Atto III

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Atto II Atto IV
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ATTO III.

SCENA I.

Pandolfo, Cricca.

Pandolfo. Or mentre l’astrologo sta trasformando il vignarolo, Cricca, vo’ dirti un mio pensiero.

Cricca. Dite.

Pandolfo. Non mi basta il core a donar all’astrologo la catena d’oro che gli ho promesso.

Cricca. Chi ha promesso attenda.

Pandolfo. Confesso che fui troppo voluntaroso, e me ne pento.

Cricca. Mi ho fatto gran meraviglia che, sendo cosí avaro, abbiate a donare una volta cinquecento scudi.

Pandolfo. S’io son avaro, son avaro per poter esser poi liberale quando bisogna; ché chi è sempre liberale, all’ultimo non ha che dare. Ma la voglia di posseder Artemisia mi avrebbe fatto dar la vita, non che la robba.

Cricca. Mi va un pensiero per la testa come con onor vostro ce la possiate negare.

Pandolfo. Dubito che ora non intenda quanto parliamo.

Cricca. Che perdiamo a tentarlo? se riesce, guadagnaremo cinquecento scudi.

Pandolfo. Di’ su, presto.

Cricca. Quando egli verrá fuori per avisarci che il vignarolo è trasformato, io lo tratterrò ragionando meco; voi entrate in camera e nascondete alcuni vasi di argento, e poi venite fuori colerico e irato, gridando che vi sono stati tolti gli argenti. Egli dirá che non è vero, noi diremo di sí; al fin, dopo molto [p. 342 modifica]contrasto, direte che non gli darete la catena se non vi restituisce i vasi, minacciandolo ancora di accusarlo alla corte.

Pandolfo. E se l’inganno si scoprisse?

Cricca. Riversciaremo la colpa sul vignarolo che ha buone spalle.

Pandolfo. Non mi dispiace il tuo pensiero e son disposto seguirlo.

Cricca. Ma il punto sta e l’importanza del negozio in saper fingere il colerico, la stizza e il disgusto, e gridar alto e terribile.

Pandolfo. Lascia fingere a me, e se nol faccio naturale, mio danno, cinquecento ducati. Cacasangue! mi farò uscir i gridi fin dalle calcagne; ma bisogna che tu m’aiuti a dar ragione.

Cricca. Non mancarò: nelle mani vostre sta il guadagnare e il perdere cinquecento ducati se saprete ben fingere.

Pandolfo. Non piú, ché non intenda quanto ragioniamo. Ma eccolo che viene fuori.

SCENA II.

Albumazar, Pandolfo, Cricca.

Albumazar. Pandolfo, ecco, fra poco spazio avrete trasformato il vignarolo.

Cricca. Non è dunque trasformato del tutto?

Albumazar. È giá trasformato tutto il corpo, ma un solo piede e le mani li mancano.

Cricca. Dimmi, signor astrologo, per quanto tempo durerá il vignarolo nella figura di Guglielmo?

Albumazar. Per un giorno naturale.

Cricca. E ci sono anco i giorni contra natura?

Albumazar. Il giorno naturale se intende di ventiquattro ore.

Cricca. E quello contra la natura?

Albumazar. Quando il sol vien verso noi dinanzi e i giorni son grandi, son naturali; quando vanno indietro e son brevi, vanno contro natura.

Pandolfo. Oimè oimè oimè! [p. 343 modifica]

Cricca. Oh che gran gridi!

Pandolfo. A cosí gran botta non ho cagione di dar cosí gran gridi?

Cricca. Che cosa avete, padrone?

Pandolfo. Oimè, son morto, son rovinato del tutto!

Cricca. E come? (Va bene il principio). Di che vi dolete?

Pandolfo. La camera è tutta sgombra de’ paramenti e delli argenti!

Cricca. (Ben, benissimo! fingete assai del naturale).

Pandolfo. Canchero, che non fingo, dico da dovere: mi è stata sgombrata tutta la camera!

