Mirtilla/Atto terzo
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ATTO TERZO.
SCENA PRIMA.
Satiro.
Quattro, è sei volte la candida Luna
Hà riempiute l’argentate corna,
Et altre tante l’ha scemate, e vote,
Dal dì, che la spietata, e cruda Filli,
Mi pose al collo l’amoroso giogo,
Filli, Filli, ben hai di sasso il core,
E di vento i pensieri, e più pungente
De le ortiche mi sei, Filli spietata,
Filli, che Filli ingrata,
Farò sempre sonar per questi monti,
Tu mi sei cruda, e se ben cruda sei,
Assai più del mio cor t’amo, cor mio;
E, se ’l ver non ti dico, io prego il Cielo
Che mi faccia morire innanzi à i tuoi
Begl’occhi, ch’io tant’amo.
Ma che mi giova, ohime: ch’io te lo giuri,
Se tu ’l mio dir non curi?
O mal gradito Amore, almen mi rendi
La cara libertà, che to m’hai tolta.
Hora fuggendo il caldo, i Pastorelli
Si stanno al rezzo, e la pasciuta greggia
Và ruminando l’erba, e gli augelletti
Cantano sopra i rami i loro amori;
E per le cave grotte,
Senza tosco i serpenti,
E senza ferità stanno le fiere,
E ne l’erboso fondo de correnti,
E fuggitivi fiumi,
Lieti, i tremuli pesci
Stanno; e sotto le piante
Scherzano à l’ombra le leggiadre Ninfe,
Co’ lascivi Silvani, e co’ Pastori.
E tu crudel, mi fuggi, e forse stanchi,
Nel seguir fiere fuggitive in caccia,
Le delicate tue tenere piante.
Dimmi, Ninfa, non men, che bella, folle,
Che giova sempre haver ne’ boschi il core?
Prendi riposo in queste braccia homai;
Ma tu forse disprezzi queste membra,
Perche robuste sono, horride, e dure?
Non sai, che questa è propria nostra dote?
E sì come voi Ninfe sete belle,
Quanto più delicate, così noi
Tanto più belli siam, quanto più ruvidi:
Nè sdegnar punto dei questi caprigni
Piedi, poi che con questi ogni veloce
Fiera trapasso; e, se le corna altere
Di questa altera fronte ti dispiacciono,
Sovvengati, che in ciel la vaga LUNA
Hà le corna ancor ella, e nondimeno
Fù caramente amata
Dal nostro Agreste, e semicapro Dio
Bacco hà le corna anch’egli, & Arianna
Arse de l’Amor suo, sprezzando ogn’altro.
Se ti spiace il rossor di queste guance,
Guarda ben mio, che pur l’stessa Luna
Rosseggia, quando in Oriente appare,
E quando vento à noi minaccia, il Sole
È rosso, quando parimente sorge
Dal Mare, e quando ancor nel Mar si tuffa:
S’anco ti spiace questo hirsuto pelo,
Sappi, dolce mio ben, ch’Alcide invitto
D’un’horrido Leon la pelle indosso
Porto sovente, e per lui Deianira,
Tutta avvampava d’amoroso foco.
Filli non mi sdegnar, vieni, che in dono
Havrai la testa, e le ramose corna
D’un vecchio Cervo, vieni, almo mio Sole,
Ma tu non curi i doni miei, nè curi,
Ch’io sia (lasso) per te, qual nebbia al vento;
Ma se non val l’amor, vaglia l’inganno.
Io voglio pormi dietro a quel cespuglio,
E s’ella à sorte, come è suo costume,
Rivolgerà per questo prato il piede,
Di queste braccia gli farò catena.
E, s’ella al mio voler non sarà presta,
Le farò mille oltraggi.
Nè sua bellezza voglio, che le giovi,
Nè gli alti gridi, ò ’l domandar mercede.
SCENA SECONDA.
Filli, e Satiro.
D’ogni grave castigo, non amando,
Chi ama me, no’l vego; ma che posso
Far’io, s’Amor non vuol, ch’io pensi, ò faccia
Se non quel, che à lui piace?
Crudel Amor, tu solo ogni sembiante
Vile, e schivo mi fai,
Fuor, che la bella imagine di lui.
