Lezioni sulla Divina Commedia/Appendice/IV. Critica dell'estetica hegeliana

Appendice - IV. Critica dell'estetica hegeliana

../III. Dai riassunti delle lezioni tenute a Zurigo ../V. Critica del 'Tipo' e dell'estetica dello Schopenhauer IncludiIntestazione 4 settembre 2023 75% Da definire

Appendice - III. Dai riassunti delle lezioni tenute a Zurigo Appendice - V. Critica del 'Tipo' e dell'estetica dello Schopenhauer
[p. 338 modifica]

IV

CRITICA DELL’ESTETICA HEGELIANA

Dalla lezione IV, intitolata: «Mondo intellettuale allegorico»

(contenuta nel ms. autografo della Bibl. Naz. di Napoli, XVI, C. 36).


Dante credette cosí d’esser poeta; poiché la poesia per lui era il vero condito, come dice il Tasso, un semplice condimento. E quello che egli credette, lo hanno creduto critici e poeti per parecchi secoli; sicché i suoi lodatori, dal Boccaccio al Gravina, vantano la sua dottrina, cercano qui la sua grandezza. Onde nel volgo è rimasa l’opinione che l’eccellenza della Divina Commedia sia nella profonditá della filosofia e della teologia; la quale opinione rende quel libro poco popolare; perché il volgo fa un po’ come la donna, che ama volentieri parlare degli uomini eruditi, ma si annoia della loro presenza; il volgo ammira i libri dotti, ma non li legge. E poiché oggi ad una critica rimbambita, che ponea ogni valore nelle parole, è succeduta una critica astratta, che guarda principalmente al concetto e ne fa un criterio, di modo che secondo che quello è buono o cattivo, vero o falso, approva o biasima; poiché ad una vacua sonoritá è succeduta una poesia di riflessione, dove lo spirito uccide la lettera, dove il corpo è posto come un pretesto per mostrare il concetto, ed il poeta alla prima occasione te lo pianta li e si abbandona a considerazioni generali; poiché Dante è lodato di quello, che si può in lui spiegare, scusare, ma non approvare, mi si concederá ch’io insista alquanto. [p. 339 modifica]

Il pensiero in quanto pensiero è fuori dell’arte. L’umanitá pensa sempre, ma pensa, ora adorando, ora immaginando, ora operando, ora pensando. Che cosa è il pensiero per un gran sonatore? Il pensiero è melodia; a un tempo stesso gli lampeggia innanzi alla mente e gli freme sotto le dita. Che cosa è il pensiero per un gran poeta? Il pensiero è l’immagine; egli non dee, non può saper pensar se non con l’immaginazione. Il filosofo, se vede un pomo cadere, corre immediatamente con l’animo alla legge che governa quel fatto, ed il pomo si trasforma in un principio generale. Il poeta è agli antipodi; se apre un libro di filosofia, ecco raggi di sole e vaghe fanciulle che gli guastano il sillogismo, e la maggiore si trasforma in un pomo che cade. La poesia non è né veste, né velo, né condimento, né spezie, né aromi; il poeta non è un cortigiano, nato ad accarezzare il pensiero, a dargli grazia, ad aspergerlo di soave liquore, come dice il Tasso. Anzi il poeta nasce ad uccidere il pensiero; perché questo non gli si può presentare, che subito non muti natura. Sento spesso dire: il poeta dee esser filosofo; pensieri vogliono essere e non parole. Sono modi di dire veri in un senso, e falsi in un altro, e ne nascono equivoci. L’idea in poesia dee avere un corpo, dee vivere con esso, anzi in esso; uccidere il corpo, farne un accessorio, o un semplice termine di paragone, o un’occasione per salire al pensiero, è atto da iconoclasta, è spogliare il tempio delle sue statue, è mutilare la vita, dissolvere il reale, è uno spiritualismo portato fino all’idealismo: questo non è piú poesia.

