Lepida et tristia/La seconda disillusione
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LA SECONDA DISILLUSIONE
Scompartimento di prima classe — dico — e viaggiatori quattro: tutti saliti alla stazione di Torino.
In un angolo siede una signorina di nobile e dolcissimo aspetto.
Ella aveva una di quelle fisonomie così rare per espressione e finezza che la frettolosa curiosità dell’uomo è costretta a fermarvisi, almeno per un istante. Se non che l’ammirazione per la beltade è così forte che trattiene ogni volgare desiderio.
La signorina — di cui qui si discorre — se mostrava qualche ricercatezza, questa consisteva nel non volere apparire e nel nascondere la linea della persona. Nelle vesti e nel decoro con cui sedeva traspariva anzi qualcosa di monastico. Solo la capigliatura pareva ribellarsi a questa mortificazione a cui soggiaceva tutta la figura; una capigliatura vigorosa, magnifica come un cimiero antico che incorniciava la pallida fronte, dalla purezza di statua ellenica.
Il vigore della vita che pareva quasi sfuggire dalle membra, si affermava rifugiandosi in quella esuberante chioma.
Aveva deposto presso sè il cappello: un cappello semplicissimo di paglia e con le mani incrociate sul grembo sorrideva ogni tanto alla persona che le stava di fronte.
— È un gran caldo — diceva a fior di labbro ogni tanto.
— Rinfrescati con un po’ di menta — e le porse una scatoletta.
Fece cenno di no, sorridendo di un bellissimo sorriso che ebbe commento da queste parole: — Voglio resistere e voglio sopportare il caldo! Stando ferma, si sente meno.
Il signore di fronte era uomo che ad un attento osservatore sarebbe parso più vicino ai cinquanta che ai quarant’anni; ma una gran presenza di signorilità piuttosto austera, un non so che di sano, di placido, di virtuoso gli toglieva moltissimo di età.
Un forte e magro naso aquilino dominava una barba più che brizzolata in cui si apriva una bocca dolcissima, almeno nei rari colloqui con lei che tutto addimostrava sua figlia.
Questi erano i due viaggiatori che potremmo chiamare silenziosi rispetto agli altri due che erano di una loquacità poco comune. Questi erano saliti per secondi in quello scompartimento, e si erano posti l’uno di fronte all’altra.
Madre e figlio.
Lui sui vent’anni, robusto, anzi eccessivamente membruto, ma aitante nella persona, bellissimo, elegantissimo; porta l’occhialino all’occhio sinistro. Parla con accento puro che sembra quasi toscano, gesticolando come un meridionale; ma non deve essere nè l’una cosa nè l’altra. Gli occhi sfavillanti come carbonchi, la pelle vellutata e quasi dorata, dicono che su di lui si è posato un sole più ardente di quello che illumina S. Maria del Fiore o il Marechiaro. Difatti egli è orientale, dell’Egitto, che appena il signore e la signorina accennarono di sorridere e di rispondere (era impossibile fare altrimenti) aveva levato dal portafogli il biglietto da visita e si era presentato con tutti i suoi nomi e le sue qualità: orientali tutti e due, lui e la mamma: orientali certo per nascita e per dimora, ma di origine italiana da parte del babbo, meglio, cosmopolita; tale almeno si poteva giudicare dalla genesi della famiglia paterna e materna che il giovane fece con grande volubilità, rapidità e senza esserne richiesto affatto.
Lei, sui cinquant’anni; biondissima, occhi azzurro-cupi, sopraccigli neri, perfetti, che parevano tirati con l’inchiostro di China, carnagione rosea. Porta le tracce di una gran bellezza sfiorita oramai, ma non trascorsa. Di forme colossali, non però ineleganti, veste completamente di bianco con un berretto di seta azzurra alla marinara come fosse stata una giovinetta.
Lei. è un forno, figlio mio, questo scompartimento: quasi non ci si respira: soffoco letteralmente.
Lui. Te l’avevo detto, mamà, che con questi calori di giorno non si può viaggiare, ma tu: dura!
Lei. Figlio mio, di notte ora, in Italia, ho paura di viaggiare: l’hanno assicurato anche all’Hôtel che non è prudenza.... A proposito, a che ora si arriva in Ancona, figlio mio?
Lui. (Consultando l’orario) Alle undici.
Lei. Così tardi? No, figliuolo mio, no! Proseguiremo domattina di giorno. Questa notte ci fermeremo in qualche albergo in Ancona: un albergo con letto pulito da dormire, spero che ve lo troveremo. Di notte, soli, non voglio viaggiare per l’Italia! l’Abruzzo! che nome orribile: io sono assediata dalla vista dei briganti, coi pugnali e i cappelli a punta.
