Mirtilla/Atto quinto

Atto quinto

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Atto quarto


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ATTO QUINTO.

SCENA PRIMA.

Mirtilla Ninfa, e Tirsi Pastore.


Mir.
D
Ovresti homai cessar di darmi noia,

Poi ch’io non hò pensier, che di te pensi,
Hor datti pace, che più tosto voglio
Lasciar questa mia vita, s’è pur mia,
Che lasciar di seguire Uranio mio.
Tir.Tu forse d’esser mia Ninfa mi neghi,
Credendo, che di boschi, ò di caverne
Habitator io sia? ma tu t’inganni,
Se questo credi; habitator son’io
Di sì fecondo, e fortunato loco,
E così amico al Ciel, che neve, ò ghiaccio
Mai non l’offende, e mai rabbiosi venti
Non gli fan guerra: aura benigna, e dolce
Sol vi spira di zefiro, che vita
Porge à le piante, à gli animali, à l’erbe
Sempre verdi, e fiorite, e manda il colle
Odor soave, e più soave il piano
Di serpillo, e di menta,
E di gigli, e di croco, e di viole,
Quivi sempre vedrai l’Ape ingegnosa
Libar da i vaghi fiori,

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Le matutine sue care dolcezze;
Quivi d’ogni stagion pendono i rami
Carchi di frutti, e di bei fiori adorni;
Quivi sono d’argento,
E di puri christalli i fiumi, e i fonti;
Ne trà i fior, nè tra l’erbe
Si cela angue maligno,
E non infettan le campagne, e i prati
Di mortifero succo l’aconito,
O la cicuta; ne pungenti ortiche,
Lappole, ò pruni, ò d’altre erbe infelici,
Sorgono trà i fecondi, e lieti campi;
Quivi, bella Mirtilla, all’hor, che ’l Sole
E piu cocente, ragionando meco,
O cantando, ò posando in grembo à l’erbe
Potrai startene à l’ombra, e di bei fiori
Tesser ghirlanda à le tue chiome d’oro.
Poscia nel vicin fonte
Mirar quanto sei bella; ed io fra tanto
Ne le tenere scorce
De crescenti arbuscelli
Scriverò ’l tuo bel nome,
E ’l mio co’l tuo leggiadramente avvinto;
E dirò lor, crescete,
E creschino con voi gli Amori nostri;
E poscia al suon d’una palustre canna
Canterò ’l tuo bel viso,
E farò risonar fin à le stelle
La tua beltade, e la mia lieta sorte;

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Eh piegati, Mirtilla,
Forse non sai quel, che ti serbo in dono,
Una coppa di Faggio; ove nel fondo
Vedrai sculto un gran Monte, che le stelle
Par che sostenga, e sopra l’alto dorso
Di lui starsi la Luna
In atto di lasciva,
E boscareccia Ninfa,
Che, lasciato in disparte il suo bel carro,
Co’l so vezzoso Endimion si posa,
E con la bianca mano
Tonde a le pecorelle il folto manto.
Poi bacia il caro amico, evvi in disparte
Pan, ch’esce d’una selva ivi vicina,
E di sdegno avvampando a lei rivolto,
Par che sciolga la lingua in questi accenti,
Ben del nome di Diva indigna sei,
Poi ch’un vil Pastorel t’induce, ah rea,
A dispregiar un Dio così famoso;
E ben veggio hor, che sei
Mutabile di cor, come d’aspetto,
Perfida, e sol nel variar, costante:
E tu vedrai, che l’arte
Hà formate sì ben queste figure,
Che la vista non sol resta ingannata;
Ma vi s’inganna ancor l’Udito, alquale
Sembra quasi d’udir, quel che non ode:
E ti giuro, mia vita, che per questa
Mi volse dare Alcon già due vitelli,

