Lo astrologo/Atto IV
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Atto III | Atto V | ► |
ATTO IV.
SCENA I.
Guglielmo vecchio, solo.
Guglielmo. Ecco col favor del cielo da cosí crudel naufragio son pur gionto salvo alla patria mia. O patria, quante lacrime ho sparte ricordandomi di te! non so come sia vivo per il gran dolor che ci ho patito, veggendomi lontano da te! Or quanto devo a’ cieli, che pur dopo tante lagrime mi è concesso di rivederti! Misero me, che, volendo andar in Barbaria per saldar i conti con un mio corrispondente e vivermi il restante della mia vita ocioso e felice, ebbi a far i conti con la morte: ché, sendo vicino alle sirti, fieramente percosso da una fiera tempesta e dato in quelli scogli di arena, s’aperse il legno in mille parti e fui fatto schiavo de’ mori; poi, riscattato, mi sono ricovrato nella mia patria! Onde avendo passati innumerabili travagli, posso innumerabilmente ringraziare il cielo che mi veggia salvo. Vo’ aviarmi verso la casa mia.
SCENA II.
Cricca, Guglielmo.
Cricca. (O Dio, che cosa veggio? or non è questo il vignarolo transformato in Guglielmo, la cui figura cosí perfettamente rappresenta il figurato che non saprei discernere s’egli fosse il vignarolo o il vignarolo lui?).
Guglielmo. (Veggio uno che si maraviglia del mio ritorno: forsi che, stimandomi morto, si maraviglia che cosí insperatamente gli comparisca dinanzi).
Cricca. (Oh mirabil possanza delle stelle, oh mirabil arte di astrologia, or chi di questo non s’ingannasse? Guardatevi, mariti che avete le donne belle, ché i loro innamorati sotto la vostra forma si godono di loro; guardatevi, ricchi, perché possedete tanto oro, argento, gioie e danari in casa, ché i ladri trasformandosi nella vostra effigie vi aprono le casse e vi togliono i danari: or sí che ogniuno può venire al sicuro ladro di quello che vuole).
Guglielmo. (Mi ricordo averlo visto e ragionato con lui piú volte; ma non posso ricordarmi chi sia).
Cricca. (Vorrei burlarlo un poco; ma mi par Guglielmo tanto naturale che non ardisco).
Guglielmo. (Giá mi sovien chi sia). O Cricca, che tu sia il ben trovato! Come sta Pandolfo mio amico?
Cricca. Mi rallegro dell’accrescimento del vostro stato: che di padron che vi sia Pandolfo, or vi sia divenuto amico.
Guglielmo. Che dice il mio caro Cricca?
Cricca. Che siate il bentornato da lontano paese, ché giá sommerso nel mare vi avevano pianto per morto!
Guglielmo. Posso dir che sia renato: fu tanto periglioso il mio naufragio!
Cricca. (Ah, ah, mira il goffo con quanta grazia e prosopopeia ragiona: or che potrebbe piú dire o far l’istesso Guglielmo?). Oh che il cancaro ti mangi!
Guglielmo. Or questo è un cattivo modo di procedere: tieni le mani a te e parla con piú riverenza: con chi pensi trattare?
Cricca. (Mira questo furfante, che in corpo, in anima si pensa essere transformato in Guglielmo! fa sí come io non fossi consapevole dell’inganno).
Guglielmo. (Io non posso imaginarmi come un servo ribaldo, come costui, abbia preso tanta baldanza meco: come ride il furfante!).
Cricca. (Mira come stringe le labra per non ridere il furfante, e per il riso gli lampeggiano gli occhi!). Ah, ah, ah!
Guglielmo. Vorrei saper di che ridi; se non, ne farò risentimento col tuo padrone.
Cricca. Rido che tanto bene sei trasformato in altra forma.
Guglielmo. Che? questa è cosa degna di gran meraviglia, se i pericoli della morte tanto vicina, l’affezion della servitú che ho sofferta tra’ mori e i disagi del viaggio avrebbono trasformato altra persona della mia, che sono un povero vecchio e son piú tosto degno di pietá che di riso?
Cricca. (Mira che il vignarolo ha lasciato la bestialitá della villa e divenuto savio di cittá!). Or va’ a casa di Guglielmo a far l’effetto che devi, ché ti fo certo che sarai ricevuto per l’istesso Guglielmo.
Guglielmo. E se nella mia casa non sarò ricevuto per ristesso Guglielmo, dove spero esser piú ricevuto?
Cricca. (Ed è possibile che questa bestia non si avvegga che ancor è quel vignarolo che era prima? come sta saldo, con che riputazione sta il mariuolo!).
Guglielmo. (Io non so dove nasca questo suo riso e questo scherno di me. Fa come se non m’avesse mai conosciuto per quel che sono e quel che fui).
Cricca. Mi par che tu non lo vuoi intendere: tu sei il vignarolo, ed io lo so meglio che tu stesso non lo sai.
Guglielmo. Io non so quello che ti dica del vignarolo.
Cricca. Non sei tu dunque il vignarolo?
Guglielmo. Non sono né ci fui mai.
Cricca. Questo nieghi?
Guglielmo. Lo niego, perché è il falso.