Lui. Hai ragione, mamà; difatti ci potrebbero mangiare, prima te e poi me; anzi prima me e poi te! E più cavalleresco!
La signora allora si credette in dovere di spiegare e giustificare al signore e alla signorina le sue apprensioni sul viaggiare in Italia; poi con una volubilità capricciosa e signorile, fece sapere anche lei chi erano e perchè venuti a Torino, indi proseguì: — Venendo dall’Egitto, ci troviamo spostati; è così diversa la loro vita dalla nostra! A Torino prima cosa è il lavoro; al divertimento ci si pensa poco. Da noi invece lavorano tutti, sì, anche i ricchi, ma solo sino a mezzodì; il resto della giornata si passa a riposare e a divertirci; partite al croket, al tennis, gite in carrozza, in barca, balli, concerti, teatri, occupano tutto il resto della giornata. Tutti si divertono là, vecchi e giovani. Una signora, a cinquant’anni, salta ancora alla corda, se le torna. Saltare, ecco il gran piacere.
Lui..... praesertim di mamà; ballerina disperata anche adesso!
Lei (rivolgendosi di scatto al figliuolo) Oh, dillo pure «di mamà» non mi vergogno mica! Noi, in Oriente, abbiamo fatto la importante scoperta che si vive una volta soltanto....
Lui.... sono state le mummie delle piramidi, signorina, ad insegnarci questo segreto che vivere bene è il migliore degli affari, la speculazione più lucrosa. Ecco come la archeologia può diventare pratica.
Lei. e interrompe!! (battendo con la mano ardente di zaffiri e rubini su la bocca del figlio).... una volta soltanto, e si gode. E un’applicazione speciale ne facciamo noi nella nostra famiglia....
Lui.... già; mamà adora papà; papà adora mamà; papà e mamà adorano noi e noi adoriamo loro....; è tutta un’adorazione.
Lei.... ed è inutile prender la cosa in ridicolo. Ma è così veramente, signorina!
Lui.... ma io confermo!
Lei. Quando parla la mamma, è inutile confermare. Non è giusto godere la vita, signorina?
⁂
Il signore e la signorina avevano assistito a questo diverbio in silenzio sorridendo ogni tanto o lievemente negando col capo, come fu a proposito dei briganti.
Ma questa volta la signorina, interrogata direttamente, rispose con questa parola di semplice cortesia: — Oh, certo, signora; almeno fin che si può!
La signora fu soddisfatta dalla risposta e passò ad altro tema: — Da noi, in Egitto, si mangia all’una e poi alle nove di sera....
Lui (correggendo): — Prego a credere, signorina, che io non mi accontento di due soli pasti al giorno come dice la mamma. In questo io sono molto inglese: io alla mattina prendo il caffè e latte; alle dieci magari un beefsteak; alle cinque una visita chez le pâtissier è di prammatica.... Questa volta la signorina sorrise come avesse voluto dire: «vedo bene che tutto questo mangiare non va perduto.»
Ma lei, la madre, povera signora, si lamentava della cucina degli hôtels in Italia: «tanti piatti, è vero, ma così diversi dai nostri che non li assaggio neanche; io sono rovinata di stomaco, esausta, ho perduto l’appetito!»
Lui. Sì, è vero, povera mamma! tu in questo sei molto infelice: ma io mi aggiustò sempre; tre o quattro beefsteak e, alla più disperata, une salade di fagiolini, patate, cetriuoli.
Lei.... sta zitto che sei schizzinoso anche tu la tua parte. Tuo fratello, quello sì che si accontenta facilmente!
Lui. Oh! mio fratello mangerebbe le selci in salsa di pomidoro.
⁂
Tacquero finalmente; il treno sorvolava nella calura e la signorina si passava dei fazzoletti sul volto da cui gocciava un sudore come di sofferenza.
Il giovane invece risplendeva lieto in quella ebrietà di luce e di calore. Guardandolo, veniva in mente una figura di giovin templaro, eretto, chiuso nell’arnese rabescato d’acciaio, e cavalcante di bel mezzogiorno pei deserti riarsi di Soria come se nulla fosse, e pur ciò si legge nei romanzi del signor Walter Scott.
La signora ricominciò poco dopo a querelarsi dicendo: «Figlio mio, ho una fame atroce, non ne posso più, mi sento venir meno: ho una sete che brucio; mi vuoi far morire, figlio mio?»