Certo, come ci sono filosofie mescolate di poesia, cosí ci sono poesie mescolate di filosofia, nelle quali l’incarnazione del pensiero è incipiente. Sono forme poetiche manchevoli, provvisorie, di transizione, momenti storici, ne’ quali il pensiero resiste ancora e l’arte non ha la forza di assimilarselo compiutamente. Porre qui il modello della poesia gli è come porre il modello dell’uomo in Tom Pouce.

La filosofia moderna, sorta da una esagerata reazione contro il materialismo, che a sua volta ora leva il capo con animo vendicativo, ha molto conferito a gittare critica e poesia in un falso [p. 340 modifica]indirizzo. Il concetto, l’ideale, l’intelligibile, il divino, l’eterno, l’idea, il tipo e l’archetipo, ecc., ecco le parole della nuova poetica, che volgono lo stesso genio ad un lavoro puramente intellettuale: poiché queste parole mostrano abbastanza, come l’attenzione è condotta piú specialmente sulle idee. Hegel congiungeva con rara penetrazione molta finezza di gusto ed un sentimento squisito dell’arte; il che lo ha tenuto in certi giusti limiti, varcati da’ suoi discepoli. Il sistema è inesorabile, come il fato, e ti spinge innanzi innanzi sino all’abisso, te veggente e ripugnante, ma quasi ammaliato. Pur quando sull’orizzonte cominciano a scoprirsi talune conseguenze, a cui resiste la ragione, l’uomo d’ingegno si riscuote all’improvviso e non vuol piú andare e rimane a mezza via. Se non che, in luogo d’inferirne l’insufficienza del sistema, cerca, come innamorato, mille vie ingegnose, mille transazioni per conciliarlo con la ragione, e diviene sofista ed inconseguente. Il sistema sospingeva Hegel a cercare nella forma l’idea, ma il sistema non lo sospinse sino a disconoscere l’unitá organica dell’idea e della forma, anzi la sua maggior gloria è di avere altamente proclamata la contemporaneitá de’ due termini nello spirito del poeta, e di aver posta l’eccellenza dell’arte nell’unitá personale, in cui l’idea stia involuta e come smemorata. Pur questa veritá non entra naturalmente nel suo sistema, ed egli non ha potuto farvela entrare senza alterarla. Nessuno piú di lui ti parla d’individuo e d’incarnazione, sente che lá è il vero; ma, in grazia del sistema, questo suo individuo libero e poetico è nel fatto un individuo-manifestazione, o per dirla col linguaggio in moda, un velo trasparente dell’idea; sicché il principale, l’importante è sempre la cosa manifestala. Ora, a che prò parlarmi di unitá indissolubile, indestruttibile? quando voi, nel medesimo tempo che l’aflermate, la distruggete distinguendo i due termini, e facendoli servire l’uno a manifestare l’altro. Cosi in questa poetica senti di continuo parlare di idea e di forma, con manifesta tendenza a spiccar sempre dalla forma l’idea, a dire in aria di trionfo: L’ho trovate! Idea e forma! idea che dee manifestarsi, e forma che dee manifestare! — Ma questo momento, per valermi dello stesso linguaggio, è puramente [p. 341 modifica]filosofico, è fuori dell’estetica; perché nell’estetica l’idea ha giá oltrepassata se stessa, non esiste piú; ciò che esiste, è la forma. Il poeta nel caldo dell’ispirazione vede immagini, fenomeni, forme, e le vede non come velo o manifestazione d’idee, ma come forme, cioè belle o brutte. Vede il mondo giá formato e in azione, e non sa in virtú di quali leggi generali, di qual metafisica abbia preso quella forma ed operi a quel modo. Domandate ad Omero e Virgilio, a Shakespeare ed all’Ariosto qual è l’idea del loro mondo; non lo sanno. Ciò che sanno, è quello che veggono, la vita in atto; caratteri, passioni, sentimenti, istinti, movimenti, linee, figure, idee, # sono in sé delle astrazioni; il poeta rappresenta oggetti particolari in certi stati o momenti della loro esistenza, quello che sono o paiono o fanno. Certo non possono essere o parere o fare che in loro non compariscano caratteri, sentimenti, idee, figure; ma appunto perché compariscono, sono non piú l’idea, ma la forma, non piú il generale, ma il particolare. Hegel ammette queste veritá, e, per accomodarle al sistema le altera. Perché, come il suo mondo è l’esistenza dell’infinito nel finito, come il suo spirito è il trasparire dell’infinito dal finito, cosí il bello per lui è l’esistenza dell’idea nella forma, ciò che chiama l’ideale. Ora l’esistenza dell’idea nella forma ti mette innanzi due termini distinti, l’uno come contenente e l’altro come contenuto, de’ quali il contenuto non solo