, che mi chiedi, ma saprai,
Ch’Uranio volentier accettò in dono
L’arso mio cor, non già per conservarlo
Nel suo candido seno, ma per farne
Crudelissimo stratio; e s’egli tiene,
Giusto è ben, che à lui solo
Mi volga, e lui sol ami; e s’io volessi
Amarte, non potrei di core amarti,
Poi che priva ne sono.
Tir.Mirtilla, morte mia non dirò vita,
Patirai ch’io languisca
Sol per amarti al par de gli occhi miei?
Non sai tu, ch’è proverbio da Natura
Dettato, Ama chi t’ama?
Mir.Ahi, s’ogni amato riamar dovesse,
Per natural costume, io non sarei
Come tu vedi afflitta, e mal contenta;

[p. 45v modifica]

Ben mi duol del tuo mal, ch’io sò per prova
Quant’è infelice, e misero l’amante,
Che non è riamato;
Ma sappi, ch’altro oggetto,
Non piace a gli occhi miei, che ’l vago Uranio,
Uranio è, che tien sol l’anima mia,
Ed ella altro ricetto,
Nè più soave carcere desia.
E perche m’è di noia ogn’altra vista,
Da te mi parto, e vò cercando lui.
Tir.Deh chi mi toglie di mirar, ahi lasso,
La serena beltà? chi mi disgiunge
Dal mio bel Sole, e chi me ’l toglie, e fura?
Dunque mirar colei più non debb’io,
Che sola mi può far lieto, e felice?
Ahi com’aspra, e pungente
N’è stata, anima mia, la tua partita.
O fugitiva Ninfa, aspetta almeno
Tanto, che come Dea t’adori, poi
Che sdegni, come Ninfa esser amata.
Hor sì, che con mio duol conosco, e provo
Quanto sia grande l’amorosa forza:
E non è cosa in terra,
Che non ceda ad Amore;
Ma vò seguir colei, ch’al suo partire,
S’hà portato con se anima mia.



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SCENA QUARTA.

Ardelia Ninfa.


Ard.
I
L caldo estivo, e la fugace fiera,

M’hà fatta più del solito vermiglia;
E le chiome, che prima erano asciutte,
Humide del sudor si son già fatte,
Et aride le labra; onde fia meglio,
Ch’a questa fonte io mi rinfreschi alquanto,
Ma che veggio? che miro
Nel liquido christallo?
Leggiadra Ninfa, anzi leggiadra Dea,
Salvi la tua beltà mai sempre il Cielo,
Donde cred’io che scendi; i mi t’inchino
Co’l ginocchio, e co’l core,
E per mia Dea t’accetto.
Veggio pur, che cortese al mio saluto,
O rispond’ella, ò di risponder mostra,
E pur com’io move le labra, e ’l capo
China al chinar del mio,
Ma l’armonia non sento
De la sua voce; hor vò tacere, e mentre
Taccio, concedi à me, cortese Diva,
Ch’io senta le tue care, alme parole;
Ohime, s’io taccio, & ella tace, e s’io
Mostro d’haver desio, ch’ella ragioni,
Anch’ella di bramar mostra il medesmo;

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Ahime, ch’io sento già ne l’alma acceso
Un focoso desio di possedere
Le celeste beltà, ch’in darno io miro;
O pura, e chiara Fonte,
Chi è costei, che nel tuo sen soggiorna,
Da me non più veduta? che me stessa
A me medesma hà tolta? e m’hà rubata
La cara libertà, con cui solea
Girne sì altera, e lieta? onde tu sei
Nata, per cagionar la morte mia:
Onde ben credo, che l’origin hai
Da Flegetonte, poi che per tua colpa
Tutt’avvampar mi sento; ahi lassa, venni
Al fresco tuo per mitigar l’ardore
De l’assetate labra;
Ma tu sete più ardente,
M’hai posto in mezzo al core;
Ma tu, che in mezzo à l’acqua accendi il foco,
Non dispregiar la mia sincera fede,
E l’amor mio, poi che per farne acquisto
Mille amanti piangendo mi seguiro.
Deh vita mia, poi che non vuol Natura,
Che viver teco in cotest’onde io possa,
Vieni tu meco à dimorarti almeno,
Deh giungi la tua mano à la mia mano,
Con ch’io t’aiuterò, perche tu ancora
Aiutime, cor mio;
Ella stende la mano, o me felice,
Hor sì ch’io son contenta,

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Vieni, vieni mia speme,
O mio vano pensiero,
Amo un’ombra, & un’ombra in van desio.
O piagge, o colli, o boschi, o selve, o valli,
Vedeste mai, udiste mai, che Ninfa
Provasse più di me, dolente sorte?
O dura acerba sorte,
Avvampo, & ardo di me stessa, e solo
Posseder bramo, quel che più posseggo.
O meraviglia, io sentirei men doglia,
Se la bramata imago
Mi fusse più lontana, hor come mai
Potrò, se ben hò meco il mio contento,
Accostar questa mia con la sua bocca?
Quello, che più desio, vien sempre meco;
Nè fuggir il potrei, se ben volessi.
Ahime, che la mia pace
Mi fà continua guerra,
E la soverchia copia
Mi fa d’ogni piacer provar inopia,
Troppo à quest’occhi piaccion gli occhi miei,
E ’l proprio viso, e ’l proprio seno, e troppo,
Ah finalmente à me medesma piaccio:
E, s’io vò far vendetta
Di chi m’offende, incrudelir conviemmi
Contra me sola; o sventurato Amore.
Occhi, d’ogni mio mal vera cagione,
Calde, & amare lagrime versate
Per giusta emmenda de l’ingiusto foco,

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Che sol con la vostr’esca al cor s’accese
Ahime, ahime, che per maggior mia doglia,
Mentre piango il mio male, il pianto istesso
E del mio mal ministro,
Poi che turbando l’acqua,
Mi toglie di goder di me medesma.
Voglio dunque partirmi
Per dar tempo a quest’onde, che ritornino
Tranquille, come prima; ond’io di nuovo
Possa goder di rimirar me stessa.
Almen potessi in te lasciare, o Fonte,
Ben Fonte del mio mal tanto mio foco,
Si come (ahi lassa) in te lo ritrovai:
Ohime, che nel partire, io porto meco
Incendio tal, che l’onda, ove egli nacque,
Estinguer no’l potria;
Ma spero, che sì come ho rinovato
Di Narciso infelice il crudo scempio,
Così à guisa di lui debba
Dar fine al mio dolor con la mia morte.


Fine del Quarto Atto.