Cricca. E pur lo nieghi?
Guglielmo. E pur lo niego e straniego.
Cricca. Non sei il vignarolo, col nome del diavolo?
Guglielmo. Son Guglielmo, col nome di cento diavoli!
Cricca. Vo’ chiamar il padrone, ché venga ancor egli a ridere un poco meco e maravigliarsi.SCENA III.
Pandolfo, Cricca, Guglielmo.
Pandolfo. Io non so perché tanto gridi, o Cricca.
Cricca. Non vedete il vostro vignarolo trasformato in Guglielmo, e tanto trasformato in Guglielmo che il vero resta vinto dal falso, perché il falso è piú vero del vero?
Pandolfo. (O stupenda maraviglia! ed è possibile che l’astrologia possa tanto? Veggio il simulacro e l’imagine di Guglielmo cosí naturale che, se fosse fatto a stampa o dentro le forme, non potrebbe essere piú simile. Proprio fatto a stampa, ché un scudo non è cosí simile ad altro scudo come è costui a Guglielmo).
Guglielmo. O mio carissimo Pandolfo, cosí amato e desiderato di vedere!
Pandolfo. (Non mi dispiace il principio. Mira con che bel garbo ragiona il furfante! oh come ha del naturale, come pompeggia in quelle vesti: cosa da spanto!). Caro Guglielmo, come sète salvato da naufragio?
Guglielmo. Sappiate che per andare in Barberia imbarcaimi su una nave ragusea. Il padrone che la noleggiava era uomo di suo capo; e quantunque fusse avisato da tutti li marinari non partisse in tal tempo che minacciava tempesta, pur volse partirsi con la tempesta. La nave diede su le sirti; e il padrone fu il primo in morire e in pagare la pena della sua temeritá e ardimento. ...
Pandolfo. (Che bella istoria s’ha inventata! con che bella maniera il racconta il manigoldo!).
Guglielmo. ... Vennero i corsari e ne fêr prigionieri; scampai e mi presero un’altra volta; mi riscattai, sono arrivato a casa a salvamento.
Cricca. Andaste in Barberia per rader quel tuo debitore, e il mare t’ebbe a rader la vita e tutte le tue robbe.
Guglielmo. Andai in Barbaria per riscuotere i miei crediti.
Cricca. Andaste in Barberia per radere e fosti raso. (Lasciamo le baie, dimandiamoli delli argenti e de’ paramenti).
Pandolfo. Ben, vignarolo mio, dove sono li argenti e i paramenti che l’astrologo t’ha consegnato?
Guglielmo. Non so che vi dite.
Pandolfo. Scherzi o dici da senno?
Guglielmo. Dal miglior che abbi. È tempo questo di scherzi?
Pandolfo. Or questo è un altro conto. Dimmi, dove è l’argento?
Guglielmo. A me ne dimandate?
Pandolfo. A chi vuoi che ne dimandi?
Guglielmo. Che argento dite voi?
Pandolfo. Che ti ha consegnato l’astrologo dopo che fosti trasformato.
Guglielmo. Che astrologo, che trasformazione?
Pandolfo. Or questo è un altro diavolo, duemila scudi d’argento: sarebbe cosa da farmi arrabbiare!
Cricca. Ah, ah, ah! mirate che ride! vuol scherzare con voi il traditore.
Pandolfo. Canchero! questi sono mali scherzi. E par che sia piú tosto pallido divenuto.
Cricca. Pensa il ladro che se or è trasformato in Guglielmo, che mai piú abbi a divenire vignarolo e farci star in forsi dell’argento ancora.
Pandolfo. Non ha tanta malizia, è un bestiale.
Cricca. Ed i bestiali sogliono essere maliziosi; ma sarei piú bestiale di lui se mi lasciassi burlare da un par suo. Dimmi, non sei tu il vignarolo?
Guglielmo. Dico che sono Guglielmo non il vignarolo.
Pandolfo. Anzi tu sei l’uno e l’altro, il vignarolo e Guglielmo, cioè il vignarolo mascherato in Guglielmo.
Guglielmo. Io non son altro che Guglielmo, e non è or carnevale che vada in maschera. Non ho altra maschera di quella che mi fece la natura.
Cricca. Non posso credere che la soverchia bestialitá basti a far un uomo savio.
Pandolfo. Torniamo all’argento: che mi rispondi?
Guglielmo. Io non so che rispondervi, perché non so nulla di quello che dite.
Pandolfo. Io non vo’ piú moglie. Torniamo all’astrologo, ché ti ritorni in quel di prima e restituiscami l’argento.
Cricca. (Fermatevi, padrone: s’apre la porta della casa di Guglielmo e ne vien fuori Armellina la serva. Lasciamolo entrare in casa e veggiamo che effetto fará; perché non può egli scapparne dalle mani, e quel che volete far ora lo potrete far sempre che volete. Partiamoci da lui, ché non diamo sospetto dell’inganno).
Pandolfo. (Vo’ attenermi al tuo consiglio).
Cricca. Vignarolo, giá s’apre la porta della casa di Guglielmo. Non vedi la tua innamorata Armellina e la sua figlia? orsú, entra in casa.