è, ma dee disotto al fenomeno trasparire come il sostanziale. Cosi il particolare di Hegel è un velo del generale, la sua forma è l’apparenza dell’idea. Il suo buon giudizio lo ha preservato dalle conseguenze ultime di questa teoria; né è a dire, con quante cautele ed avvertenze si sforza di preservarne i lettori. E spesso ripete, che in poesia il generale sta come anima, che move e fa tutto, essa invisibile e impalpabile, presente in tutte le parti senza essere in alcuna; che il generale non dee comparire, ma trasparire; che solo il particolare dev’essere espresso. E piú che questo, mostra la buona via col suo esempio: poiché questo filosofo rigido sotto apparenza algebraica nasconde un sentimento dell’arte piú caldo e piú profondo, che non trovi in tanti cicaloni da’ punti ammirativi. Ma che vale? Data la spinta, non ci è ritegno. Il sistema ha [p. 342 modifica]fruttificato nella scuola. Il contenuto, il significato interiore, l’idea, il concetto, ecco la calamita del critico hegeliano. In teoria ti parla di unitá organica; ma nel fatto, sente una tentazione irresistibile a staccare dalla forma il contenuto e dal contenuto l’idea. Il problema per lui è di cercare innanzi tutto l’idea, e poi di paragonare con quella la forma: ci è un prima ed un poi. Trovata l’idea, te la considera nella sua generalitá, e poiché, come generale, non ha ancora qualitá estetiche, ma solo intellettuali e morali, discorre del suo significato, della sua importanza morale e sociale, e fa dipendere dal valore di quella il valore della poesia. Cosi sono nate le distinzioni di poesie pagane, cristiane, cavalleresche, ecc., nelle quali la differenza ed il valore dell’idea e perciò della materia o contenuto costituisce la differenza ed il valore della poesia. Cosi sono nate le innumerabili dissertazioni sul contenuto astratto de’ grandi lavori poetici. Questo indirizzo è visibile ne’ comentatori tedeschi della Divina Commedia, intesi principalmente ad esporre ed a dissertare sul contenuto ed a pescare le idee nelle allegorie. È vero che i critici aggiungono sempre, che tutto questo è una finzione; che nella poesia il contenuto e la forma sono una cosa; che il poeta opera in un modo e il critico in un altro; che il critico dee scindere quello che nel poeta è uno. Qui ci è anche la veritá, ma secondo il solito alterata, una mezza veritá. Il critico può e dee scindere ciò che si trova nell’oggetto poetico; ora in questo non si trova certo l’idea nella sua generalitá, e correre sino qui ò un mettersi al di lá dell’oggetto poetico, un vederci quello che non ci è. Il critico vede nell’Ifigenia il trionfo della civiltá sulla barbarie, e celebra la grandezza e l’importanza di questa idea. Il poeta ci ha veduto solo quello che ha rappresentato. Ha veduto una donna, sacerdotessa insieme e sorella, ed ha rappresentato i sentimenti che nascono da questa collisione. Certo ciascun fatto particolare ha un valore generale, e si può dalla vista di una cipolla salire fino all’idea cosmica, si può da Ifigenia correre sino al trionfo della civiltá. Ma questo è un prendere l’oggetto nel punto che si presenta al poeta, ed invece di accompagnare il poeta nella formazione di quello, mettersi a camminare [p. 343 modifica]tutto solo indietro sino all’idea. In questo cammino da gambero non ci è più l’oggetto, non ci è piú il poeta, non ci è piú la poesia: il poeta ti presenta Ifigenia nel fiore della giovanezza e della beltá; il critico fa una corsa indietro, e giunge sino all’alvo materno. Varo, rendimi le mie legioni! Critico, rendimi la mia Ifigenia! Egli è vero che il critico dopo di aver passeggiato a bell’agio nel mondo della sua idea, ritorna presso al poeta e gli rende Ifigenia. Ma quale gliela rende! non è piú quella; è una Ifigenia veduta attraverso l’idea e giudicata e condannata in nome dell’idea. — Caro Euripide, la tua Ifigenia non rassomiglia all’idea. — Non vi comprendo. — Me l’attendevo. Come poeta greco, non conosci l’idea; ma la c’è. La tua idea è il trionfo della civiltá sulla barbarie. Non farmi gli occhioni. Senza saperlo, tu hai rappresentata una magnifica idea. (E qui il critico ti sciorina un elogio metafisico-morale-politico-storico dell’idea). Me ne rallegro vivamente: una magnifica idea! Ma, caro Euripide, come ti è venuto il grillo di far dire una bugia a questa tua Ifigenia? Una rappresentante della civiltá non dee dir bugie; e Goethe ha ben fatto a correggerti.