Il signore si scusò di non aver nulla da offrire, se non delle pasticche di menta. La signora smaniava tuttavia e il figliuolo si affacciava da uno sportello all’altro in cerca di terra e diceva: «Olà, non c’è un buffet? un restaurant dove mangiare? Disgraziato paese, dove anche per viaggiare bisogna subire il domicilio coatto in coupé: non vagoni restaurant, non carrozze comunicanti! Oh, povera mamma, abbi pazienza: a Bologna mangerai! confortati!»
Lei (languidamente) Quando saremo a Bologna?
Lui. Presto, cara mamma, perchè ogni istante ci avvicina.
Il signore allora si levò, smosse le tendine, sporse fuori il capo: e il sole con violenza quasi materiale invase lo scompartimento.
— Ecco il santuario di S. Luca, lassù — disse il signore arrischiando il capo dal finestrino — fra poco ci siamo a Bologna.
— Dov’è San Luca? dov’è? — sclamarono all’unisono mamma e figlio, e si precipitarono al finestrino.
— Lassù, su quel poggio!
San Luca, con la cupola, spiccava sul colle nitidamente, in una trasparenza solenne di oro.
— Bologna, alma mater studiorum — sclamò il giovane — patria di Irnerio e della mortadella: io non l’ho veduta, ma deve essere deliziosa.
Un’ombra nel frattempo verde, dolce, fonda, intercettò i raggi solari e la vista di S. Luca: il treno fuggiva lungo una interminabile fila di azzurri pioppi, che formavano parete e sono così belli e così aerei nel dolce pian dell’Emilia!
Ritornarono al loro posto: solo la signorina non si era mossa, e i pioppi sfilavano elegantissimi, rabbrividendo nelle sensibili foglie alla fuga del treno.
Il giovane a quella vista declamò e cantò come per conto suo:
O alti pioppi che tutto vedete,
Ditene adunque Biancofiore ov’è?
Siede in riva a un bel fiume, o il colle varca
Ai crin tessendo suoi un serto di fior....
E questi versi li diceva con bella voce: una voce squillante e metallica, con un’intonazione quasi di canto e di cantilena rapsodica che richiamava alla mente imagini eroiche.
— Di grazia, signore — chiese la giovane — di chi sono questi bellissimi versi? Suoi forse?
— Miei? Ma, mademoiselle, se fossero miei porterei in capo la corona del poeta invece del miserabile berretto sportivo! Sono di Giosuè Carducci!
— Ah, — fece ella con indifferenza.
— Non ha letto il Carducci? — chiese il giovane con meraviglia.
— Sì, mi pare di averne letto qualche cosa. E lei lo conosce? — chiese con opposta meraviglia la signorina.
— Quando si è letto — disse quasi all’unisono il signore — Paolo Bourget, Anatole France, Flaubert, è impossibile leggere poi il Carducci.
Il giovane a questa affermazione parve confuso per la prima volta e disse guardando la mamma: — Je ne vous oppose rien mais tout ça c’ est ben merveilleux — quasi avesse voluto dire cose tali che solo la mamma intendesse.
— Perchè, di grazia, ella si meraviglia? — chiesero il signore e la signorina.
— Non ho il coraggio di dirlo....
— Ma parli liberissimo — disse il signore, — l’ingenua schiettezza dei giovani non offende.
— Ecco: — disse la signora — Mio figlio ha studiato nel Liceo di Alessandria: ha inoltre avuto un precettore italiano che gli ha fatto conoscere fnolto bene e con molta passione la storia d’Italia. Anzi questo viaggio aveva per iscopo non solo di completare la sua istruzione, ma di soddisfare ad un suo legittimo desiderio. Si è inscritto a Torino all’Università; anzi l’intenzione nostra — sempre compiacendo al suo desiderio — era di fargli prendere la laurea in Italia, ma temo che non se ne farà nulla.... Ritorna in Egitto molto disilluso....