Guglielmo. Sian benedetti i cieli che mi vi tolsero dinanzi, ché mi avevano stracco con non so che vignarolo o che argento!
SCENA IV.
Artemisia, Guglielmo, Armellina.
Artemisia. (Veggio il vignarolo trasformato in Guglielmo, che se ne viene dritto a casa. Oimè! che mi par l’istesso mio padre e vo’ dargli la baia un poco!).
Guglielmo. (Ben ne ringrazio i cieli che veggio la mia casa!). Tic toc.
Artemisia. Chi batte, olá?
Guglielmo. O Artemisia, figlia cara, aprimi, che sii tu benedetta!
Artemisia. «Figlia cara», dice il furfante: ah, ah, ah!
Guglielmo. Non conosci il tuo padre Guglielmo?
Artemisia. Chi Guglielmo?
Guglielmo. Chi Guglielmo? tuo padre.
Artemisia. Fosti tu dove è Guglielmo mio padre?
Guglielmo. Dove è dunque tuo padre?
Artemisia. È morto e sotto l’onde sommerso.
Guglielmo. Quel morto e sommerso son io!
Artemisia. Ben, io non tratto con morti e con sommersi.
Guglielmo. Aprimi, figlia cara!
Artemisia. Aprir io? me ne guarderò molto bene: sento tutta incapricciarmi.
Guglielmo. E di che?
Artemisia. Che un morto e sommerso parli e venga a casa.
Guglielmo. Apri, di grazia!
Artemisia. Sarai or risolto dal mare o sei putrefatto, e ne sento fin qui la puzza del tuo corpo, oibò, fiú!
Guglielmo. Apri, ché son vivo come prima!
Artemisia. Come vivo, se abbiamo ragionato con tanti testimoni di veduta, quando ti sommergesti con la nave e moristi?
Guglielmo. Deh, apri e non tante parole!
Armellina. (Padrona, lasciate burlare un poco a me). Chi è lá giú? che dimandi?
Guglielmo. Apri, Armellina mia.
Armellina. Se vieni da casa calda, hai bisogno di qualche rinfrescamento.
Guglielmo. Ho bisogno del malanno che Dio ti dia!
Armellina. Buone parole in casa d’altri!
Guglielmo. Mi avete mosso la còlera; e se non mi aprite, buttarò le porte per terra.
Armellina. Con un poco di acqua ti rinfrescaremo la còlera.
Guglielmo. Quando sarò entrato ti spezzarò le braccia con un bastone.
Armellina. Togli questo rinfrescamento!
Guglielmo. Ah, lorda, rognosa, pidocchiosa!
Armellina. T’ho lavato il capo della lordura, tigna e pidocchi.
Guglielmo. Se non te ne pagherò, possa sommergermi un’altra volta! non so che mi tenga che non rompa e spezzi le porte e non ti uccida di bastonate.SCENA V.
Lelio, Armellina, Guglielmo.
Lelio. (Non so con chi ragiona Armellina: mi pare forastiero). Con chi parli?
Armellina. Con l’anima di vostro padre, che vuol entrare per forza in casa nostra.
Lelio. Veggio l’aspetto di mio padre. Oh quanto se gli assomiglia! Se Cricca non me ne avesse avisato prima, chi bastarebbe a farmi credere che fosse il vignarolo? Certo sará qualche spirito dell’inferno che ha costretto l’astrologo a venire in cotal forma.
Guglielmo. (Costoro mi faranno venir tanta rabbia col vignarolo e con l’astrologo che mi farebbero sommergere un’altra volta nel mare da me stesso! Da chi spero essere riconosciuto se l’istesso mio figliuolo non mi conosce?).
Lelio. Oh possanza delle scienze! quanto son grandi! Or chi bastarebbe a credere che i potenti influssi delle stelle partorissero tanta varietá? Mutar un uomo in un’altra forma! Lo vorrei schernire e burlarlo, ma mi par tanto simile a mio padre che la riverenza del suo aspetto mi ritiene.
Guglielmo. (Oh almeno avessi un altro capo per battere questo in un muro!). O figlio, se non conosci l’aspetto di tuo padre, considera che l’ardore del sole mi ha fatto un poco nera la pelle e crespa, e gli occhi ficcati nella fronte per il disagio del viaggio e del paese; e ancorché siano mutati i lineamenti del viso, considera l’aria del sembiante che non si può perdere: almeno considera la ferita della mano che gli anni adietro tu mi aiutasti a medicarla.
Lelio. Colui, che ha trasformato il vignarolo in Guglielmo, ha trasformata la persona del vignarolo con quella ferita istessa che avea Guglielmo; ché altrimenti non saria trasformato.
Guglielmo. Figlio, non so che altra certezza possa darti che sia tuo padre.
Lelio. (Mi ha mosso a compassione, né so perché). Orsú, vattene con queste tue novelle; e un’altra volta non aver ardire con queste tue trasformazioni venir in casa degli uomini da bene: per la prima volta ti sii perdonato. Noi ben sappiamo chi tu sei e a che proposito qui venuto; e se ben avea proposto nell’animo bastoneggiarti molto bene, la riverenza che porto alla sembianza del mio carissimo padre me lo vieta. Vattene per i fatti tuoi, che io, per non essere importunato dalla importunitá tua, fossi forzato a farti quanto ti ho detto; ché se l’astrologo che ti ha trasformato ti avesse predetto che dovevi ricevere delle bòtte, forsi un’altra volta ti avrebbe il vero pronosticato. E poiché non vuoi partirtene tu, partiromene io.