Che fà questa mia vita amara; e dolce.
E ben conosco (ahi lassa) e ben m’aveggio,
Che la doglia, ch’io taccio,
E via maggior di quella,
Che con la lingua esprimo;
Ma rimedia cor mio, con la pietade,
Al mal, che tutto viene
Da la tua crudeltade.
Quanto meglio ti fia l’esser lodato
Per donator di vita,
Che l’esser biasimato
Per negator d’aita?
Che scusa puoi trovare in tua difesa,
Uranio mio, se forse non ti credi,
Che l’uccider altrui gran laude fia?
Io d’altro non ti prego,
Se non che ti rincresca del mio male?
E che tal’hora ascolti i miei lamenti.
Sat.Vè che giunsi, hor non potrai fuggire.
Fill.Ahime, ch’è quel, ch’io sento? chi mi tiene?
Chi mi fa violenza?
Sat. Ah dispietata,
Hor non ti gioverà l’esser crudele,
Nè l’adegnar nel corso
I più veloci venti,
Di quì non partirai, s’à le mie pene
Non dai qualche mercede.
E quando tu non voglia a l’arso core,
Dar qualche refrigerio, ingrata voglio
Nuda legarti à quella dura Quercia,
Ove con stratio finirai tua vita.
Fill.Mercede, ahime, mercede
Nume caprigno; ascolta
Prima le mie preghiere,
Deh, che gloria ti fia
Di vincer una Ninfa,
Ch’abbattuta è di già da tuoi begl’occhi;
Sat. Vedi come mi beffa, hor s’io m’adiro?
Fill.Io giuro per le tue robuste braccia,
E per la vaga tua cornuta fronte,
Ch’io non ti beffo; nè beffar ti voglio.
Sat.Dunque, Fillide, m’ami, e dar mi vuoi
Del mio fido servir premio condegno?
Fill.Io t’amo certo; e qual Ninfa ti vide
Giamai, che non ardesse? tu sei tale,
Che chi ti mira, e poi non t’ama, credo,
Che sia composto di Caucasea pietra.
Sat.E perche pazzerella
Taciuto hai questo, e mi ti sei mostrata
Spiacevole, e crudele.
Fill. Questo feci
Per far prova di te, dolce mia vita.
Sat.Che segno mi darai, che ciò sia vero,
E che ragioni il cor, come la lingua?
Fill.Se mi comandi, allhor potrai vedere,
Che da senno ti parlo, e troverai
Gli effetti assai maggiori,
Che non son parole, e le promesse.
Sat.Per questa prima volta,
Finger mio voglio assai modesto amante,
E d’un sol bacio pago,
Se ben d’altro son vago.
Da le dolci parole, alme, e gradite,
Assicurato, in libertà ti rendo,
Luce di queste luci, e per certezza
Di quel, che tu m’hai detto, un bacio chieggio
Da quella vermigliuzza, e bella bocca.
E, se la tua bontade mi concede,
Ch’io possa homai raccor lo spirto mio,
Sù quelle rose, ov’egli sempre alberga,
Mi sia più grato assai, che non mi fora
Il Nettare celeste.
Fill.Questa è per certo gran dimanda; e quanto
E di preggio maggior, tanto potrai
Conoscer meglio il desiderio, ch’io
Hò di servirti.
Sat. Io sò, ch'è gran dimanda
E certo, che più degno
Dono non puote havere
Da la sua cara Ninfa
Un fedel amator, ch’un dolce bacio.
Egli è tanto suave,
Che d’un dolce morire,
L’anima vaga ad incontrar se’n viene
Co’ dolci baci, e doppia vita acquista,
Mentre baciata bacia.
Fill.Dunque beata me, poi che concesso
Mi sarà tanto ben; ma, tu cor mio,
Concedimi sol questo, ch’io ti leghi
Le braccia, perche tu da la dolcezza,
Che sentirai baciandomi,
Tanto non mi stringessi,
Che contra la tua voglia,
Io di te, tu di me restassi privo.
Sat.Tu m’hai legato il core,e puoi ben’anco
Legarmi queste braccia; io mi contento.
