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atto quarto | 359 |
SCENA V.
Lelio, Armellina, Guglielmo.
Lelio. (Non so con chi ragiona Armellina: mi pare forastiero). Con chi parli?
Armellina. Con l’anima di vostro padre, che vuol entrare per forza in casa nostra.
Lelio. Veggio l’aspetto di mio padre. Oh quanto se gli assomiglia! Se Cricca non me ne avesse avisato prima, chi bastarebbe a farmi credere che fosse il vignarolo? Certo sará qualche spirito dell’inferno che ha costretto l’astrologo a venire in cotal forma.
Guglielmo. (Costoro mi faranno venir tanta rabbia col vignarolo e con l’astrologo che mi farebbero sommergere un’altra volta nel mare da me stesso! Da chi spero essere riconosciuto se l’istesso mio figliuolo non mi conosce?).
Lelio. Oh possanza delle scienze! quanto son grandi! Or chi bastarebbe a credere che i potenti influssi delle stelle partorissero tanta varietá? Mutar un uomo in un’altra forma! Lo vorrei schernire e burlarlo, ma mi par tanto simile a mio padre che la riverenza del suo aspetto mi ritiene.
Guglielmo. (Oh almeno avessi un altro capo per battere questo in un muro!). O figlio, se non conosci l’aspetto di tuo padre, considera che l’ardore del sole mi ha fatto un poco nera la pelle e crespa, e gli occhi ficcati nella fronte per il disagio del viaggio e del paese; e ancorché siano mutati i lineamenti del viso, considera l’aria del sembiante che non si può perdere: almeno considera la ferita della mano che gli anni adietro tu mi aiutasti a medicarla.
Lelio. Colui, che ha trasformato il vignarolo in Guglielmo, ha trasformata la persona del vignarolo con quella ferita istessa che avea Guglielmo; ché altrimenti non saria trasformato.
Guglielmo. Figlio, non so che altra certezza possa darti che sia tuo padre.