Guglielmo. Mi vuo’ partir ancor io e cedere all’iniqua fortuna!
SCENA VI.
Vignarolo solo.
Vignarolo. La nostra v’ita è proprio come le fette del presciutto: un poco di magro e un poco di grasso, un poco di piacere e un poco di dispiacere. Quando stava in villa, mi pensava che la vita de’ gentiluomini tutta fusse felicitá; ma or ho provato che ancor eglino hanno i loro cancheri e cacasangui. Era tutto allegro che avea guadagnato dieci ducati e chiamato da quella signora in scambio di Guglielmo; ma i dieci ducati mi fûr tolti e la signora mi costò molto, ché con fatica sono scampato dalle mani di quel spagnuolo. Or prima che mi accada qualche altra disaventura, me ne vo’ andar a casa di Guglielmo; e subito entrato, farò che Armellina sia promessa per moglie al vignarolo e fare gli instrumenti, accioché, quando lascio di esser Guglielmo, me la teglia per moglie. Oh, cancaro! io temo di esser scoperto da altri per vignarolo, e or scopro me stesso; e quel che con tanta diligenza vuo’ nascondere lo paleso a tutti. Son solo e parlo come fosse accompagnato. — Ascolta, vignarolo, e fa’ come ti dico io. — Ben, che dici? che vuoi che faccia? — Va’ in casa di Guglielmo ed entraci con riputazione; poi comincia a far prima i fatti tuoi, poi i fatti del padrone: che Armellina si sposi con il vignarolo e poi Artemisia col padrone. Ma se non lo volessero fare, che farai tu? Io ne torrò Armellina per forza e di Artemisia facci il padrone. — Ah, traditora Armellina, or ti renderò le parole che mi dicesti questa mattina! Vo’ andare a battere alla porta e non trattenermi piú, ché non passi il tempo e tornasse il vignarolo senza far nulla.
SCENA VII.
Guglielmo, Vignarolo.
Guglielmo. (Misero me, che debbo fare, che, venuto nella mia patria con tante fatiche, non posso entrare in casa mia? Ma veggio uno che cerca entrarvi: sará qualche amico; mi raccomandarò a lui).
Vignarolo. Tic, toc, toc.
Guglielmo. Gentiluomo, sète voi di casa?
Vignarolo. (Mi chiama «gentiluomo», mi onora: poiché paro ben vestito si pensa che sia gentiluomo. Bella cosa è l’essere ricco: ogniuno ti onora, ti saluta, ti tocca la mano, si ferma a ragionare con te, ti compagna sino a casa e ti dimanda come stai. Mi chiama «gentiluomo», che né a me né a niuno della mia schiatta conviene tal nome).
Guglielmo. Gentiluomo, chi sei che batti a cotesta porta?
Vignarolo. Rispondi a me tu prima: chi sei che me ne dimandi?
Guglielmo. Padron mio caro, non entrate in còlera: di grazia dite voi, chi sète?
Vignarolo. Non ho da render conto ad un uomo vile come tu sei; ma tu che vuoi saper chi sia, tu chi sei?
Guglielmo. Il padron di questa casa!
Vignarolo. Tu menti che ne sii padrone, ché il padrone ne son io.
Guglielmo. (Forse mio figlio l’avrá venduta a costui). Quanto è che ne sète padrone?
Vignarolo. Io ne son padrone da quel tempo che ne fu padrone Guglielmo.
Guglielmo. Chi Guglielmo?
Vignarolo. Degli Anastasi.
Guglielmo. Guglielmo Anastasio? quello che andò in Barbaria per saldar la ragione con quel suo compagno e si sommerse nel golfo?
Vignarolo. Quello che tu dici.
Guglielmo. Or se Guglielmo si sommerse in quel golfo, come or si trova vivo nella cittade?
Vignarolo. Goffo! perché mi salvai nuotando.
Guglielmo. (Che dice costui?).
Vignarolo. Ed io avea promesso Artemisia a Pandolfo per moglie, ed egli a me Sulpizia sua figlia.
Guglielmo. (Cancaro! questo è ancor me: e dice tutto quello che son io e sa tutti i miei secreti, sí come avesse la mia persona e lo mio spirito). Ma avèrti, giovane, che io son Guglielmo, e son colui che andai in Barbaria per saldar le ragioni con quel mio compagno, ed io promisi la mia figlia a Pandolfo; ma se io non sono né posso essere altro che io, e tu non sei né puoi essere altro che Guglielmo, tutti duo saremo Guglielmo e tutti duo saremo uno.
Vignarolo. Se tu dici piú simili parole, ti batterò con una pertica come si battono le noci. Che asinitá! se siamo duo, io e tu, come siamo un solo?
Guglielmo. Almeno dimmi se io sia diventato te e tu me.
Vignarolo. E pur lá! taci e fai meglio per te.