Fill.Volgile al tergo, o felice legame;
Poi che t’è dato in sorte,
Di legar sì robuste, e belle braccia,
E tu, fronzuta pianta,
Ben ti puoi dir felice;
Poi che fermo terrai colui, che tiene
L’anima mia legata in sì bel nodo.
Sat.Non stringer così forte.
Fill. Datti pace
E soffri per un poco:
Perche quanto più stretto
Ti lego, tanto più sicuramente
Ti bacierò dipoi.
Sat. Orsù fa presto.
Fill.Ecco ch’io ho finito.
Sat. Adunque Filli,
Non differir le contentezze mie
Più lungamente, e tue;
E poi che m’hai legato così stretto,
Che scior non mi potrò per una scossa,
Concedimi quel ben, che tanto bramo;
Poi ch’io mi struggo, come Agnel per fascino,
Solo aspettando il desiato fine.
Fill.Certo, che far dimora piu non posso,
Nè voglio ad abbracciarti, e dolcemente
Bacciarti quelle labra delicate,
Che, se ben dritto stimo,
Vincono di dolcezza il mele Hibleo.
Sat. Hor che dirai tu all’hora,
Che provato l’havrai?
Fill. Ohime cosidera.
Sat.Orsù via dunque.
Fill. L’havrai tu per male?
Havrai schivo di me, dimmel ben mio?
Sat.Tu mi faresti dir qualche pazzia,
Hor come posso havere
Schivo di te, ch’al par de la mia vita
T’ho cara, & amo?
Fill. Tu sai, ch’l timore
E proprio de gli amanti, e non vorrei
In vece d’acquistarmi
La gratia tua, privarmene per sempre.
Sat.Ah non temer di quello,
Di che temer non dei.
Fill.Di questo mi rallegro; ma, cor mio,
Tu sei sì grande, ch’io non posso aggiungere
Al ben desiderato; & è bisogno,
Che con ambe le man m’appigli un tratto
A la tua bella barba:
In questo modo, china bene il capo.
Sat.Ohime fà piano, che ti pensi fare,
Tu mi strappi la barba; ferma, ferma.
Fill.Eccomi ferma; ma tu non ti muovere,
Acciò, ch’io possa darti mille baci:
O corna mie, voi mi feristi il core.
Sat.Ohime non far sì forte; non mi torcere
Il collo, ohime, da ver, che mi fai male.
Fill.Perdonami cor mio, ch’io non credeva
Di farti male; o che mammelle morbide.
Sat.Non pizzicar sì forte, ohime, non fare;
Fill.In fine non mi posso contenere
D’accarezzarti.
Sat. O che belle carezze.
Fill.Almen non ti sdegnar, vita mia cara.
Sat.Baciami presto, che farem la pace;
E, se tu non mi baci, voglio darti
Cattiva vita, e troverommi un’altra
Ninfa amorosa.
Fill. Chiudi quella bocca,
Se non vuoi, ch’io mi muoia di dolore.
Sat.Non dar sì forte, hora che insania è questa,
Che sempre mi fai male?
Fill. Ah discortese
Dimmi, ond’avvien, ch’ogni cosa t’offende
Di quel, ch’io fo? e pur n’è testimonio
Il ciel, che tutto vien da troppo Amore.
Sat.Ti sò dir, ch’io l’ho concia.
Fill. O che balordo.
Sat.Ella piange in disparte,
Per quanto posso imaginarmi.
Fill. Voglio,
Mostrar d’esser afflitta, ohime dolente,
A che son’io ridotta; l’Idol mio
Si sdegna, perche troppo l’accarezzo,
Che deggio dunque far? che far poss’io?
Sat.S’io non soccorro questa meschinella,
Di dolor certo finirà sua vita.
Filli, non t’attristar, facciam la pace;
E per segno di quella vieni homai
A baciare il tuo bene, e la tua vita:
Non pianger più che, che tu sola sarai
La mia vezzosa, vieni dunque, e baciami.
Fill.Ohime, par che lo spirto si rinfranchi
Alla dolce armonia delle tue voci;
E poi che mi reintegri
Nella tua gratia, e vuoi,
Ch’io baci quella cara, e dolce bocca.