Lui. Disilluso? No, mamma! di’ piuttosto addolorato. Ecco, signore, le dirò schiettamente, io venendo in Italia, credevo di trovarvi tutta la gloria, tutta la gioia di una nazione risorta. Invece ho trovato un’amministrazione, nulla più! In politica, in arte, in letteratura, nel giornalismo, nel parlare, nei costumi non ho trovato che un gran da fare per seguire il modello o di Parigi o di Londra o di Pietroburgo. Ben poca dignità nazionale. Fra i giovani coetanei che conobbi all’Università, i miei entusiasmi per l’Italia hanno trovato degli uditori freddi indifferenti. Da alcuni mi sono sentito anche deridere. Quello che ho trovato è stato solo questo: un gran malcontento di tutto e di tutti; un gran bisogno di bisticciarsi e di non essere soddisfatti di nulla. Mon Dieu! Io che vedevo nella mia fantasia un’Italia concorde, felice, innamorata delle sue bellezze e delle sue glorie. Che disillusione! Io che avevo studiato la storia d’Italia attraverso Dante, attraverso le sue conquiste d’Oriente.... Voi, per esempio, l’Oriente l’avete abbandonato totalmente, e pochi anni fa era vostro per tradizione, per memorie, per linguaggio...; attraverso le glorie di Venezia e di Firenze, attraverso le conquiste ideali dei suoi pensatori e dei suoi filosofi....! Pare impossibile: avete avuto nell’ultimo secolo dei giganti che avrebbero formato la coscienza ai morti, ultimo della serie il Carducci, un titano in cui sono compendiate le più pure virtù civili, e voi già lo mettete in fascio cogli altri vostri che sono morti e che hanno per ufficio principale da far da etichetta ai libri di testo per le scuole. Ciò è pietoso! Gli stessi scienziati, scrittori, letterati vostri non hanno valore se non quando il loro nome è stato battezzato all’estero: proprio come dei prodotti industriali vostri a cui vi vantate di mettere marca e nome inglese o francese....
Il signore sorrideva e diceva ogni tanto: — Esagerazioni!
Lui.... già esagerazioni! tutti mi hanno detto così. Io sono passato presso tutti per un farnetico. Per fortuna j’avais beaucoup d’argent dans ma poche se no mi avrebbero additato come un individuo pericoloso alla salute pubblica. A Trieste, in Dalmazia il nome italiano è straziato. Vi minacciano di buttarvi in mare e voi ridete.... Io fremevo!
— Vuol forse, caro signore, capitanare una spedizione per la conquista della Venezia Giulia? — domandò sardonicamente quel gentiluomo.
— Mai più! — rispose il giovane. — Oramai quello che è fatto è fatto. Il Mazzini che il mio maestro mi faceva leggere e meditare, ha delle pagine profetiche prima della guerra del sessantasei. Quello che non si è voluto fare allora non si potrà certo mettere in esecuzione oggi. Le occasioni storiche non si ripetono così facilmente. Però un poco di dignità, un poco di memoria, almeno! Sono trent’anni che vi accapigliate sull’esercito o non esercito; sulla flotta o non flotta; sulla repubblica o sulla monarchia; sull’unità e sulla federazione. Ma decidetevi una buona volta! Mettetevi d’accordo se è possibile! E, cosa curiosa, mentre è tutto un gran disputare di metafìsica sociale e politica, mentre fate alta accademia sulle più gravi questioni, nessuno ha il coraggio di prendere un caso pratico e dire: Qui v’è del guasto! Affondiamo il coltello anatomico e curiamo il male visibile! No! Nessuno! E poi io passavo per un esaltato e gli altri per uomini pratici! Meglio smettere. Però ne ho sofferto, signore! Io cercavo una patria pei miei giovani anni. Io sono ricco, ho molte energie entro di me. Volevo spendere questi tesori in Italia. Ebbene no! Ritorno in Egitto. Là mi deciderò. Diventerò cittadino anglo-sassone. È ancora il meglio. Quegli uomini inamidati di dentro e di fuori veramente non sono il mio ideale, ma che farci? E ancora quanto mi resta di preferibile.
Il signore, a questa lunga sfuriata, sorrideva sempre di compiacenza e di tenue ironia.
La signorina pure sorrideva, facendo sembianze di gradire la irruenza giovanile di quel bizzarro discorso.
La madre, alla sua volta, come a giustificazione del figliuolo, ripeteva ogni tanto: «Tu, figliuolo, ti innamori troppo dei tuoi fantasmi!» e rivolta ai compagni di viaggio, aggiungeva: «Sono nebbie melanconiche del cervello che si sciolgono al primo soffiar di vento.»
Il giovane, pur proseguendo il suo dire, faceva cenno di no con la testa.
⁂
Per fortuna il treno era entrato sotto la tettoia della stazione di Bologna. Si soffocava dal fumo.
— Non scendono, i signori? — domandò il giovane al signore e alla signorina che non si era mossa affatto.
— No — rispose il signore — andiamo sino a Pesaro ai bagni, e questo vagone prosegue.
La signora si raccomandò al figliuolo che scendesse per comperar da mangiare: «fa presto, la frutta, mi raccomando, almeno la frutta!»
Il giovane scese.
