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atto quarto | 363 |
non fossi mai stato, e che io fossi te e tu me, che io dessi e tu ricevessi le pugna!
Vignarolo. Dimmi or, chi sei?
Guglielmo. Son quello che tu vuoi che sia: Pietro, Giovanni, Martino.
Vignarolo. E perché dicevi poco dianzi che tu eri Guglielmo?
Guglielmo. Avea bevuto in un’osteria e stava ubriaco.
Vignarolo. Poiché non sei piú Guglielmo, chi sei?
Guglielmo. Tuo schiavo, tuo servitore.
Vignarolo. Io non ti vidi né conobbi mai, né sei mio schiavo né mio servitore.
Guglielmo. Ma di grazia parliamo a ragione: se non son Guglielmo, chi sono?
Vignarolo. Se non lo sai tu chi sei, manco lo so io: sei un cavallo, un bue, un asino.
Guglielmo. Messer sí, se fussimo nel tempo di Pitagora, direi che quando mi sommersi morii e l’anima mia entrò in un altro corpo e son un altro. Vorrei saper chi sono.
Vignarolo. Sei un tartufo!
Guglielmo. Sto fresco: questa veramente è una gran cosa; a me par essere pur quel Guglielmo di prima. Io non son morto: vedo, parlo, mi muovo; o forsi quando mi sommersi, per la gran paura che ebbi quando mi vidi la morte cosí vicina, fossi divenuto un altro, e mi bisogna trovar un’altra persona per essere alcuno?
Vignarolo. Non piú parole: o va’ via o fa’ meco questione!
Guglielmo. Non farò questione io teco.
Vignarolo. Partiti e non dir piú che sei Guglielmo.
Guglielmo. Oh disgrazia grande e non mai piú intesa, che un uomo abbia perduto se stesso e non sappia chi sia! E mi par questa disgrazia maggior della prima; e accioché il tempo non possa dar fine alla mia miseria, fa che sia scacciato da casa mia con dire che sia un altro, e poi trovar un altro che dica esser me. O voi tutti miseri e disgraziati che sète al mondo, correte a vedere la mia disgrazia, ché tutte le