Il poeta, secondo questa critica, in luogo di abbandonarsi alla contemplazione della natura, l’eterno libro della vita, guarda l’oggetto con occhio filosofico, e comincia col domandarsi: qual è l’idea, di cui questo oggetto dee essere manifestazione? Allora il permanente si stacca dall’oggetto e gli si presenta come idea; l’oggetto nella sua integritá è scomparso, è ito a confondersi nel mare dell’essere, nella generalitá della sua idea. Avendo ora il poeta innanzi non piú l’oggetto, ma l’idea, a questa s’attiene e l’esamina, la determina, ne fa il letto di Procuste, e ci accomoda a viva forza l’oggetto, aggiungendo e tagliando. In quest’oggetto artificiale, dove tutto è predeterminato, come in un orologio, hai mutilazione ed esagerazione. Quello che ne è risecato e che il costruttore chiama l’accidente, l’indifferente, il repugnante, solo perché si trova fuori della sua idea, è pur quello in cui i caratteri ideali hanno il calore e la veritá della vita. E come l’idea non si trova mai tutta intera in nessun individuo, ed il poeta vuol pure porvela tutta, insieme con [p. 344 modifica]la mutilazione hai l’esagerazione; ciò che vi è, si trova li accumulato e ingrandito. L’individuo è falsificato in grazia dell’idea; eppur questo chiamano gli estetici con superbo titolo «poesia monumentale».