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Che non haveano ancor giogo sentito.
Mir.Non sarà vero mai,
Che in me possino i doni
Quel, che ragion non vuole,
Che possino d’amante i caldi preghi;
Che con amore, il vero amor si compra,
E non con doni; ti ringratio adunque,
E ti prego per Dio, che homai tu lasci
Cotesta tua sì vana, e pazza impresa.
E, se meglio aggradire
Mi vuoi, partiti homai.
Tir.Voglio del tuo voler far a me stesso
Severissima legge, e partir voglio,
E vò lasciar l’impresa;
Ma vò con quella anco lasciar la vita:
Resta crudel più, che le fiere, fiera.
Mir.Può esser, ch’ei se’n vada
Disposto a far di se quel, che minaccia?
Pur troppo sarà vero;
E tu comporterai
D’essere altrui di volontaria morte
Cagion Mirtilla? sei sì cruda? ahi mira
Quel, che tu fai? ma forse egli s’infinge?
Può esser, ma no’l credo,
Nè sò perche no’l creda; ma no’l credo,
E me ne vien pietade,
Misero, e vò seguirlo, e, s’esser puote,
Lui trar da cruda morte, e me d’infamia.



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SCENA SECONDA.

Igilio Pastore.


Igi.
N
E d’acqua il vasto Mar, nè di rugiada

La stridula Cicala, nè di Timo
La sussurrante Pecchia,
Nè di Citiso l’avida Capretta,
Nè ’l crudo Amor di lagrime si satia.
Crud’Amor, ben veggh’io, che’l fin dolente
Brami de la mia vita,
Poi che Fillide bella; ond’io mi vivo,
Fai sì dura al mio pianto, e sì sdegnosa
Rendi, e sì sorda a le dolenti note.
Darò dunque morendo
Fin’al mio mal, che non hà fin vivendo;
Tu ferro, che scrivessi
Sì spesso il nome di colei, che adoro,
E la mia pura fè seco notasti
In queste verdi piante, in cui crescendo,
Cresciuto è con l’amor la pena mia,
Hoggi nel seno mio sarai nascosto.
Dunque senza timore, ardita mano,
Ferisci, ove ferì crudel Amore:
Sciogli quest’alma homai dal più dolente
Corpo, che la Natura unqua formasse;
Ma, pria che gli occhi al sono eterno i chiuda
Vò co’l medesmo ferro
Scritto lasciar in questa verde pianta
Della mia vita il miserabil fine;
Acciò che d’una in altra lingua entrando,

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E d’una in altra orecchia,
Venga a notizia della mia crudele,
Ed empia Filli. ah perche mia la chiamo?
Poi che non vuole Amor, ch’ella sia mia?
E se per queste selve
Tanto vivrà della mia morte il grido,
Ch’ella l’invidia, i non hò dubbio alcuno,
Che morte non impetri dà begl’occhi
Qualche cortese lagrimetta, ò qualche
Caldo sospir, che fu negato in vita.
Aventurosa Morte,
Poi che tu sola havrai
Quel, che mia viva fè non hebbe mai.



SCENA TERZA.

Filli Ninfa, e Igilio Pastore.


Fill.
H
Or non è questo Igilio? egli è pur desso,

Che vorrà far di quel coltello ignudo?
Udir il voglio attentamente, e insieme
Osservar quel, che d’esseguir dispone.
Igi.Aria, Ciel, Terra, & Acqua,
E voi Lampade eterne
Del giorno, e della notte,
Siate benigni a questa verde pianta,
Acciò che nel suo tronco eternamente
Gli ultimi accenti miei restino impressi.
E voi, versi dolenti,
S’alcun cortese peregrin bramasse
Saper il duro fin della mia vita:
Così fatel palese;

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QUI GIACE IL FIDO IGILIO,
Che Filli amando hebbe sì dura sorte,
Che per lei corse a volontaria morte.
Fill.O parole, che i sassi
Potrebbono ammollire.
Igi.Intorno al primo ufficio, ardita destra.
Hai fatto ciò, che far doveasi; adempi
Hora il secondo estremo
Crudelissimo ufficio,
In un pietoso, e dispietato ufficio.
Fill.Ferma Igilio, non fare.
Igi.                                           Ahi chi mi tiene?
Fill.Son’io, non mi conosci?
Igi.                                           A dispietata,
Tu voi, ch’io viva per farmi morire
Di doppia morte in vita?
Fill. Per darti non la morte, ma la vita
Lieta, come tu brami,
M’hà qui condotta Amore,
Sarei ben di Macigno, se, veduta
Di te sì salda prova, i non volessi
Cangiar pensiero, voglia; io mi ti dono,
Togliendomi a colui, che indegnamente
Mi tenne un tempo in duri lacci avvolta.
Igi.Occhi miei, che vedete?
Orecchie mie, che udite? son’io desto,
O pur è questo un sogno?
Fill.S’à gli occhi tuoi non credi, & a le orecchie,
Almen credi a le mani, che sì stretta
Mi tengano, che mai sì strettamente
Alcuna pianta l’Edera non cinse,