Guglielmo. Puoi far tu che non sia quel che sono? e non sia Guglielmo?
Vignarolo. Orsú, togli, Guglielmo; ricevi, Guglielmo!
Guglielmo. Oh oh! dispiacemi che per li travagli del viaggio io sia sí fievole e cagionevole della persona che non possa difendermi.
Vignarolo. Or dimmi se sei Guglielmo! poiché non posso con le buone parole far che tu non sia, lo farò con i legni.
Guglielmo. Volessero i cieli che non fossi Guglielmo o che non fossi mai stato, e che io fossi te e tu me, che io dessi e tu ricevessi le pugna!
Vignarolo. Dimmi or, chi sei?
Guglielmo. Son quello che tu vuoi che sia: Pietro, Giovanni, Martino.
Vignarolo. E perché dicevi poco dianzi che tu eri Guglielmo?
Guglielmo. Avea bevuto in un’osteria e stava ubriaco.
Vignarolo. Poiché non sei piú Guglielmo, chi sei?
Guglielmo. Tuo schiavo, tuo servitore.
Vignarolo. Io non ti vidi né conobbi mai, né sei mio schiavo né mio servitore.
Guglielmo. Ma di grazia parliamo a ragione: se non son Guglielmo, chi sono?
Vignarolo. Se non lo sai tu chi sei, manco lo so io: sei un cavallo, un bue, un asino.
Guglielmo. Messer sí, se fussimo nel tempo di Pitagora, direi che quando mi sommersi morii e l’anima mia entrò in un altro corpo e son un altro. Vorrei saper chi sono.
Vignarolo. Sei un tartufo!
Guglielmo. Sto fresco: questa veramente è una gran cosa; a me par essere pur quel Guglielmo di prima. Io non son morto: vedo, parlo, mi muovo; o forsi quando mi sommersi, per la gran paura che ebbi quando mi vidi la morte cosí vicina, fossi divenuto un altro, e mi bisogna trovar un’altra persona per essere alcuno?
Vignarolo. Non piú parole: o va’ via o fa’ meco questione!
Guglielmo. Non farò questione io teco.
Vignarolo. Partiti e non dir piú che sei Guglielmo.
Guglielmo. Oh disgrazia grande e non mai piú intesa, che un uomo abbia perduto se stesso e non sappia chi sia! E mi par questa disgrazia maggior della prima; e accioché il tempo non possa dar fine alla mia miseria, fa che sia scacciato da casa mia con dire che sia un altro, e poi trovar un altro che dica esser me. O voi tutti miseri e disgraziati che sète al mondo, correte a vedere la mia disgrazia, ché tutte le vostre vi pareranno nulle! O catene, o prigioni, o sferzate ricevute da’ mori, quanto veramente mi eravate piú dolci; o perigli di mare, quanto mi eravate piú soavi; o mare, mio nemico capitale, perché mi lasciasti vivo, mi hai posto in questi travagli! Andai in Barbarla per acquistare danari, e perdei me stesso; per far conti col mio compagno, vi lasciai la persona. Meglio era perdere la robba e salvar me medesimo: da me solo mi difendei dal mare e non seppi difendermi da chi mi rubbò da me stesso!
SCENA VIII.
Lelio, Cricca, Vignarolo.
Lelio. Oimè, che veggio? che è quel che raffiguro?
Cricca. Che cagione avete di tanta maraviglia?
Lelio. Non vedi mio padre e il vignarolo, il vero e il falso Guglielmo?
Cricca. Sí, che li veggio.
Lelio. Non mi hai avisato che il vignarolo sia trasformato nel mio padre? e io dando credito alle tue parole ho scacciato mio padre da casa, pensando che fosse il vignarolo. Ecco qui l’uno e l’altro: non so se quel Guglielmo che riguardo sia il vero o falso Guglielmo.
Cricca. Cosí è veramente; ed io rimango piú maravigliato di voi.
Lelio. Tu smanii, tu farnetichi.
Cricca. Siamo stati doppiamente burlati dall’astrologo, e della trasformazione e dell’argento; e or sará scampato via: e dubito che io non sia piú veridico astrologo di lui.
Lelio. Come potremo chiarirci di questo? Mira come il mio povero padre sta doloroso!
Cricca. O vignarolo, o vignarolo!
Vignarolo. Mira questa bestia che mi conosce.
Cricca. Rispondi, vignarolo.
Vignarolo. Cricca, tu vedi il vignarolo?
Cricca. Che non ho gli occhi con i quali possa vedere?
Vignarolo. E tu non vedi?
Cricca. Sí, che ti vedo.
Vignarolo. Tu non mi vedi né mi conosci; ma ascolti parlare e mi conosci alla voce: perché come vuoi conoscermi, se io son un altro?
Cricca. Dico che sei quel che eri prima.
Vignarolo. Dunque tu mi vedi, Cricca?
Cricca. Come non vuoi che ti veda? (O Lelio, ho indovinato: questo vignarolo è un ignorante da bene, e si è un mezzo asino, l’altra metá è una bestia; e se Pandolfo ha faticato gran pezza a persuaderlo che voglia trasformarsi in Guglielmo, or bisogna faticar altrotanto a fargli credere che sia quel che era prima). Chi sei dunque?