Cricca. (Gridate piú forte che ne siate meglio udito).

Pandolfo. Non potrei gridar tanto quanto ne ho di bisogno: mi ha rubato quanto aveva e non aveva!

Cricca. (Ah, ah, ah! non posso tener le risa come finge bene!).

Pandolfo. Mi è stato rubbato il mio e quel d’altri!

Cricca. (Sforzatevi di gridare).

Pandolfo. Non ho piú voce, diavolo! e mi manca la voce, il fiato e l’anima.

Cricca. (Ah, ah, ah, chi non ridesse?).

Pandolfo. Con questo tuo ridere mi cresce la rabbia: la camera è rimasta piú netta che un specchio!

Cricca. (E dite da senno?).

Pandolfo. Da maledetto senno! la fenestra verso levante è aperta e scassata, e dubito che di lá sieno state levate le robbe.

Cricca. (Questo era quel «levante» cosí inimico a voi: la porta da ponente fu la vostra che vi poneste le robbe, e quella da levante vi ha levate le robbe).

Albumazar. Pandolfo, che avete che gridate cosí alto?

Pandolfo. Tutto l’apparecchio è stato tolto dalla camera!

Albumazar. Sperate bene.

Pandolfo. Come posso sperare bene, veggendo male?

Albumazar. I panni e vasi di argento ho consignato al vignarolo, l’ho chiusi in quell’altra camera vicina acciò siano ben guardati. Fermatevi qui, ché fra poco lo vedrete comparire qui fuori trasformato in Guglielmo e vi restituirá il tutto. [p. 344 modifica]

Pandolfo. Or che faremo intanto?

Albumazar. Andaremo a spasso per mezza ora; poi tornate, aprite la camera e trovarete il vostro vignarolo trasformato in tutto; e poi verrò per la promessa per la catena.

Pandolfo. Cosí faremo.

SCENA III.

Albumazar, Ronca, Gramigna, Arpione.

Albumazar. Ronchilio, Gramigna, Arpione, uscite qui fuori.

Ronca. Eccoci, che volete?

Albumazar. Giá abbiamo conseguito quanto desiavamo: resta poca cosa a complire. Tu, Ronchilio, aspetta qui il vignarolo che esce di camera, fingi esser amico di Guglielmo, dagli questi dieci ducati con dir che gli dovevi dar a lui, per fargli piú credere che sia Guglielmo.

Ronca. E volete che io perda i dieci ducati?

Albumazar. Quali? che asino! Tu, Arpione, con quel braccio contrafatto toglili. Tu, Gramigna, trova Bevilona, quella puttana scaltrita: che si finga una gentildonna innamorata di Guglielmo; lo chiami a mangiare e a solazzarsi con lei; e ciò per fargli credere che sia quel Guglielmo. E fatelo star allegro e trattenetelo per due ore.

Ronca. Perché due ore?

Albumazar. Tra queste due ore tu, Gramigna, porta le robbe al Molo, piglia una fregata e caricala di tutte le robbe. Poi, va’ al Cerriglio e fa’ apparecchiar questi animali bene e questi liquori preziosi; porta la Bevilona all’osteria, che, dopo alzati ben i fiaschi, possiamo godere il trionfo delle nostre furbarie. Poi, di notte imbarcaremoci per Roma con tutto il bottino.

Ronca. Tu dove vai?

Albumazar. A tosare un’altra pecora che vuol fissar l’argento vivo con sughi di erbe: accrescerá il numero de’ burlati e il nostro bottino.

Gramigna. Cosí faremo. [p. 345 modifica]

Albumazar. Usate le barbe adulterine, impiastri ed altri linguaggi, ché non siate conosciuti per quelli istessi. Ma non vorrei che mentre attendo all’utile commune di un altro guadagno, che mangiaste senza me e mi rubbasti la parte mia, giaché sète ladri senza vergogna, senza legge e senza fede, che arrobbaresti voi stessi quando non avesti altri a chi rubbare.