La signora, mentre è sceso, aggiunse volubilmente:
— Non credano, per amor del Cielo, a tutto quello che dice mio figlio. Pare un uomo a vederlo, ma è ancora un bambino. Se dice qualche bétise, lo perdonino. Pare presuntuoso, ma non lo è: invece è che non ha provato nulla di triste della vita, nessuna vera disillusione: altro che il piacere, piacere onesto ben inteso. Egli vuole che tutto sia felice, perfetto, corrispondente a ciò che lo innamora nella fantasia. Una disillusione per lui è una ferita: non mortale, però. Le sue ferite rimarginano presto. Provino a mutar argomento, a parlar d’altro che non sia l’Italia e la politica e vedranno che è così come io dico. È un amabile ingenuo; e la ricchezza e la difesa dei suoi genitori gli permetteranno il lusso di conservare per molti anni la sua cara ingenuità. Forse ad altri un simile figlio non può piacere, ma a noi piace. Ne siamo innamorati. Lei ride è vero signorina? Ma il bello è che il suo babbo ne è più innamorato di me. Del resto, ripeto, è un fanciullo. Pensino che da tre anni da che è uscito di collegio, l’ho sempre avuto vicino: è educato comme une demoiselle. L’ho seguito dall’Egitto sin qui dove venimmo per iscriverlo all’Università e in pari tempo perchè facesse un viaggio d’istruzione e completasse i suoi studii. S’imaginino che da che siamo in Italia, ed è dal mese di gennaio, non è mai uscito una sera senza di me. Insomma fa tutto quello che voglio io.
Lui (comparendo con un gran cartoccio). Oh, eccovi! non riuscivo più a trovare il treno: è un pandemonio questa stazione....
Lei. Sali presto: cos’hai lì di buono?
Lui. Ecco: dell’arrosto: del pollo, della mortadella, del pàtè, del vino, del pane, della frutta.
Lei (nervosamente). Ma l’acqua non l’hai portata?
Lui. No, ma te la faccio portare. (Chiama un facchino e fa portar l’acqua).
Lei. Dio! ma è calda, figliuolo, come mai non hai pensato a farti dare del ghiaccio!
Lui corre a prendere del ghiaccio e, solo allora quando ella potè far scricchiolare il gelo sotto i denti, parve ritornare in calma. Nuovo imbarazzo nel preparare la mensa. Ne fu adibita la cappelliera di cuoio.
Lei. Ma come si fa a mangiare con le mani? dovevi farti dare delle posate: oh, la tua Italia, figlio mio!
Lui. Non ci ho pensato. Del resto à la guèrre comme à la guèrre: prendi i pezzi piccoli, mamma: e lascia pure a me i pezzi grossi.
Cominciarono a mangiare. La signora trovò che tutto era abominable, e mangiò tutto come fosse stato excellent.
Quel carrozzone era frattanto stato attaccato al treno della Romagna, il quale dopo molti avvisi di partenza, finalmente partì.
Uscito che fu dalla cappa ardente della stazione, i petti si sollevarono per respirare. L’aura ventilava dalle finestre aperte: e la rapida corsa faceva entrare nello scompartimento il profumo delle messi tagliate.
Lei. Quello che avanza, figlio, si può dare ai poveri...
Lui. Ma non avanza nulla, mamma...!
Lei. Ma tu sei insaziabile, figliuolo! Dammi dell’acqua di Colonia alle mani. (Sì, mamma). Puliscimi la bocca. (Sì, mamma). Accendimi una sigaretta. (Sì, mamma). Io sono quasi egiziana, signori — disse poi rivolgendosi ai compagni di viaggio — e le signore egiziane fumano, se loro permettono.
Lui. Allora ne piglio una anch’io, che sono egiziano come te.
Lei. Non ne hai l’abitudine, ed è inutile che te la faccia....
Lui. Hai ragione, mamma. Smetto, anzi non cominciò nè meno — e rivolto ai compagni di viaggio: — Vede, signorina, che giovane perfetto? non ho un vizio. Non fumerò benchè ne abbia voglia.
⁂
Cadeva il tramonto per il pian di Romagna, ardente, fiammeo; il treno correva, fra le rigogliose messi, verso la frigidezza del mare non lontano e verso le tenebre dell’oriente. La sera, imminente, raccoglieva e raffinava gli spiriti in un piacere di vivere. Allora un po’ per volta fu come rotto il ghiaccio, e la bellissima giovane donna incominciò a parlare al giovane straniero.
Il dialogo si accese, vibrò, scintillò. Bisognava vincere il fragore del treno. Si era accesa una disputa. La giovanetta immobile, colle mani ferme, rispondeva imperterrita all’impeto delle parole di lui.
Di che disputavano?
Dell’eterno tema umano: la vita! cioè come deve essere intesa la vita: se la vita è piacere, oppure se la vita è dolore. Certo l’ora soave del vespero aveva inspirato tale argomento.