Vignarolo. Son Guglielmo e vo’ entrare in casa mia, dar Artemisia al mio padrone e Armelliria al vignarolo.
Cricca. E gli atti, il procedere e le parole mi fan ampia fede che tu sei quel vignarolo che eri prima. Non ti vergogni a dire che sei Guglielmo?
Vignarolo. Mi vergognarei facendo cosa cattiva, ma in entrando in casa e disponendo delle mie cose non fo cosa cattiva.
Cricca. Avverti bene che non sei Guglielmo.
Vignarolo. E se non son Guglielmo, che s’è fatto del vignarolo?
Cricca. La prima bozza e lo stelo della tua persona era il vignarolo, il color poi e la sembianza di sopra era di Guglielmo: è sparito via quel colore e quella apparenza di Guglielmo, ed è restata la persona del vignarolo che era prima.
Vignarolo. Basta basta, so che tu cerchi persuadermi che non sia Guglielmo.
Cricca. Vuoi che ti faccia conoscere chi sei?
Vignarolo. Te ne prego.
Cricca. (O galea, che piangi senza costui!). To’, togli questo!
Vignarolo. O canchero ti mangi! col pugno mi hai rovinato una spalla.
Cricca. Hai sentito la botta, pezzazzo di bestia?
Vignarolo. Sentitissimo!
Cricca. Donque sei il vignaiolo: ché se tu fussi Guglielmo, l’avria sentito Guglielmo e no il vignaiolo.
Vignarolo. Anzi, però l’ho sentito io perché son Guglielmo; se fusse il vignarolo, l’avria sentito il vignarolo e non Guglielmo.
Cricca. Io ho dato al vignarolo e non a Guglielmo. Ma dimmi, chi è innamorato di Armellina, il vignarolo o Guglielmo?
Vignarolo. Il vignarolo.
Cricca. Dimmi, ami tu Armellina ora o no?
Vignarolo. L’amo e straamo.
Cricca. Dunque tu sei il vignarolo, babuazzo, perché Guglielmo non ama la sua massara.
Vignarolo. Giá mi comincia ad entrare.
Cricca. Manigoldone, se Guglielmo è sommerso e morto o non è piú al mondo, se tu fussi Guglielmo saresti morto overo una persona di vento o d’aria; ma perché ti vedo e ti tocco, tu sei il vignarolo.
Vignarolo. Tu mi hai di sorte ingarbugliato il cervello che sto dubbioso se sia Guglielmo o il vignarolo; ma se sono trasformato giá e non sono Guglielmo, chi sono? sarò perduto e sarò qualche altro uomo o qualche bestia.
Cricca. Tu non sei divenuto una bestia perché sempre vi fusti.
Vignarolo. Io sono stato stimato Guglielmo da uno suo debitore, perché mi diede dieci ducati che li doveva, e da una sua innamorata, e son stato stimato da tutti Guglielmo; ma perché tu hai invidia della mia felicitá e non vorresti che fussi meglio di te, ti affatichi con tante ragioni a darmi ad intendere che non sia lui. Ma io sono Guglielmo a tuo dispetto. L’invidia ti rode: crepa d’invidia a tuo modo, teh, teh! Ma se pur n’hai tanta invidia, va’ all’astrologo che ha trasformato me, e fatti trasformar ancor tu.
Cricca. Quanto può la forza dell’imaginativa!
Vignarolo. Non basta il mondo a tôrmi da cosí soave pensiero d’essere Guglielmo: ci sono e ci voglio essere; e se non ci fossi, pur mi parrebbe d’essere. Or me ne vo’ a casa sua e allor conoscerò se sarò stato Guglielmo o il vignarolo.SCENA IX.
Lelio, Cricca, Guglielmo.
Cricca. (Signor Lelio, costui è di quella linea antica di Bartolomeo Colione: persuaderlo che non sia Guglielmo è un perder tempo. Ma siate certo che costui è vostro padre).
Lelio. (Quando lo scacciai da casa, sentiva nel cuore certo rimordimento di quella ingiuria; ma io vo’ dimandarli alcuna cosa per assicurarmene meglio). Ditemi, signor Guglielmo, quando vi partiste per Barberia, quanti danari vi portaste per commoditá del viaggio?
Guglielmo. Ducentocinquanta ducati, ché non potei complire trecento ché Avareggio, nostro parente, ne venne meno della parola.
Lelio. (Questi è mio padre certissimo, ché altri non avrebbe potuto saper questo). Perdonatemi, caro padre, se son stato tanto sciocco a non accorgermi prima... .
Guglielmo. Io non posso credere che cosí tosto crediate che sia vostro padre, perché tanti contrari eventi di fortuna mi fan chiaramente conoscere che mi conoscete per alcuni precedenti prodigi contro me.
Lelio. Del tutto ne è stato cagione un astrologo.
Guglielmo. Chi astrologo?