Questo procedere, secondo il quale, data l’idea, il poeta s’ingegna di accomodarvi l’oggetto, è ciò che dicesi l’individuale o l’individuazione: onde senti spesso parlare d’individui rappresentanti, e d’idee individuate. Ora l’individuazione è per rispetto all’individuo quello che la personificazione è per rispetto alla persona, una finzione rettorica. L’individuazione e la personificazione sono le forme proprie dell’individuo e della persona, applicate a ciò che non è né individuo, né persona, a ciò che è idea; e questo perché l’idea in sé non è rappresentabile, è fuori della poesia. Ora questo individuo astratto, nel quale il differente scompare e rimane solo il comune, ci sta non per sé, ma come un semplice mezzo di rappresentazione; l’idea rimane un generale, un non individuo; la forma la prende ad imprestito, ed in luogo di adagiarvisi e nascondersi, tende di continuo a spiccarsene ed a mostrarsi. Cosi il Tasso del Goethe è un prestanome, la copia di un’idea, che se ne stacca visibilmente e spande per entro il componimento la freddezza dell’astrazione. Il medesimo può dirsi della sua Ifigenia, la quale è difettosa, appunto perché non ha difetto, perché non pecca mai verso l’idea. L’Ifigenia di Euripide al contrario è un individuo, messo in condizioni particolari, che operano, come forze interne, fuori dell’idea, e qualche volta contro l’idea. E si può paragonare ad una lingua vivente, che contiene e dee contenere molti peccati verso la logica, irregolaritá, eccezioni, accidenti, perché a formarla, oltre la logica, concorrono molte condizioni. E come il colore proprio di una lingua è in ciò che ha di piú intimo e particolare, di piú fuggevole, cosí il poetico di un individuo è piú nell’azione de’ sentimenti e della natura, che nella potenza dell’idea. L’idea dee nell’individuo, come la logica nella lingua, esser vita interna, in concorrenza con altre forze, e perciò determinata e condizionata. 11 critico al contrario ha innanzi l’idea, come assoluta, nella sua generalitá, fa di questa lo scopo del [p. 345 modifica]lavoro poetico, e dell’individuo un esempio, un mezzo per giungere lá. Indi la perfetta concordanza ch’egli richiede tra l’individuo e l’idea, le costruzioni a priori, nelle quali gl’individui servono a manifestare idee religiose, politiche, filosofiche, morali, una filosofia dell’arte cosí parziale e sistematica, come la moderna filosofia della storia; in amendue una specie di fato, che sotto nome d’idea si sostituisce con una stoica rigiditá al libero gioco delle passioni, a tutta la varietá de’ motivi interni ed esterni. Poiché la sostanza è nell’idea, l’individuo diviene una forma estrinseca, un mezzo poetico per dare a quella un’apparenza. Non è maraviglia dunque che a combattere l’esagerazione dell’idealismo sorga ora il realismo, destinati l’uno e l’altro a rimaner fuori dell’arte, perché, non ostante le reticenze, le cautele e gli attenuamenti, per la fatalitá logica del sistema l’uno ha per suo centro l’idea come idea, e l’altro l’individuo come individuo, l’uno il puro generale, l’altro il puro particolare. Per me, l’essenza dell’arte è la forma, non la forma veste, velo, specchio, e che so altro, manifestazione di una generalitá distinta da lei, quantunque unita a lei, ma la forma, in cui l’idea è giá passata, ed a cui l’individuo si è giá innalzato: qui è la vera unitá organica dell’arte. Ora la forma non è una idea, ma una cosa; e perciò il poeta ha innanzi delle cose e non delle idee. Ciò che in poesia vive di una vita immortale, è la forma, qualunque si sia l’idea e quindi il contenuto. Certo, il poeta non è solo poeta, ma uomo, e cittadino e filosofo e religioso, e dee rispondere di quello che scrive, ma per considerazioni estrinseche all’arte. Ora il difetto de’ critici volgari è di confondere queste due cose, è di approvare o disapprovare secondo il valore del contenuto.