Ambedue i contendenti consideravano la vita dal suo lato bello, onesto e buono; ma il giovane con un entusiasmo lirico, con un’esuberanza di inesperienza, con una fede tale da negare quasi il dolore e la morte.
La giovanetta invece sosteneva l’esistenza del dolore, fuori della previdenza umana.
I pensieri di lei del pari che l’aspetto di lei non erano tristi. La tristezza era piuttosto nella voce, la quale aveva delle vibrazioni come se per essa si accendessero, ardessero spiriti di passione: la tristezza era nel senno delle sue osservazioni e nella rettitudine delle sicure risposte, le quali non erano conformi a quella sua giovinezza: la tristezza era nelle pupille che parevano non sorridere come sorrideva talvolta la bocca gentile.
L’amabile diverbio era pieno di poesia, tanto che il signore e la signora, vinti a quel dialogo giovanile, puro ed elevato, ascoltavano piacevolmente. La madre si stava atteggiata in contemplazione del figlio; il signore ammiccava e torceva la bocca come compiacendosi del ragionamento serrato, logico, composto della giovanetta, che faceva barcollare su la sella il titanico avversario. Egli pareva dire con quella mimica del volto: «Non c’è male! oh, lei ti mette a posto, caro giovanotto!» e poi di tanto in tanto, gettando i buffi di fumo dello zigaro: «che vale, povera creatura, avere dell’ingegno?»
La dolcezza del vespero pareva attenuare il rimbombo del treno.
Lui, di fatti, in quel duello, sotto i colpi precisi di lei, finì col trovarsi disorientato. Ma poi parve capire che per vincere non bisognava essere troppo cortese, non scendere nel terreno dell’avversaria, ma costringere l’avversaria a combattere nel proprio terreno: non usare le fini armi di lei, ma usare invece le sue armi poderose.
Il giovane: — Dunque lei, signorina, nega che io sia vero filosofo?
La signorina: — Assolutamente, nego.
Il giovane, assalendo: — Io sono invece filosofo perchè della vita cerco di godere tutto il bello ed il buono che trovo. Esempi: Se qualcuno m’inganna o approfitta di me, non mi arrabbio mai, che tanto non vale. Un’altra volta, penso, non mi ci pigliano più. Amo molto viaggiare, perchè viaggiando non soltanto si impara a vivere, ma si vive una vita più intensa, doppia e tripla, senza spendere del dolore — moneta preziosa — anzi con moltissimo diletto. Viaggiando poi con abbondante danaro, si ha questo inestimabile beneficio che si acquistano tesori di esperienza senza dover per questo lasciare brandelli di anima lungo la via. Per queste ragioni non si meravigli se io sono un adoratore del danaro. Il danaro produce inoltre questo curioso effetto che tutte le persone rivolgono a voi la parte ridente del loro io filosofico; la parte arcigna la rivolgono agli altri. Anche il sole che dovrebbe essere superiore alle ingiustizie di quaggiù, sembra anche lui spedire i suoi più tepidi raggi a coloro che sono ricchi. Ciò è iniquo! Fra le ore più belle della vita metto quelle passate a tavola: veda come sono prosaico! A tavola gode l’animo nell’essere riunito alla famiglia, gode lo stomaco che soddisfa alle sue giuste voglie (seguendo la corsa volubile del pensiero senza lasciare all’avversaria tempo e modo di penetrare nel suo discorso, ma disarmandola con l’impetuosità virile e originale dell’assalto). Voglio studiare legge per entrare poi in diplomazia. Conosco l’arabo ed il francese alla perfezione; parlo e scrivo l’inglese, ho studiato le lingue m orte nel ginnasio e nel liceo. Conosco la letteratura italiana. Suono il piano, il mandolino, il violino. Adoro la vita! Dipingo anche! Sono religioso: ho fermi principii di morale, ma non sono bigotto. Voglio viaggiare tutto il mondo, perchè amo tutti gli uomini; ma le dolcezze della vita intima sono il mio ideale. Non desidero che il momento di prendere moglie. Sarebbe fortunata mia moglie perchè io sarei un marito modello; ma essa deve assolutamente rispondere a queste tre qualità: essere bellissima, virtuosissima, intelligentissima, sopratutto bellissima. Se io sapessi che di là del mare esistesse l’ideale di donna che ho in mente, io traverserei il mare come fece Giaffrè Rudel per la contessa di Tripoli, a rischio della vita. Una cosa sola io odio: odio la deformità qualunque sia, deformità fisica e deformità morale. Solo allora sento di diventare cattivo, senza pietà, quando mi trovo di fronte alla bruttezza. Adoro i bimbi; due almeno ne voglio, uno maschio e uno femmina; ma belli hanno da essere e forti, coi capelli lunghi, cogli occhi vivi, buoni li voglio ed intelligenti. Li sogno sempre. I miei genitori, mia moglie, i miei figli, mio fratello dobbiamo essere tutti assieme, e ogni sera pregheremo Dio perchè ci prolunghi la dolce vita! Sento che alla donna che sposerò darò un gran tesoro dando me stesso, la mia gioventù, la mia bontà, la mia bellezza. Sì, perchè io sono ambizioso della mia persona. A Milano non potevo mai mettere i miei costumi egiziani perchè tutti si fermavano a guardarmi. Peccato, perchè ne ho di così eleganti!