Gramigna. Sarebbe cosa nuova forse? non ce l’avete insegnato voi?

Albumazar. Con la misura tua misuri tutti gli altri: «la cosa andará da zingano a giudeo».

Gramigna. Fai ora come or ti avessi a conoscere. Orsú, andiamo.

SCENA IV.

Vignarolo, Ronca.

Vignarolo. (Oh bella cosa l’essere trasformato in un altro! Io pensava che fosse trasformato tra la carne e la pelle; ma or come sono trasformato di volto cosí ancora mi sento trasformato di cervello. Mi par di esser diventato gentiluomo e smenticato affatto del villano: non mi resta altro di vignarolo che l’appetito e l’essere innamorato di Armellina. Son certo che niuno mi conoscerá, poiché io medesimo non piú conosco me stesso. Oh che cosa mirabile! credo che per ogni buco della mia persona sia un spirito. Vorrei andar a casa di Guglielmo per servir il padrone; ma par che non mi assicuri).

Ronca. Oh, signor Guglielmo, voi siate il bentornato per mille volte! Quanto tempo è che sète giunto in Napoli?

Vignarolo. Voi siate il ben trovato! Or giungo dal viaggio.

Ronca. Vi avemo giá pianto per morto.

Vignarolo. Son salvo e al vostro comando.

Ronca. Si ricorda Vostra Signoria, quando mi prestaste dieci ducati, che i birri mi menavano in prigione?

Vignarolo. Signor sí, signor sí, me ne ricordo.

Ronca. Quando venni a casa vostra per restituirli, vi venne la nuova del vostro naufragio: e non potendo restituirli a voi, [p. 346 modifica]avea constituito conservargli al suo ritorno. Ma poiché sète tornato sano e salvo, eccoli, ché dubito ne abbiate bisogno.

Vignarolo. Come, che ne avrò bisogno!

Ronca. Vi ringrazio della cortesia; mi raccomando a voi.

Vignarolo. Oh che sia benedetto quel punto nel quale mi trasformai in Guglielmo, ché, non avendo in vita mia mai potuto accoppiare uno carlino quando era vignarolo, or, essendo Guglielmo, in un punto ho guadagnato dieci ducati!

SCENA V.

Arpione, Vignarolo.

Arpione. Vi ho visto sbarcare or ora dalla nave, signor Guglielmo, di che ne ho tanta allegrezza che non posso contenermi di non abbracciarvi e baciarvi.

Vignarolo. Ed io col medesimo effetto vi bacio molto amorevolmente. Ma come vi chiamate?

Arpione. Non vi ricordate di Arpione che vi era tanto caro?

Vignarolo. Sí bene, or me ne ricordo, Arpione mio caro.

Arpione. Ringrazio la fortuna del mare che ne fe’ grazia di rivederci.

Vignarolo. Come state?

Arpione. Sète forse divenuto medico, che mi dimandate come stia? Comunque stia, son sempre al vostro comando. Perdonatemi, non posso contenermi che non vi abbracci e baci di nuovo, e sento tanta allegrezza che non ho lingua per esprimerla.

Vignarolo. (Mentre costui mi ave abbracciato mi ho sentito dare una scossa alla borsa. Le mani e le braccia me le sentiva al collo: se alcun da dietro non me l’ha tolta, non potrei saper chi fosse. Ma qui non è altri).

Arpione. Avete patito gran disagi nel viaggio, Guglielmo caro?

Vignarolo. Molti, Arpione mio carissimo. (Io veggio pur le mani di costui fuori, e pur mi sento levar la borsa).

Arpione. Orsú, me vi raccomando. A rivederci, ringrazio la vostra liberalitá. [p. 347 modifica]

Vignarolo. Ed io vi bacio le mani. (Io non li ho dato nulla e dice che ringrazia la mia liberalitá!). Oimè oimè, la mia borsa! oimè, i miei danari, o messer Arpione!

Arpione. Eccomi, che volete?

Vignarolo. Mostrami la mano.