Voglio prima mangiare
Un poco di Serpillo, e voglio ancora,
Che ti degni mangiare un ramuscello,
Acciò che i nostri fiati
Sieno più delicati.
Orsù lo piglio, & ecco, ch’io son prima
A farne il saggio, piglia il rimanente.
Sat.Dammelo, io son contento.
Fill.Che te ne pare?
Sat. Ohime, che cosa è questa
Cotanto amara? Temo che mi beffi,
E mi vadi schernendo, che Serpillo
E questo, che m’hai dato?
Fill. O malaccorto
Hor hai pur finalmente conosciuto,
Ch’io mi beffo di te qual Donna mai,
Ben che diforme, e vile si compiacque
D’amar sì mostruoso horrido aspetto?
Hor vedi, ch’io ti colsi, resta pure
Schernito, come merti, ch’io ti lascio.
Così volesse il Ciel, che fosti preda
D’Orsi rabbiosi, e d’affamati Lupi;
Perche innanzi mai più non mi venisse
Cotesta tua sì brutta, & à me tanto
Noiosa odiatissima sembianza.
Sat. Filli, Filli, ove vai? fermati, ascolta,
Slegami almeno, acciò ch’io non diventi
De l’altre, come te, spietate Ninfe
Scherzo, favola, e gioco.
Ohime, che non può fare
Femina risoluta d’ingannare?
Con quai lusinghe ohime, con quai parole
M’hà ridotto costei,
A lasciarmi legar le braccia, come
Già mi lasciai legar l’anima, e ’l core
Da le sciolte sue chiome.
SCENA TERZA.
Gorgo capraio, e Satiro.
Ch’io vado a la cappanna a tor del pane,
Del cacio, e delle pere, & altro ancora,
Per far vita serena, essendo ch’io
Altro diletto, che mangiar non provo,
Questi amanti vorrebbon farmi credere,
Che non è cosa al mondo di più gusto,
Nè di maggior contento, che l’amare,
Quand’altri è riamato; e tutto il giorno
M’intronano il cervello, e van dicendo,
Che non dovea concedermi Natura
Altro senso, che ’l Gusto;
Poi che solo son dato
Al mangiare, & al bere;
E che quel del vedere è dato a noi,
Non solo per veder l’alte bellezze
Del cielo, e della Terra;
Ma per veder ancora
La gran beltade di colei, che s’ama,
E per farli vedere,
Per gl’occhi aperto il core.
E dicon, che l’Udito
E cagion, che si sente
La soave armonia,
De l’amata Sirena,
Per cui non hanno invidia
A l’armonia celeste.
Vogliono ancor, che l’Odorato serva,
Non solo per goder de’ varij fiori
Di primavera; ma per goder anco
De gli odori soavi, e delicati,
Che spira il seno, e la dorata chioma
De le lor Ninfe; e seguono, che ’l Tatto
Ci diè Natura, per goder del molle,
E delicato sen di bella Donna,
Per cui si possa mantenere al mondo
L’humana prole; e non s’accorgon, ch’io
Meglio di lor dispenso quei tesori,
Che Natura cortese, e ’l Ciel mi diede;
Nè, come lor, la maledico mai:
Perche, s’avvien (sì come spesso avviene)
Ch’una amante si sdegni con l’amata,
Subito gl’occhi maledice, e piange,
Perche Natura non l’hà fatto cieco;
Perche se visto non havesse il bello
De la sua Ninfa, non l’havrebbe amata,
Se con parole altere ella lo scaccia,
Esser sordo vorrebbe, e maledice,
Perche non nacque tale, e s’ei non puote
Sentir quell’aura delicata, ch’egli
Dice, che spira la dorata chioma,
Vorrebbe non haver tal senso, prima,
Che restar privo del bramato odore;
S’egli non può fruire i dolci bacci
E giunger mano, à mano,
Il Gusto, e ’l Tatto parimente aborre.
E vaneggiando spesso,
Veggono il bene, e pur del mal son vaghi;
Quest’occhi son cagion, ch’io mi rallegro,
Mentre veggio gran copia di vivande;
E questo udito mi conforta, mentre
Odo spesso parlar d’empire il ventre.