Ma anche quando vestivo di nero, come voi lugubri europei, la gente si fermava a guardarmi. Mi sono persuaso che io porto con me qualche cosa della poesia dell’ Oriente sotto i vostri freddi cieli (e corse a parlare dell’Oriente). Oggi v’è la manìa del Nord; ma verrà il giorno che gli uomini ricercheranno la vita al nostro sole. Gli inglesi sono savi, l’hanno capita e ci prevengono ed insegnano. L’Africa centrale sarà fra breve la villeggiatura della fredda Albione. Già in nessun luogo si conosce la vita come in Alessandria: balli, concerti, teatri, gite in carrozza ed in barca. In una festa di ballo gli egiziani sono capaci di spendere duecentocinquantamila franchi, ma sono feste fantastiche, impareggiabili. Le donne del Cairo e dell’Egitto sono bellissime. Bellissime sono anche le arabe, ma d’una bellezza marmorea che che non parla al cuore. Affascinanti sono invece le beduine coi loro occhioni neri che esse tingono, sulle palpebre, con del bistro che li fa sembrare più grandi e profondi. Ma la donna che sposerò non sarà nè araba, nè inglese....
Si aspettava una domanda che non venne e finì: — sarà un’italiana. In mancanza di ogni altra realtà, io voglio almeno sentire in un caro petto femminile palpitare l’anima superstite di questa santa terra d’Italia.
Un lieve rossore salì per le pallide gote della leggiadra fanciulla. Vide egli quel rossore, e per non arrossire egli pure, proseguì mutando il discorso: — Ho un servo nero al mio servizio, bello ed elegante, e più ambizioso di un occidentale; lo sorprendo sempre a guardarsi nello specchio ed a lisciarsi. Pretende di essere il servo più elegante della casa ed è sempre in lite con un altro servo che gli nega il primato. Quando mi chiedono il mio parere, li rimando dichiarandoli brutti ambedue. Ecco, con una limpidezza di sincerità, che non è in uso fra di voi occidentali, detto chi io sono. Nega ancora, signorina, che io sia un filosofo?
— Un filosofo — disse ella con voce triste —; che non ha mai provato i dolori della vita!
— Ma è necessario — ribattè egli con forza — conoscere i dolori della vita? Questo è l’egoismo orribile degli infelici, dei deformi, degli inetti alla vita, i quali vorrebbero fare partecipi anche noi che siamo forti, sani, belli delle loro sventure. Ma la filosofìa non può essere un sistema unico per tutti; la filosofia vera non è altro che un’opinione individuale.
La giovinetta non replicò. Ma poco dopo faceva dei cenni melanconici con la testa che volevano dire nella sua intenzione: «Che tu non abbia mai a provare, povero fanciullo, la verità delle mie parole!»
Fu interrotto il dialogo da un grido della signora.
— Ecco il mare! il mare! — aveva esclamato con la festività di un bambino.
— Θαλύττα θαλύττα sei mir gegrusst, du ewiges Meer! L’eterno mare, il santo mare, l’amico delle terre che tutte le cinge e le abbraccia, queste terre nemiche! — sclamò il giovane allora, interrompendosi egli pure, ed affacciandosi al finestrino.
E il mare era in vero lì, dietro le brevi dune di sabbia, il mare placido, cinereo nella sera, dà cui veniva come un brivido di freschezza profonda e consolatrice alle anime ardenti degli umani.
— È assai bello il mare! — disse la giovine volgendo il profilo del suo volto verso lo specchio delle acque.
E tutti tacquero a sentire il mare, che parlava un linguaggio più profondo che il rombo del treno. E la signora elevò poco dopo un altro grido:
— La luna!
— Plenilunio di fatto — confermò il signore.
E la luna sorgeva presso i monti della Focara di dantesca memoria con un rossore grande che staccava su tutte quelle tinte d’azzurro lieve e di cenere.