Arpione. Eccola.

Vignarolo. Dove è l’altra?

Arpione. Eccola.

Vignarolo. Dove è l’altra?

Arpione. Che volete che abbia cento mani?

Vignarolo. Quale è la destra?

Arpione. Ecco la destra.

Vignarolo. La sinistra?

Arpione. Ecco la sinistra.

Vignarolo. Dove son le due mani?

Arpione. Quante volte volete vederle? forse i pericoli del viaggio vi fanno ferneticare?

Vignarolo. Oh, fermati! o ladro, o tagliaborse, o Arpione, proprio Arpione, ché come un arpione hai arpizato! Oh come è sparito! Ma come costui avrá potuto cosí stendere le membra e torcer le braccia, come i bagatellieri che fanno vedere e stravedere? o forse me l’ha tolta con i piedi? Or conosco che son un asino: non ha detto che si chiamava Arpione e che mi voleva arpizar la borsa? Perché lasciarmi arpizarla? Certo, che devo essere il vignarolo e non Guglielmo!

Arpione. Signor Guglielmo, che avete?

Vignarolo. Un truffatore mi ha tolto una borsa con dieci ducati.

Arpione. Mi dispiace non poter aiutarvi per mia disgrazia!

Vignarolo. Anzi per mia, per me solo!

Arpione. Come stava fatto?

Vignarolo. Con una ciera di ladro proprio come la tua; ma teneva un empiastro agli occhi come quelli che si pongono su le pannocchie. Che il cancaro si mangi tal razza di uomini!

Arpione. A voi mi raccomando. [p. 348 modifica]

SCENA VI.

Bevilona cortigiana, Vignarolo.

Bevilona. O vita, o contento, o metá dell’anima mia! Signor Guglielmo, che siate il bentornato per mille volte!

Vignarolo. Con chi ragionate, bella giovane?

Bevilona. Con il signor padrone della mia persona, della mia vita, d’ogni mio bene!

Vignarolo. Che ho io a far teco?

Bevilona. Quel che a voi piace di fare; e se mi comandate che vi faccia un tantino di piacere, ve ne farò un tantone.

Vignarolo. (Costei deve essere qualche mercadantessa che tiene fondaco aperto delle sue mercanzie. È qualche innamorata di Guglielmo: poiché gli rassembro Guglielmo, mi prende per scambio. Vo’ entrare con lei: che ci posso perdere? le comprarò una collazionetta o qualche cosellina. Ho fatto error a dire che non la conosceva: l’emendarò come posso). Signora mia, ho voluto cosí un poco scherzar con voi, per vedere se v’eravate smenticata di me per la mia partenza.

Bevilona. Io smenticarmi di voi, che dopo la vostra partenza sète restato piú vivo nell’anima mia che non ci era essa stessa? né per nuova della vostra morte si poté smorzar giamai una di quelle faville che s’accesero per man di Amore nel mio petto?

Vignarolo. Ed io per amor vostro son stato veramente molto travagliato di fantasia. Son gionto ora in Napoli, e prima che andasse a casa mia, m’era aviato alla vostra. Donque, avete marito?

Bevilona. E voi non lo sapete? quel bravaccio tanto vostro amico.

Vignarolo. Sí sí, lo conosco bene; e se tornasse fratanto?

Bevilona. Come state cosí rispettevole? Non vi ho visto mai cosí tiepido come ora. Entrate. [p. 349 modifica]

Vignarolo. Vi verrò dietro. (O felice Guglielmo, quanto eri felice; e o felice me, che la godo in sua vece! Non è maggior piacere al mondo che diventar un altro).

SCENA VII.

Gramigna, Bevilona, Vignarolo.

Gramigna. (Giá il vignarolo deve esser su’ baci: vo’ sconciarlo e gustar un poco del fatto suo). Tic toc.

Bevilona. Olá, chi batte?

Gramigna. Don Giovanni Termosiglia Caravaschal di Siviglia!

Vignarolo. (Oh quante genti!).