Lelio. Quando voi vi partisti da Napoli, promettesti Artemisia a Pandolfo; venuta poi la nuova della vostra morte, mi richiese Pandolfo della promessa fattali da voi. A tutti gli amici e parenti parea disconvenevole che ad un uomo di tanta etá se li dovesse attendere la promessa: ce la negai. Egli ha trovato un astrologo che gli ha promesso trasformare il suo vignarolo nella vostra effigie, e sotto il vostro nome entrar in casa e dargli la sposa promessagli; ma io essendo stato avisato dell’inganno prima, credendo scacciar il vignarolo ho scacciato voi.
Guglielmo. Però tutto oggi mi han dato per lo capo dell’«astrologo» e del «vignarolo», e mi erano un’esca che mi accendevano il fuoco dell’ira nel petto. Ben è vero che gli la promessi, ma me ne sono pentito mille volte poi.
Lelio. Padre, che abbiate stimato Pandolfo cosí vecchio meritevole marito di vostra figlia, nol debbo né lo posso credere; ma perché dite che foste di tal parere, sarei di parer io che si desse ad Eugenio suo figlio, che ne è piú meritevole assai.
Guglielmo. Figlio, fa’ di Artemisia quello che ti piace, ché io in nulla ti sarò contrario.
Cricca. Se avete giudicato Eugenio degno di vostra figlia, sará ancor degno il signor Lelio di Sulpizia sua figlia.
Guglielmo. Io di ogni vostro contento ne resto contentissimo: ho avuto sempre desio di parentarmi con Pandolfo.
Cricca. Voi con la vostra inopinata venuta sarete cagione di molto contento. Persuader a Pandolfo lasciar Artemisia è un giuocare a perdere; e si verrá seco a termini fastidiosi, perché è cosí pazzo che manca poco a trar sassi. Io ho pensato un modo che con le sue proprie mani si troncará la radice a’ suoi poco onesti desidèri, e scioglia con le sue mani quel nodo con il quale egli pensava allacciarci: se ne volgeranno le saette contra l’arciero, e noi resteremo ricchi per la sua perdita e felici per la sua disgrazia.
Guglielmo. Dillo di grazia, ché io ti ho conosciuto sempre per uomo di gran spirito.
Cricca. Stimo che la vostra venuta quanto riesce a nostro beneficio tanto fa bello il nostro inganno.
Guglielmo. Bello inganno è quello che è ordito con disegno e che riesce poi.
Cricca. Egli pensa certissimo che il vignarolo sia trasformato in voi, e l’ha mandato a casa vostra a far l’effetto. Andarò a dargli la nuova che è stato ricevuto dentro e che vuole darli Artemisia per moglie con sodisfazione di tutti, purché si contentino star alla sua parola. Onde, stimando certo che voi siate il vignarolo, accetterá la offerta; e in presenzia di tutti faremo che giuri; e giurato, potrete dire che sará piú convenevole dar Artemisia ad Eugenio e Sulpicia a Lelio, ché a vecchi decrepiti non convengono mogli di sedici anni.
Guglielmo. Oh bel pensiero, veramente molto sottile e astuto!
Lelio. Non potria imaginarsi il piú bel tratto! togliete via ogni tardanza.
Cricca. Piano; «a chi è impaziente dell’indugio convien precipitare»; ma se vogliamo che l’inganno riesca, non bisogna andar cinguettando che Guglielmo sia tornato. E voi trattenete il vignarolo in casa, ché non lo vegga Pandolfo insin a tanto che non avete fatto i matrimoni. Qui sta la vittoria del fatto; e partiamoci ché non venga e ci veggia ragionar insieme, perché sarebbe un dargli sospetto di qualche trama ordita contra di lui. Io andarò a dargli nuova che il vignarolo è entrato in casa e che Lelio è contento far il volere di suo padre: il che crederá, come cosa che desidera, e verrá agevolmente al giuramento.
Lelio. Come trattenerò io il vignarolo?
Cricca. Egli verrá certissimo in casa vostra: serratelo in una camera finché le spose sian fatte vostre.
Lelio. Vorrei che mentre l’avrem prigione facciam vendetta del disgusto che ne ha dato.
Cricca. Il piacer che pigliaremo del piacevole scherzo del vignarolo sará la vendetta della sua ignoranza.
Lelio. Or che la fortuna seconda li nostri desidèri, andiam, padre, a dar questa allegrezza ad Artemisia.
Guglielmo. Andiamo.
Cricca. Ma ecco il vignarolo che se ne vien dritto a casa: beffeggiamolo un poco.
Lelio. Lascia far a noi.
SCENA X.
Vignarolo, Armellina.
Vignarolo. (Questo maladetto Cricca con le sue ragioni m’avea di sorte frastornato il cervello con dire che era il vignarolo e non Guglielmo, che poco men m’avea persuaso; ma io conosco la sua natura maliziosa e furfanta. Allor sarò chiaro della veritá, se sarò ricevuto in casa di Guglielmo per l’istesso o per il vignarolo). S’apre la porta e ne vien fuori Armellina.
Armellina. O Guglielmo, padron caro, sassata al benvenuto!
Vignarolo. O Armellina cara, quanto ho desiderato vederti! prego il ciel che vi possa veder con un occhio, se non ho desiderato vederti! Vorrei che mi vedeste il cuore aperto, ché conoscessi quanto t’amo.