De l’Odorato non ti parlo, avvenga,
Che qualhor sento il pretioso odore
De l’arosto fumante,
Io vò tutto in dolcezza.
Il Tatto è quello, che mi fa sentire
Sommo diletto, mentre i grassi Agnelli
Toccando vado, e le Vitelle, e dico
Queste sien buone all’appetito mio.
Ma che dirò del Gusto? ohime, non posso
Esprimerne parola, tanto e’l gaudio,
Ch’io sento, a pensar solo al gran piacere,
Che si prova nel bere, e nel mangiare,
Onde senza ragion mi van biasmando
Questi semplici amanti, poi ch’io spendo
In sì lodato, & utile esercitio
Tutte le dotti, che mi diè Natura.
Anzi ella stessa (s’è pur saggia) deve
Obligo havermi, poi ch’io m’affatico
Di mantenermi lungamente in vita,
Co’l mangiare, e co’l bere, e questi amanti,
Se sono amati, si consuman dietro
Alle lor Ninfe, nel servirle sempre;
O, se non sono amati, per dolore
Si dan la morte, onde nemici sono
Di loro stessi, e di Natura ancora;
Che lor non diè la vita, perche quella
Togliessero a se stessi in vari modi.
Ma poi che più giudicio hò io di loro,
Lieto me ’n vado à la capanna mia,
Per empir questo Zaino di vivande,
E questo vaso de liquor di Bacco;
Liquor suave, per cui sempre il core
Giubila, e lieto vive, il sangue brilla,
Gli occhi si rasserenano, le guance
Stan colorite, e si raddopian tutte
Le forze al corpo humano, hor dunque segue
Amor, chi vuole, che per me vò Cerere
Seguire, e Bacco, e i dolci frutti loro.
Sat.Cortese Agricoltor, se mai tempesta
Non guasti i tuoi bei campi, onde tu possa
Raccorne a i tempi la bramata messe,
Concedi à me dolente Semidio
Qualche pietosa a[ì]ta.
Gor. O poverello,
Qual tuo sì grave fallo
T’hà quì condotto?
Sat. Dispietato Amore,
E falsità di Ninfa: onde ti giuro
Per l’onde Stigia, che per l’avvenire,
Non sol non voglio amar piu Ninfa alcuna;
Ma tutte haverle in odio: e disprezzare
Quel trafurello Amor, che m’hà condotto
Con mio grave dolor, come tu vedi.
Ma slegami ti prego
Cortese Agricoltore, che le braccia
Mi dolgon sì, che poco più ne spasimo.
Gor.Vedi, che Gorgo è qui venuto a tempo?
Io ti scioglio le braccia, e così prego
Il Ciel, che ti disciolga da i legami
Di quel tristo fanciul, dal qual deriva,
Quant’hà di tristo il mondo.
Sat.Creder ben puoi, ch’io non vorrò piu mai
Seguir colui, che ’l mondo chiama Amore.
Poi che ’l suo dolce, altro non è che amaro.
Gor.Et io di nuovo à me medesmo giuro,
Di non voler giamai altro seguire,
Che di Bacco, e di Cerere i piaceri.
Sat.Fuggiam, fuggiamo Amore,
E la sua madre ancora,
Poi ch’essi d’ogni mal son la radice.
Gor.Seguiam, seguiam Lieo,
E Cerere, e Pomona:
Poi che per loro in festa, in gioco, e in canto,
Ogn’uno vive, si rallegra, e gode.
Sat.Andiam, ch’io vò donarti in ricompensa,
De l’havermi slegato,
Una gran pelle d’Orso, che l’altr’hieri
Mi diede un’huom selvaggio, con le corna
D’un Cervo, ch’egli havea
Ucciso di sua mano.
Gor. Io ti ringratio
Di questo dono, se tai cose fussero
Buone da satollarmi,
Forse l’accetterei.
Io se tu vuoi venire,
Alla capanna mia, ti darò altro,
Che pelle d’Orso, e che ramose corna,
Sat.Gorgo se tu non vuoi
Accettar questo dono, accetta almeno
Il buon animo mio; poi che non posso
Altro donarti.