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A te, che sei tutto il mio bene, Igilio,
Io, che son Filli tua, venuta sono
Per farti a pien dell’amor mio contento.
Igi.O giorno più d’ogn’altro
Per me felice, o fortunato giorno,
Poi che in un punto hoggi due vite acquisto;
Ma vita mia (se mia pur dir lice)
Dopo tante fatiche, e tanti affanni,
Per te sofferti, dammi
Segno più saldo, e certo
Della novella tua fiamma amorosa.
Fill.Hor poi, che l’alma mia,
Che nella sommità di questa lingua
Venuta teco parla,
Non ti può far de la mia fede, fede,
Eccoti la mia mano,
Per più sicuro pegno.
Igi.O bella, e bianca mano,
Ben mi trahi dall’Abisso, e poni in Cielo:
Hor pur ti tengo, e dolcemente stringo;
Ma vientene, cor mio, ch’à i miei compagni
Vò palesar le mie liete venture,
Quanto sperate men, tanto più care.
Fill.Andiam, dove ti piace.



SCENA QUARTA.

Uranio Pastore.


D
A chi mi segue, Amor, fuggir mi fai,

E seguir, chi mi fugge;
Dura legge d’Amore,

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S’è pur legge d’Amor l’esser crudele;
Ma ecco quella, che co’ suoi begl’occhi
Di questi hà fatto un fonte,

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E del mio petto una fucina ardente.
Vò quì pormi in agguato per udire
Ciò: ch’ella dice, e s’è pentita ancora
D’usarmi crudeltade.



SCENA QUINTA.

Ardelia Ninfa, Uranio Pastore.


Ard.
P
UR son astretta di tornar quì, dove

Perdei me stessa, o cruda sorte, o sola
Cagion de’ dolor miei,
Non ti dispiaccia, ch’affissando gl’occhi
Nel tuo tranquillo seno, io goda alquanto
Di mirar me medesma, e se turbassi
La tua tranquillità co’l pianto mio,
Scusimi appresso à te l’alto desire,
Che di goder me stessa il cor mi punge.
Ura.Sò pur, ch’io non m’inganno, questa è pure
La dispietata Ardelia, che si strugge
Di se medesima; ò strana meraviglia,
O degna pena di beltà superba,
O d’Amor incredibile possanza;
Voglio accostarmi à lei, sol per udire
S’ella hà imparato ancora
A mostrarsi men cruda.
Ecco, Ardelia superba, e dispietata.

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Tu provi pur ne le tue pene homai,
Quali sien le mie pene,
E quali sien del grand’Amor le forze.
Ard.Conoscol [t]roppo, e ’l mio fallir confesso,
E ben posso far fede ad ogni gente
Del sommo suo potere:
Ma, se far mi voleva à un tempo amante,
Divenir ed amata, ei pur dovea
Amante farmi de l’amante mio,
E non di me medesma; poi ch’altrui
Sì poco, e nulla à me giovar [p]oss’io,
Me stessa amando.
Ura.                                   Questo è del tuo falo
Degno castigo; ma se vuoi godere
Si te medesma, ama il tuo fido Uranio;
Però, che essendo ei per virtù d’Amore
In te cangiato, vita mia, ne segue,
Che me godendo, goderai te stessa;
Così le tue fatiche,
E l’amor tuo non fia gettato al vento.
E, poi che tu conosci l’error tuo,
Fanne debita emmenda, se non vuoi,
Che ’l Ciel teco si sdegni.
Si può, quando si vuole
Sgravarsi d’ogni colpa, e chi no’l face,
Chiede di se medesmo à i sommi Dei
Vendetta: piglia adunque il mio consiglio,
Non aspettar, che le dorate chiome
Si faccino d’argento, e che la fronte,

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Ch’ora si mostra spatiosa, e vaga,
Rugosa venghi; e la pulita guancia,
Ove ’l latte contende, e ’l sangue misto,