Questa confusione non è possibile che non la faccia anche alcuna volta il poeta, determinato alla scelta del contenuto da fini inestetici e perciò in continua tentazione di mostrarlo sotto certi rispetti che sono fuori dell’arte. Ogni contenuto è una totalitá, che come idea appartiene alla scienza, come esistere materiale appartiene alla realtá, come forma appartiene all’arte. Il che non vuol dire che il filosofo, guardando nel contenuto [p. 346 modifica]l’idea, debba sopprimere il resto; ma che tutto il resto dee essere considerato in relazione all’idea. E non vuol dire che il poeta, cogliendo il contenuto come forma, debba sopprimere il resto, cioè a dire quello che ci è di religioso, di politico, di morale, di reale; ma che tutto questo debba comparire come forma, bello, sublime, orribile, brutto, ecc. Non è una mutilazione, non un’astrazione; quello che fa lo storico, il filosofo, il poeta, è quel medesimo che fa la natura. Il mistero della vita è che il tutto non comparisce mai come tutto, ma come parte, la quale non esclude, ma si assimila il rimanente. Cosi nell’uomo tutto l’essere apparisce ora come riflessione, ora come immaginazione, ora come sentimento, ora come figura, ora come azione; e ciascun momento attrae in sé tutti gli altri, dando ad essi il suo colore. Un uomo vede un fanciullo naufragare e si gitta a soccorrerlo: tutto il suo essere apparisce qui come azione. Ciò che pensa o immagina o sente, rimane inespresso per lui e per gli altri, dico inespresso come pensiero, immagine, sentimento; tutto questo ci sta, ma ci sta come azione, nel gesto, nella figura, nel grido, ne’ suoi diversi movimenti. Poniamo ora che spettatore di questo fatto sia un filosofo, o un moralista, o uno scultore, un poeta, uno storico, un cronista, ecc. È chiaro che il contenuto muterá natura, considerato sotto questo o quel rispetto secondo che sará guardato dall’uno o dall’altro. Il filosofo per esempio salirá subito all’idea, e lo spettacolo diventerá per lui una semplice occasione o un esempio; l’interesse sará tutto nel generale, a cui rimarrá subordinato il rimanente. E che fará il poeta? Dovrá cercare anche lui l’idea, e fare del contenuto una manifestazione di quella? Questo è ridurre la poesia ad una favoletta col suo docet in coda; questo avviene in certi momenti storici, avviene dopo come imitazione, ed in quei poeti ancora, che guardano l’oggetto, preoccupati da fini o da teorie particolari; mai non è avvenuto, mai non avverrá, che un poeta schietto, abbandonato a se stesso, corra all’idea; e tanto meno che rappresenti il fatto in modo che consuoni con una idea non cercata e non saputa da lui, il miracolo che si pretende [p. 347 modifica]abbiano fatto i poeti greci. L’arte è visione; ciò che opera su di un’anima poetica e la fa risonare, è il contenuto in quanto apparisce, cioè a dire la figura. Dicesi che in poesia la figura dee essere un fantasma, un’immagine fluttuante come tra cielo e terra, una materia assottigliata e trasparente, e non so che altro di un chiaroscuro misterioso. Il che tradotto in buon linguaggio prosaico, vuol dire che la figura poetica dee essere espressiva, dee contenere ed esprimere non solo se stessa, ma tutto il rimanente, immagini, accidenti, affetti, sensazioni, sentimenti, idee. Il compimento della figura è perciò nell’impressione; una figura sterile, oziosa, ineloquente, è materia bruta, stupida realtá. Molti pongono l’ideale nella consonanza della figura coll’idea, e fanno della figura come un istrumento meccanico musicale, destinato a produrre suoni. Ora la figura non è una macchina a impressioni e tanto meno a idee; è amabile e interessante in se stessa; tutto l’altro ci sta per lei, dee menarci a lei, in lei il principio, in lei la fine di ogni interesse. Noi amiamo tutto l’essere, cioè la figura con tutte le sue imperfezioni; siamo creature ed amiamo come creature. Chi non se ne contenta, chi la maneggia come una cosa che gli appartiene, e sotto pretesto di idealizzarla, conformarla ad un’idea, cumula, ingrandisce le qualitá, esagera le proporzioni, carica i colori, dissimula i difetti, costui fa un lavoro artificiale e profana la figura: perché la figura non è giá una cosa, ma un essere libero, che ci sta di rincontro e vuol esser compreso, tutto intero com’è. Se consultiamo la ragione, non possiamo concepire come l’uomo debba porre interesse in una labile creatura, e c’illudiamo e vogliamo credere che amiamo in lei ciò che è immortale, l’idea. Questo sará filosofico, ma non è umano. Ciò che ci è di piú profondamente tragico nell’umano destino è che il nostro infinito, il nostro universo è l’individuo, e non lo amiamo giá come manifestazione di esso infinito, ma lui amiamo come lui e per lui; cosa tanto fragile amata con la coscienza dell’eterno! onde la tragedia del fato e della morte. In poesia l’individuo conserva lo stesso valore; l’ultimo risultamento di un lavoro poetico non è l’idea, ma [p. 348 modifica]l’individuo, quell’individuo, quella figura, Francesca o Giulietta.

Mi si dirá: che cosa dunque diventa l’idea? L’idea è stata; non è piú. L’idea ha partorito una bella fanciulla; il poeta contempla la figlia e non conosce la madre; corre appresso alla figura ed abbandona l’idea alla provvidenza.