Gor. Orsù non più parole;
Se tu vuoi venir meco, andiamo, ch’io
Mi muoio della fame, e sento il corpo,
Che si lamenta, e le budella fanno
Un gran romore, poi ch’io manco loro
Del solito tributo, voglio adunque
Di quì partirmi.
Sat. Andiamo, anch’io partire
Quinci dispongo, e fo, di non tornare,
Voto, mai più, dov’hebbi angoscia, e scorno;
E seguir voglio il mio compagno Bacco,
Bacco Signore, e Dio dell’allegrezza.
Gor.Andiamo adunque.
Sat. Andian fratello, andiamo.
SCENA QUARTA.
Filli, e Mirtilla Ninfe.
Che fusse stato il Sol privo di luce,
Che tu ti fussi al mio piacer opposta;
E mi volessi tor quella mercede,
Ch’al mio servir, ch’à l’amor mio conviensi.
Mir.Filli, quella mercè, di che tu parli,
Non è più tua, che mia.
Amo Uranio, tu ’l sai, & io no’l nego,
E tu l’ami, e no’l neghi; adunque è forza,
Che sia trà noi aspra discordia, e guerra,
Fill.Amor di compagnia non fù mai pago,
Come ben sai Mirtilla;
Dunque convien che l’una a l’altra ceda.
Mir.Orsù non piu contesa;
Non sai tu Filli, che parlato habbiamo
Della nostra querela
Con Opico d’ogn’altro il piu saputo?
Al cui saggio sapere
Habbiam rimesso ogni litigio nostro?
Et egli vuol, che ’l canto
Nostro, d’una di noi termini il pianto.
Fill.Non m’è di mente uscito,
Quant’egli ei commise, e maravigliomi,
Che tanto egli dimori
A venirci a trovar co’l suo stormento,
Tocco da lui con sì maestra mano,
Hor voglia il Ciel, che quando haveremo noi
Co’l suo suono accordato il nostro canto,
Egli accordi le nostre
Amorose contese.
Mir.Egli ci ha quì inviate, e non può molto
Tardare: eccolo appunto.
SCENA QUINTA.
Opico Pastore, Filli, e Mirtilla Ninfe.
Coppia, la cui beltade
Adorna queste selve, e questa etade,
Come le stelle il Ciel, le piagge i fiori.
Fill.Opico, il ben venuto.
Mir.Se troppo più tardavi,
Aspra trà noi nascea nuova contesa.
Opi.Perdonatemi Ninfe, che Selvaggio
Sì lungamente m’hà tenuto a bada:
Hor tra voi mi ponete
Amorosette Ninfe.
Fill. Eccoti posto
Opi.Così ringiovenisco, ò belle Ninfe,
Quanto invidio colui, per cui languite:
S’io fussi al par di lui giovine, e bello,
Vorrei prima morire,
Che mai farvi languire:
Ma tempo è, che s’adempia
Quanto habbiam, stabilito.
Hor vita rendete al suon concorde il canto:
Poi che noi siamo in sì bel loco a l’ombra,
Dove Flora tra i fiori
In braccio al suo marito si riposa;
Et ei per la dolcezza
Spira vento soave in queste fronde,
E ’l mormorar de l’onde
Farà tenore al suono
Di questo cavo legno.
Hor tu comincia Filli;
E poi segui Mirtilla;
Cantate dunque à prova,
Che ’l cantar a vicenda aman le Muse.
Fill.Dotta Calliopea,
Madre di quel buon Trace,
Ch’ogn’animal più fero, e più fugace,
Con la sonora voce a se trahea,
Inspira ò Diva, a questa voce mia
Soave melodia.
Mir.O de le Muse padre,
Vien hoggi nel mio canto, e nel mio core,
Nel mio cor, che si sface
De’ tuoi studi, non men, che de la face
Del mio nemico Amore.
Così le prime sue membra leggiadre,
Vesta la figlia di Peneo sdegnosa,
Per esserti pietosa.
Fill.Quattro, e sei pomi accolti in un sol ramo,
Serbo a la mia capanna, e gli destino
Al mio vago Pastor, che cotant’amo.