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S’increspi, e si scolori; e che l’avorio,
Che chiudi in bocca, il suo candor disperga,
E le purpurre rose de’ tuoi labri
Pallidette viole (ohime) diventino:
Non aspettar, Ardelia, che l’horribile,
Et inferma vecchiezza à te ne venga;
Non voler, vita mia, di tua beltade
Spendere inutilmente i giorni e l’hore,
Che, se tu aspetti, che ’l rapace Tempo
Adopri contro à te le forze sue,
Ben ti potrai pentir del tuo fallire;
Ma già rimediarvi non potrai,
E pentita dirai,
Perche a l’animo saggio non ritorna
La forza, e al corpo la bellezza, e gli anni
Floridi, e freschi? perche a me non torna
Quell’età, ch’assai può, ma vede poco?
Ma le parole, e i tuoi desir sariano
Sparsi per l’aria; e non è cosa nuova,
Ch’il pentirsi da sezzo nulla giova,
E de gli accorgimenti vani, e tardi
Si ride Giove: e tanto si disdice
L’esser serva d’Amor nella vecchiezza,
Quanto nemica nella giovenezza.
Ard.I tuoi consigli
Possano tanto in me, ch’io mi dispongo
Di mutar voglia, pria ch’io muti volto,
Hora mi toglio al falso, e al ver mi dono:
Amare il corpo voglio, e non più l’ombra

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Uranio a te mi dono, e mi consacro,
E voglio viver tua, e tua morire.
Ura.Ben mostri in questo punto d’esser Donna,
Poi ch’improviso ti sei consigliata
Di farmi tuo interamente; e certo,
Che il bel femineo sesso,
Trà molti, e molti doni,
Che ’l Cielo, e la Natura
Gli concesse, possiede anco il consiglio
Tanto più saggio, quanto men pensato.
O cara Ardelia mia, pur m’è concesso
Haverti per mia sposa;
Gratie vi rendo, ò sacre amiche stelle,
O fonte, che sorgendo scaturisti
Con l’onde tue la mia dolce salute,
Prego il Ciel, che ti doni in ricompensa
Di tanto mio contento, che giamai
Torbida non divenghi, e se non fusse,
Che ministra d’Amor sei stata, e duce,
Pregherei Giove, che la Dea triforme
In te per l’avvenir lavasse sempre
Le delicate sue pregiate membra;
Ma sdegnerebbe forse la sorella
Del Sol lavarsi in te, che la più bella
Ninfa, che la seguisse le hai levata.
Ard.Nò, nò, non sdegna Cinthia alcuna cosa,
Che gli levi le Ninfe, ancor, che care
Le tenga, pur che à fine honesto, e giusto
Condotte sien, non abborrisce Amore,

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Quando per accoppiarle in Matrimonio
L’infiamma di Pastor leggiadro, e bello;
Anzi ch’ella ne gode, conoscendo,
Che se d’honesto, e maritale Amore
Fosser prive le Ninfe, ella sarebbe
Priva di servitute: e nulla è Regno
Senz’haver serve, come à lei siam noi.
Ura.Rallegromi d’udir novella tale,
Poi che questo bel fonte,
Se non havrà quel ben, ch’io gli desio,
Almen non fia da lei per odio guasto.
E noi lieti, e sicuri goderemo
Vita lieta, e felice;
Ma vieni homai a la capanna mia,
Anzi a la tua, dove vedrai d’intorno
Il tuo bel nome scritto, e la mia doglia,
Et anco vedrai diverse cose,
Ch’io fabricai per te, quando sprezzandomi
Nulla accettar volesti, & hora voglio,
Che con la bella man le pigli, & anco
Che con lo schietto dito tu cancelli
Quelle meste parole, che già furo
Del mio grave dolor segno verace:
E che in vece di quelle, tu vi scriva
Queste brevi parole.
Uranio fù de gl’altri il più infelice,
Et hor, la mia mercede, è il più felice.
Ard.Farò quello, che vuoi; andiamo homai.
Ura.Andiamo Idolo mio.



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SCENA SESTA.

Tirsi Pastore, Mirtilla Ninfa.