Armellina. Volesse il cielo, massime per mano del boia!
Vignarolo. Lascia almen che ti baci in fronte come figlia.
Armellina. Basta la buona volontá; ma io vo’ baciarti i piedi.
Vignarolo. Oh canchero! che mi hai fatto cadere, m’hai stroppiato!
Armellina. Venite in casa a far collazione, che sète stracco e ne dovete aver bisogno. (Giá ha ricevuto l’antipasto della collazione).
Vignarolo. Sappi, Armellina mia, che d’ogni minima cosa mi doleva, quando mi sommersi, di non aver a vederti mai.
Armellina. Quando, padrone, vi sommergeste in mare, non vedesti alcun pescespada che ti passa da un lato all’altro, e i pescirasoi che ti tagliano la faccia, e le balene che ti inghiottono vivo?
Vignarolo. Se avessi incontrato questi, mi avrebbono ferito o morto. Ma subito che son riposato un poco, vo’ maritarti.
Armellina. E chi mi volete dare? qualche bel giovane?
Vignarolo. Una persona che muor per te: è della simiglianza vostra, di altezza e di fattezze come io, molto simile a me.
Armellina. Sará dunque vecchio come voi. Dio me ne guardi! non vuo’ vecchio; se io mi accaso, lo fo per far figli come le altre.
Vignarolo. Non dico che sia vecchio come me, ma della mia statura, e molto simile fuorché nella vecchiezza. Ti fará star sempre in villa; mangiarai polli, piccioni, porchette, ricotte e frutti di ogni sorte.
Armellina. Ditemi, è giovane?
Vignarolo. È giovane.
Armellina. Ditemi chi è, presto.
Vignarolo. Il vignarolo.
Armellina. Forsi quel vignarolo di Pandolfo? perché l’amo quanto la vita e ne sarei contentissima.
Vignarolo. Quello è desso, quello son io.
Armellina. Voi sète quello? se sète Guglielmo, come sète lui?
Vignarolo. O bestia! — dimmi. Quello, dico io; ma io son Guglielmo.
Armellina. Io son innamorata di quel vignarolo e mi moro per lui.
Vignarolo. Desideri vederlo?
Armellina. Quanto la vita.
Vignarolo. Che pagaresti a chi te lo facesse vedere?
Armellina. Me stessa.
Vignarolo. Se vuoi tenermi segreto, io te lo farò veder mò.
Armellina. Eccoti la fede.
Vignarolo. Io son il vignarolo.
Armellina. Voi volete burlarmi; sète Guglielmo.
Vignarolo. Se non sono il vignarolo, mi possino mangiare i lupi e sia trovato in mezzo al bosco a suon di mosconi! Ma tu ridi?
Armellina. Rido del desiderio che ho di vederlo.
Vignarolo. Ti dico che, vedendo me, tu vedi lui.
Armellina. E pur io vi dico che, veggendo Guglielmo, veggio voi e non il vignarolo.
Vignarolo. Oh sia maladetto quando mi trasformai! Io sono Guglielmo di fuori ma di dentro sono il vignarolo, ché un certo astrologo mi ha trasformato.
Armellina. Voi volete far la burla.
Vignarolo. Mi è innodata tanto la lingua che non posso parlare. Vorrei disfarmi e non posso, vorrei dar della testa nel muro per tornar quello che era prima. Or sí che questa è una disgrazia mai piú veduta! Ti dico, Armellina mia, che dentro sono il vignarolo.
Armellina. Che bisogna adunque aspettar che Guglielmo partorisca e far il vignarolo, o scorticarvi per cavarvelo fuori?
Vignarolo. Dammi campo franco in una camera, ché conoscerai quanto ti dico.
Armellina. Non vo’ andare in camera con i padroni; io ci andarei con il vignarolo, sí bene da solo a solo.
Vignarolo. O fortuna traditora, o astrologo traditore, o padrone assassino, che mi avete fatto trasformare in un’altra persona; ché ora vorrei esser quel di prima e non ci posso essere! Rifiuti quel che desideri, e non conosci quel che hai: andiamo in camera e ci metteremo soli fino a domani, finché ritorni alla mia figura.
Armellina. Son contenta. Entrate innanzi, signor Guglielmo.
Vignarolo. Entro; seguimi, Armellina mia cara.
Armellina. (Non so se Lelio averá accomodato lo scaglione per farlo sdrucciolare per li piedi).
Vignarolo. Oimè, mi hai chiusa la porta sul volto, mi hai morto!
Armellina. Perdonami di grazia, ché il vento me l’ha tolta di mano.
Vignarolo. Tien la porta aperta mentre saglio, ché le scale sono oscure.
Armellina. Tengo. Eccolo dirupato.
Vignarolo. Oimè oimè! son morto!
Armellina. Che avete, padron mio caro?
Vignarolo. Mi è venuto meno un scaglione e ho sdrucciolato con tutti i piedi e mi ho infranta una spalla!
Armellina. Entrate, ché vi ungeremo con un poco di grasso di querciuolo.
Vignarolo. Oimè! oimè!
Armellina. Giá avete avuta la cena, ora si prepara il retropasto di un cavallo su le spalle di cinquanta bastonate.