Mir.Una fromba da me con bel lavoro
Fatta di seta, e di fin’or contesta,
Sarà don di colui, che amo, & adoro.
Fill.Quanti spargo sospiri, e quanti lai,
Perche ’l mio crudelissimo Pastore,
Pietoso del mio mal si mostri homai.
Mir.Chi non sà quante volte hò questi colli,
Per isfogar la mia angosciosa pena,
Fatti del pianto mio tepidi, e molli?
Fill.Igilio mi donò due Tortorelle
L’altr’hieri, e Clori per invidia quasi
Morissi, tanto eran vezzose, e belle.
Mir.Due panieri di fiori Alcun mi diede,
Et Amaranta già di sdegno folle
Volse, per non vederli, altrove il piede.
Fill.L’empir il Ciel di strida: ohime, che vale,
E ’l crescer acqua co’l mio pianto à l’acqua,
Se non m’acquista fede al mio gran male?
Mir.Amo Uranio crudele, e non me’n pento,
Che la beltà, ch’à tutti gli occhi piace,
Mi fa lieta gioir d’ogni tormento.
Fill.La neve al Sole si dilegua, e ’l foco
Strugge la cera, e a me lo sdegno, e l’ira
D’Uranio, il cor consuma a poco, a poco.
Mir.Giovan l’erbe a gli Agnelli, à l’Api i fiori;
A me sol giova contemplar d’Uranio
Nel vago viso i bei vivi colori.
Fill.Dimmi Ninfa qual’è quell’animale,
Che ne l’acqua si crea, poi vive in fiamma,
E tuo farà questo dorato strale.
Mir.Dimmi, qual pesce in Ocean s’asconde,
Che tremar face, chi lo tocca à pena,
E due Caprette havrai biance, e feconde.
Opi.Non più Ninfe amorose, à me conviene
Terminar queste vostre
Amorose contese:
Lite non sia trà voi, dove è cotanta
Parità di valore; & io vi giuro
Per gli alti Dei, ch’à mio giudicio sete
Pari ne la beltà, pari nel canto.
Ben vi dirò, che faticate in vano,
Poi ch’ogn’una di voi
Uranio segue, & ama
E pur v’è noto homai
Ch’Ardelia egli sol ama, Ardelia cura:
Dunque non sia trà voi discordia, o fig[li]e;
Ma lasciate d’amar, chi voi non ama.
Fill.Ciò mi pare impossibile, nè sono
Possente à far, quel, che non vuole Amore.
Mir.Mentre havrò spirto, & alma,
Amerò solo Uranio.
Opi.Non voglio oppormi à i desideri vostri;
Ma poi che non potete, ò non volete
Restar d’amar, chi voi non ama, almeno
Fate per amor mio,
Che trà voi non sia lite, e procurate
Con la sola virtù, con le bell’opre
Di far unitamente
De l’Amor suo, de la sua gratia acquisto.
Fill.Mossa da le tue valide ragioni
Mi contento ubbidirti, e ti prometto
D’amar Mirtilla al par di me medesima;
E prego il ciel, che mi conceda (s’io
Degna ne son) di posseder il core
D’Uranio, e se, pur questo il Ciel mi nega,
L’amor d’Igilio, il cor mi mova, e cangi,
Et entri Igilio, ov’era prima Uranio.
Mir.E io ti giuro, Opico mio, d’havere
Verso Filli gentil quella medesma
Amica intention, ch’ella promette
Verso di me sì dolcemente; & ecco,
Che la mia mano, à la sua man congiungo
Per pegno de la Fede; e prego anch’io
Le stelle, o che ’l mio ben mi si conceda
(S’io ne son degna) ò almen non mi si neghi
Di goder la mia prima libertade.
Opi.Son così giuste le domande vostre
Che vi potete ben render sicure
D’impetrarle senz’altro ma gl’è tempo,
Ch’io me’n vada à Dameta, che bisogno
Del mio consiglio havendo,
M’aspetta al Fonte, e voi restate impace.
Fill.Opico, ti ringratio.
Mir.Et anch’io ti ringratio, Opico mio.
Fill.Andiamo ancora noi, che gl’è ben tempo.
Fine del Terzo Atto.