Tir.
S
E ben di sdegno armata, hò pur di nuovo

La mia dolce nemica ritrovata,
Non però scema il mio desire ardente;
Anzi, che quanto più vietar mi veggio
L’amata vista sua, tanto più sento
Crescere in me la pertinace voglia.
Nè per repulso si rallenta il nodo,
Onde mi stringe Amore, e mi tormenta;
Ma come mai potrò senza il bel lume
De l’una, e l’altra luce viver, s’io
Altra vita non provo?
Ahi, che privo di lei, son di me privo,
E tal mi tiene Amore,
Acciò che senza fine
Sien le gravi mie pene,
Vorrò dunque patir di sostenere
Vita peggior di morte? ah non fia vero:
Fuggi fuggi, cor mio,
Quelle luci crudeli,
Onde t’uccide Amore
Amor, che cerca di novelle spoglie
Far sempre adorno il suo infiammato carro;
Fuggite occhi dolenti
L’aria homicida di quel viso, ch’io
Per mia sventura vidi.
Passi che sparsi fosti nel seguire
La fugace Mirtilla,

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Conducete me misero, e dolente
Sopra ’l più alto monte,
Che quì in Arcadia sia,
Acciò precipitando,
Ponga fine al mio duolo
Con un tormento solo;
Benche non è d’alcun tormento morte
Ad huomo travagliato, ma più tosto
Fine d’ogni travaglio; men’ vò adunque
A finir la mia vita acerba, e dura;
Poi ch’Amore, e Mirtilla
Braman la morte mia.
Mir.Chi cerca di morire
Per fuggir le miserie,
Che seco il mondo apporta
D’ogni viltade è pieno.
Non sai, che tempo, Amor, fede, e fermezza,
Non fanno vana mai l’altrui speranza?
Hò sentito, mio Tirsi tutto quello,
Che per troppo dolor dicevi, e come
Diffidando d’Amor, e di Mirtilla,
Volevi darti con il precipitio
Indegna morte; ma se pur tu vuoi
Precipitarti, io voglio,
Che questo seno mio sia il precipitato.
Tir.Quando havessi scoperto, che ’l mio amore
Se non ti fusse stato caro, almeno
Non ti fusse spiaciuto, allhor sarei
Degno d’esser codardo, e vil chiamato,

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Se per non sofferir qualche tormento
Havessi di morir determinato;
Ma ’l saper fermamente,
Che tu seguivi Uranio,
E l’intenderlo ancor dalla tua lingua,
E l’haver conosciuto anco per prova,
Che Amor de l’ardir mio s’era sdegnato,
Fur cagion; ch’io sprezzando questa vita,
Mi volea dar la morte;
Ma s’io volea morire
Per la tua crudeltade, è giusto ancora,
Che per la tua pietade io viva, e spiri:
E ben son lieto, e fortunato in terra,
Poscia, che la mia guerra è quì finita.
Cortese Amore, e pio,
Gratie ti rendo poi
Che non vuoi far di me più lungo stratio;
O mia bella Mirtilla,
Pur sei contenta al fine
D’aggradir la mia fede: e d’esser mia.
Mir.Tirsi vivi sicuro,
Ch’io non sarò mai d’altro,
Ma sono, e sarò tua mentre, ch’io viva.
Tir.O felice d’Amor stretto legame,
Che così presto indissolubilmente
Hai legate di noi le miglior parti:
Ma chi son questi, che ver noi ne vengono
Pieni di gioia, e festa? Uranio, Ardelia,
Igilio, e Filli, sono, o belle coppie,

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V’è Coridone ancor, hor dove vanno?



SCENA SETTIMA.

Uranio, Tirsi, Igilio, e Coridone Pastori.

Ardelia, Filli, e Mirtilla Ninfe.


Ura.
I
L Ciel ti salvi, Tirsi.

Tir.                                     Il ben venuto:
Uranio, ù vai con sì leggiadra schiera?
Ura.Di comune consenso
Venuti siamo al Tempio di Ciprigna,
Poi che, la sua mercede, e del suo figlio
Contenti, e lieti siamo,
E perche Amor non brama
Altra vittima, od altro sacrificio,
Che quel de’ nostri cori,
Lasciando gl’altri honori
A la sua bella madre;
A lei farem dovuto sacrificio,
E ringratiando lei, ringratiaremo
Il suo vezzoso figlio,
E tu, che sei di lui nuovo seguace,
Se ’l ver di te risuona,
Comincia ad adorarlo.
Tir.Per certo voglio farlo, e saggiamente
Ragioni, che honorando
Il figlio anco s’honora
Il padre, e così ancora
Honorando la madre il figlio honorasi:
Ond’io seguendo il tuo consiglio, voglio
Render gratie a la Dea del terzo Cielo:

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Poi, che la tua mercede,
Rimasto son contento, e fortunato.
Comincia Uranio, e noi poi seguiremo;
Ma ecco apunto Gorgo, che a noi viene
Carco di vettovaglia, vorrà forse
Anch’ei lodare Amore.