Sento spesso dire: il poeta ha rappresentato il tale individuo per mostrare il tale tipo e il tale carattere, ed ha rappresentato il tale tipo e carattere per mostrare la tale idea. E una conseguenza di questa critica falsificatrice dell’arte. Il poeta mostra l’individuo, come individuo, per se stesso, l’individuo in cui l’idea, l’istinto, il sentimento, la passione, la figura è uscita dalla sua generalitá ed ha preso determinazioni particolari. Ed il suo scopo non è giá che l’individuo abbia ad oltrepassare se stesso e sentirsi come generale, di modo che l’ultimo risultamento sia la decomposizione dell’individuo, o come si dice l’individuo sparente, il generale, che trasparisce dal particolare. Anzi è il contrario; è il generale divenuto, nel tale e tale modo di esistere, e perciò il generale sparente o sparito, vale a dire non piú il generale, ma la forma, o l’individuo, un individuo indecomponibile.

Adunque l’idea in sé e il contenuto in sé non sono una base poetica, l’idea in sé, base dell’idealismo, il contenuto in sé, base del realismo. Amendue sono giá divenuti un’altra cosa, quando si presentano al poeta. L’idea è diventata la forma, e il contenuto è diventato la figura.

Il contenuto è figura, quando non è piú il semplice materiale, ma la materia organizzata. L’idea è forma, quando non è piú il semplice pensiero, ma l’unitá dell’organismo. La poesia s’inizia nella figura, la quale di mano in mano s’innalza a ciò che di piú spirituale è nella forma. Cosi balzan fuori i sentimenti e le idee, non in sé, nella loro natura, ma come implicati nella figura e sviluppantisi da essa, quasi suoi raggi. Balzan fuori, come atti della vita, movimenti, sensazioni, impressioni della figura, o come effetti dalla figura prodotti sul contemplante, sul poeta. Per questa via si può giugnere fino all’assoluto; si [p. 349 modifica]può sviluppare piú o meno chiaramente anche il generale, ma come coscienza della figura e impressione del poeta. La foglia di faggio può ben dire:

                                                   Vo dove ogni altra cosa,
Dove naturalmente
Va la foglia di rosa
E la foglia di alloro.
     

Essa ha coscienza che il suo destino è il destino di tutte le foglie, e si leva ad un fatto generale. Il poeta potrebbe aggiungervi, come sua impressione, un fatto ancora piú generale, che si trova inchiuso in questa poesia, e ne costituisce il fondo tragico, cioè a dire che l’uomo è preda e vittima del fato, come la foglia del vento. Potea dirlo, e non l’ha fatto, mostrando cosí un gran senso poetico, perché questa idea espressa sarebbe una sentenza badiale, laddove involta come sta si risveglia nell’immaginazione del lettore in una forma indefinita, accompagnata da immagini e da sentimenti, tanto piú poetica, quanto men chiara:

                                         quanto si mostra men, tanto è piú bella.      