Bevilona. (Non è altro che mio marito. Oh che sia venuto in mal punto!).

Vignarolo. (Ha nominato tante persone).

Bevilona. (Non ha tanti nomi quanti ha diavoli in corpo: o meschina me! Signor Guglielmo, cercate salvarvi, saltate per quella finestra).

Vignarolo. (Apritemi l’uscio di dietro del giardino, ché mi sará piú caro).

Bevilona. (Non si può aprire, ché se ne porta le chiavi).

Vignarolo. (Che ho donque da far per scampar fuori?).

Bevilona. (Salta per quella fenestra).

Vignarolo. (Dio me ne guardi! è troppo alta: volete che mi rompi una gamba?).

Bevilona. (Una gamba piú o meno poco importa).

Gramigna. Mujer, perché mori tanto?

Bevilona. Or or, marito mio.

Vignarolo. (Evvi alcuna altra via da fuggire?).

Bevilona, (Niun’altra, meschina me!).

Vignarolo. Por cierto que deve star alcun innamorado, pues que non abre presto.

Bevilona. (Non posso piú tardare: bisogna aprire. Ci è una botte vòta, che a mio modo posso porre e riporre il fondo). [p. 350 modifica]

Gramigna. Se non mi abreis presto, enviaré esta puerta per tierra.

Bevilona. È rotta la fune del saliscende: calo giú ad aprirne. (Presto, Guglielmo caro!).

Vignarolo. (Fo quanto posso!).

Gramigna. (Giá deve essere entrato nella botte: lo tratteneremo almeno per due ore ché non ada a casa, e ci torremo spasso del fatto suo). Viene ora. ¿Mujer, que haceis?

Bevilona. Ecco aperta; ché tanta fretta, marito? non volermi dar tempo di calar giú?

Gramigna. Tengo pressa porque ho mercado una onza de vino: es menester ora limpiarla donde es da ponerse, ché sará qui or ora. Piglia, Bevilona, di fuora.

Bevilona. Lasciamo far questo per oggi: lo faremo domani.

Gramigna. Es menester hacerlo ora.

Bevilona. Non ho tanta forza di portarla io qui fuora.

Gramigna. Yo te ayudaré: abre la porta; non es menester tanta fuerza, eccola desclavada. Quiero limpiarla.

Bevilona. Andate voi per lo vino, ché io la laverò.

Gramigna. Yo la limpiaré, ché ahora sará aquí lo vino. Trae aqui agua bulliente per limpiarla.

Bevilona. Dove è ora l’acqua calda per lavarla?

Gramigna. Toma quella che sta nel fuego per limpiar los pez.

Bevilona. Non posso ora, ché son stracca.

Gramigna. Se yo ne tomaré un palo, te ne dare cinquanta.

Vignarolo. (Misero me, che farò? mi scotterò tutto?).

Gramigna. Eres una mujer muy soberbia, non quere alzar algo sin palos.

Bevilona. Eccovi l’acqua.

Gramigna. Ponla por este aguiero, dalla qui, deja hacer á mi.

Bevilona. Ecco fatto.

Gramigna. Tomais vos de una parte, yo de la otra, y menealla un poco.

Bevilona. Non piú non piú, ché non posso!

Gramigna. Bien sta, ora lo quiero inviar alla marina. [p. 351 modifica]

SCENA VIII.

Ronca, Gramigna, Vignarolo.

Ronca. Che volete da me, missere?

Gramigna. Che me traes esta curba alla marina.

Ronca. La potarò dove volete, purché mi paghiate.

Gramigna. Toma medio real.

Ronca. Non vo’ men d’un carlino, se volete che la porti in testa; ma se mi date meno, la portare rotolando a vostro risico.

Gramigna. Tracia como quieres.

Ronca. La porterò rotolando.

Gramigna. Camina, ché io vendré atrás.

Vignarolo. (O povero vignarolo, quanto era meglio per te star alla villa nella tua forma che voler trasformarti in altro!).