SCENA OTTAVA.

Gorgo, Uranio, Tirsi, Igilio, Coridone Pastori,

Ardelia, Mirtilla, Fillide Ninfe.


Gor.
H
Or vedi, hor vedi,

Che Damon potrà stare ad aspettarmi,
Son’ito a la capanna, & hò trovato
Appunto Alfesibeo, che un buon capretto
E sì grasso arrostiva,
Che stato son di prelibarne astretto
Cento soli bocconi, & ho bevuto
Sì ragionevolmente, ch’io mi sono
Addormentato alquanto,
E credo, che Damone
Dee morirsi di fame il poverello,
Io vò gire à trovarlo:
O che bella brigata, a Dio Pastori,
A Dio Ninfette.
Fill.                              Fermati balordo.
Gor.Perche m’ingiuri tu salvaticaccia?
Tocco pur le mie capre, e pur anch’esse
Vagliono qualche cosa:
Volger mi voglio à queste, che hanno viso
D’esser sì mansuete,

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Come son le mie pecore, o bellone
Lasciate, ch’io vi tocchi, o che manine
Pastose come lana, io vi prometto,
Che s’io stessi trà voi,
Andareste a ventura
Di farmi innamorare,
E, se per vostra sorte mi piaceste,
Vi vorrei presentare
Caprettini sì belli, e sì lascivi,
Come voi siete, Agnelli così bianchi,
Come le vostre mani, uva sì dolce,
Come le vostre labra,
Vitelle così morbide, e sì grasse,
Come appunto voi sete ghiotterelle.
Mir.In fin bisogna sempre, che ’l tuo detto
Si risolva in mangiare.
Gor.E ben, che te ne pare,
Non mi governo saviamente?
Mir.                                                       Certo,
Che secondo il tuo gusto ti governi
Da savio.
Ard.                    Orsù Mirtilla non guardare
A costui più.
Gor.                         Perche non son’io bello?
Ura.Gorgo volgiti, ascolta quel, ch’io dico.
Gor.Di pure, ch’io t’ascolto.
Ura.Noi di comune accordo
Render gratie vogliamo
A l’alma Dea d’Amore,
Sì che stà cheto, a se con noi ti piace
D’honorar questa Dea. noi te ne havremo
Obligo grande, oltre, che farai

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Il tuo dovere.
Gor.                           Hor via me ne contento;
Ma cominciate voi, perche seguire,
E imitar vi possa.
Ura.                                 Hor dunque ascolta,
Ch’io dò principio a quanto si conviene,
Poscia, che siamo al Tempio della Dea,
Queste purpure rose
Chiaro, e verace segno
Delle cocenti tue voglie amorose,
O bella Dea di Gnido,
Da l’amato lor nido
Tolsi stà mane, e riverente, e humile
A te consacro; hor non haver à vile
Il lieve don, ma con benigno core
Prendilo per mio amore.
Ard.Questa di vari fior vaga corona,
Ardelia humil ti dona,
Madre d’Amore, e Dea del terzo Cielo.
Poiche con divo zelo
Hai posto fine à le sue fiere voglie
Facendola d’Uranio amata moglie.
Igi.Questa verde mortella
A te, Venere bella,
Lieto consacro, poi che per me tutti
Morti sono i martiri
Le lagrime, e i sospiri
Che furono già della mia vita i frutti;
Prendila dunque homai
In testimon de’ miei passati guai.
Fill.Questa pura colomba