Allorché di autunno vediamo cadere ad una ad una le foglie, siamo compresi da un vago senso di tristezza e fantastichiamo, abbandonati ad un flutto di sentimenti ed immagini lugubri. Il pedante che scuotendo gravemente il capo ti pronunzia il famoso: pulvis et umbra sumus, con la chiarezza dell’idea ti disincanta e ti spoetizza. Pure il poeta può in certi casi, trasportato dalla corrente delle impressioni, uscire dalla forma e salire al generale, a quel modo che ha fatto la foglia di faggio, ma appunto a quel modo. Il generale non si spicca dalla figura, non trasporta in sé l’interesse, è il pensiero della foglia, è parte della vita di quella. Il valore estetico è nella foglia, una povera foglia frale, animata con tanta potenza dal poeta, che ci si offre come una tenera creaturina, separata da’ genitori, gittata in balia della fortuna, infelicissima e inconsapevole della sua infelicitá, la quale ti dice [p. 350 modifica]con una serena ingenuitá cose che ti straziano. Ci è qualche cosa di tutte le foglie in questa foglia, ma ciò che la fa lei è ciò che la rende poetica; e questo non solo non mena al generale, ma lo fa dimenticare; sicché, se vogliamo guardare alle prime impressioni, dirette, immediate, che costituiscono l’impressione poetica, innanzi all’immaginazione del lettore ci sta infino all’ultimo non le foghe, non un tipo, un genere, e tanto meno l’uomo e il destino, ma una foglia e quella foglia. Esauste le prime impressioni, il lettore vi ritorna su con altra disposizione d’animo, e guarda con occhio filosofico, critico, storico quel medesimo che prima guardava con occhio poetico. Allora l’individuo si decompone; la foglia sparisce nelle foglie, e le foglie spariscono nell’uomo. Questo sparire colto nell’atto, che non è nero ancora e il bianco muore, nell’atto che il particolare non sia ancora scomparso, ma circondi come una nuvola qualche cosa di luminoso che gli passi per di dietro, è sommamente poetico, è la poesia spiritualista. La dissoluzione è qui giá incominciata, e non si arresta insino a che Orlando, Rodomonte, Don Chisciotte, Sancio Panza, Tartufo, Amleto, Lovelace, Don Giovanni, Don Abbondio, Donna Prassede rimangono puri tipi; il particolare muore, il generale sopravvive. In questo cammino dall’individuo si va al tipo, dal tipo all’idea. Ci sono certe epoche, nelle quali il pensiero umano dissolve instancabilmente i grandi individui, storici, poetici, e ne fa de’ miti, delle idee; e certe altre, nelle quali ricompone e rincarna. Ora il poeta, che vive in epoche critiche e filosofiche, rappresenta un mondo giá dissoluto nel suo pensiero, e in luogo di darti individui interi, di una tutta propria personalitá, che meritino un giorno di essere trasfigurati da’ posteri e innalzati a tipo, inizia egli la dissoluzione, li scarna, li assottiglia, quasi tema possano rimanere incompresi. Ma la dissoluzione non fatta naturalmente dal tempo, anticipata nella poesia, è non la trasfígurazione, ma la morte. Vengon su de’ personaggi astratti, morti nel parto, cosí falsi e mutilati, come i Cesari e i Napoleoni degli storici dottrinarii.

Non amo le teoriche assolute. Per me, l’eccellenza della poesia è nell’unitá personale. Ma il campo della poesia è larghissimo, ed [p. 351 modifica]anche in quell’indirizzo ci può esser poesia. Il poeta può rappresentare l’individuo in tutt’i momenti dell’esistenza, sino al punto che quello annienti in se stesso la sua personalitá, si senta e operi come organo o istrumento o parte di un ordine generale di cose, e tagli da sé tutto l’altro che non si accorda con quello. Fin lá può andare la poesia, fino anche all’individuo conscio di sua essenza ed operante secondo quella, ma non oltre. Pure in questo indirizzo è quasi impossibile contenersi, e dall’individuo conscio si passa all’individuazione, all’individuo allegorico, all’individuo esempio, all’individuo occasione, insino a che dopo di aver profanato in tutte le guise l’individuo, l’idea fa la faccia dura e si presenta lei in persona. Questo succede nella poesia odierna; questo succedeva a’ tempi di Dante. Una stessa causa produsse gli stessi effetti.

Lo spiritualismo cristiano non solo scisse l’anima dal corpo, ma la pose di rincontro a quello come nemica. La perfezione e la santitá della vita fu posta nella macerazione del corpo, digiuni, cilicii, astinenze, considerato non come compagno dell’anima, ma come sua prigione, come ostacolo. Onde nella poetica la figura è un velo, l’individuo un’allegoria, e l’essenziale è nell’idea. L’altro mondo è giá questo nostro mondo spiritualizzato; ma Dante non se ne contentò, e giungendo alle ultime conseguenze del sistema, varcò anche l’altro mondo, e si trovò nel regno della pura scienza. Cosi il centro di gravitá, l’interesse del lavoro non è piú nell’altro mondo, ma nella filosofia morale.