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Sì cara à te (se ’l ver tra noi rimbomba)
Con puro affetto, e pio
Qui ti consacro anch’io.
Tir.Questo sanguigno fiore
Che languendo si muore
E del tuo bello Adon l’imago asconde
Prendi trà queste fronde,
O vaga Citherea,
Più bella assai d’ogni celeste Dea.
Mir.Questo candido, e schietto
Velo, benigna Diva,
Da cui sempre deriva
Ogni gioia, e diletto
A te dono, per segno di mia fede
Candido sì ch’ogni candore eccede.
Cor.Questi vaghi fioretti
Ch’in un pratello adorno
La bella Nisa mia di sua man colse
A lo spuntar del giorno
Et à me dar li volse,
Riverente consacro
Al tuo bel simulacro,
Gor.Ancora, ch’io non habbia per costume
D’offerire al tuo Nume
Nondimeno pur voglio
Lieto, si come soglio
Donarti alcuna cosa
Non già mortella, o rosa
O d’altri vaghi fiori,

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Nè colomba, nè velo,
Sì come han fatto qui Ninfe, e Pastori
Per testimon del lor devoto zelo:
Ma ecco, ch’io vò darti
Cose migliori assai per ricrearti
Di Cerere, e di Bacco i frutti amati
Ti dono, perche i tuoi cari tesori
Senza questi sarian freddi, e gelati.
Et ecco, ch’io vò farne il saggio prima,
Acciò tu forse non facessi stima,
Che ci fosse mortifero veleno
Ma vò prima sedere à l’erbe in seno.
Igi.Sì, si siedieti pure, acciò che il vino
Vada comodamente al locco suo.
Tir.O come lo tracanna, pare appunto,
Che ’l vaso con il vino insieme ingoi
Gor.Hor mi par di star meglio
Ancora, che inaffiato
M’habbia à pena il palato
Ma ecco, che di nuovo
Torno à colmar il nappo
E come io ti promissi, pur te ’l dono.
Ma io mi vò partire
Venere bella, à Dio Pastori, à Dio
Ninfe, vi lascio, rimanete in pace
Ch’io vado à ritrovare il mio compagno,
Dove su l’erba fresca spiegheremo
Le comuni vivande
E quivi lietamente in gioia, e festa

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Tra noi le mangeremo, à Dio brigata.
Ura.Va pur à la buon’hora, Igilio. Tirsi
Coridone, Mirti[l]la, Ardelia, e Filli
Poscia, che sodisfatto habbiamo in parte
A ciò che si dovea, e poi che Febo
S’inchina à l’occidente
Meglio sarà, che à le pasnone case
Festeggiando trà noi ci riduciamo
Et ogn’anno in tal giorno
Mentre spirto haveremo
Voglio, che insieme tutti
Veniamo à far dovuti sacrificij
In questo loco, testimonio fido
Fra nostri lieti, e fortunati Amori
Preghiamo in tanto il Cielo
Che arrida sempre à questi ameni campi
E che Zefiro spiri eternamente
Fra questi verdi frondi
E la sua bella Flora ogn’hora infiori
Le valli, e i colli, e le campagne, e i prati
Ard.Non ritenga mai neve, ò ghiaccio algente
Il corso a i fiumi fuggitivi, e a i fonti
Ne giamai greggia con immondo piede
Turbi le lucid’onde
Sì, che ho chiare sue tranquille linfe
Specchio sien sempre à le più belle Ninfe.
Igi.Non si veghino mai selvagge fine
Per queste piagge amiche
Ma scorga sempre il duro Agricoltore

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Di Cerere ondeggiar le bionde chiome
Fill.Non turbi mai Giunon l’aria tranquilla
Nè con irata man folgore avventi
Giove trà noi, ne il suo fratel Nettuno
Il monte o ’l piano scuota
Ma conceda mai sempre la natura
E mova primavera à questo loco.
Tir.Non neghi Apollo i suoi lucenti rai
A questo almo paese,
Ma sia sempre fastoso, e sempre ameno,
Sempre di fior, sempre di frutti pieno.
Mir.Ne queste rive sien turbate mai
Dal furor d’Aquilone
Ma sia perpetuamente in questo loco
Fior, fronde, erbe, ombre antri, onde, aure soavi.
Cor.Andiam lodando Amore,
E la sua bella madre,
Poiche, la lor mercè, tante sventure
Hanno havuto felice, e lieto fine
E sia propitio sempre à questo sito
E i rossignuoli
Fra questi verdi rami
Temprino à prova lascivetti note
E con nove vaghezze
Cantin sempre d’Amor l’alte dolcezze.


IL FINE.