Contemplavano l’alba della luna.
— Mamma — sussurrò dopo alcun tempo il giovane all’orecchio di lei, piano, mentre la luna come una bolla gigantesca di sapone pareva allungarsi staccandosi dal mare — io la adoro!
— Che cosa, figlio mio? la luna forse? — domandò con accento di amabile ironia.
— Macchè la luna! Lei! E una cosa divina, un’apparizione celestiale; forse è la felicità. In questo caso io non intendo di abbandonarla, oh, questo poi no!
E nel dire tali parole aveva gettato il braccio al collo della mamma, con la qual mossa raggiungeva due scopi diversi e necessari; parlare piano e sedurre la bella mamma.
Aggiunse pianissimo: — Hai tu notato, mamma? In lei c’è la coscienza di un’alta mente e di un nobile cuore, e non c’è invece nessun segno per cui sembri consapevole della sua grande bellezza e della sua intelligenza.
— Questo è vero — rispose forte la signora.
— Dillo tu, che hai più esperienza — proseguì egli ancora pianissimo — non è questo un fenomeno raro in una donna?
— Lo credo.
Il treno aveva intanto imboccato la galleria dopo cui si discende a Pesaro. La giovane, non più rivolta al mare, sotto la luce del gas appariva dolorosamente composta nella bianchezza della sua veste, e il volto aveva l’idealità delle sante che pregano e nel pregare piangono invisibili lagrime.
Rombava il treno sotto la galleria e il giovane disse ancora alla mamma:
— Senti: invece di passare la notte in Ancona, possiamo fermarci a Pesaro....
La signora interrogò il figlio con gli occhi e non rispose. Egli proseguì con forza:
.... sì, mi dispiace di non dovere forse più rivedere una così nobile creatura. La fortuna, a detta di tutti i filosofi ed i pratici, non si incontra due volte nella vita.
— Ne sei innamorato?
Questa domanda sorprese il giovane, il quale parve meditare su quella parola.
— Sarebbe strano — osservò la mamma — perchè tu sino ad ora sei sempre stato così occupato di te stesso e della tua persona da pensar poco a rendere omaggio all'altra gentile metà del genere umano.... — e diceva altre cose che spiccavano chiaramente agli orecchi del giovane, mentre il treno rallentava la corsa e già uscito dalla galleria, fischiava ripetutamente.
Pesaro! Lucevano i lumi. Il signore si era levato per trarre giù dalle reticelle le sue valigie.
E la signora pur seguitava a parlare al figliuolo; il quale insisteva per scendere essi pure a Pesaro, e le si stringeva alla vita, e già nulla vedeva, e già pareva aver vinto la sua causa presso la mamma, quando la voce della giovinetta lo chiamò:
— Signore!
Allora egli si voltò e vide lei in piedi; ma stranamente in piedi, giacchè una mano si teneva stretta in alto alla reticella come chi ha bisogno di sorreggersi.
— Signore — disse — noi dobbiamo compiere un dovere, supplire ad un’ommissione involontaria. Come si fa? Lei aveva tanta foga che non ci fu tempo. Ecco dunque: Io mi chiamo Maria Belloresi, nata Gradora, ed il signore che mi accompagna è mio marito.
La bella donna aveva pronunciato queste ultime parole forte, con un senso di orgoglio.
Il signore si inchinò lievemente: madre e figlio profondamente e a lungo. Era l’unico mezzo per nascondere il grave turbamento che, per quanto essi avessero di mondanità, non avrebbero mai potuto dissimulare interamente.
Ma quando il giovane alzò il volto, passò da una sorpresa grande ad una sorpresa maggiore.
La madre avea già veduto e le sue unghie si erano infisse sul dosso della mano del figliuolo.
— Guarda — sussurrò in modo quasi impercettibile — è spaventoso! — Egli guardò!
Due lugubri oggetti furono dal marito scoperti, tolti dalla reticella, offerti alla moglie mentre il treno frenava.
Erano due elegantissime stampelle.
Una fiamma di rossore salì alla fronte della giovane signora: ma lo sguardo non si abbassò. E quella fiamma disparve.
Disse allora la bellissima deforme: — Veda, signore, che la sventura più grave per una donna può colpire talvolta fuori delle umane previsioni.
Questa volta fu il giovane ad arrossire e potè balbettare a pena: — Se avessi sospettato, signora....
Ella gli tese la sua bella mano in segno di pace e di perdono.
Il signore fattosi allo sportello, chiamava imperiosamente i facchini.
Madre e figlio videro la bella donna calare giù dai gradini alti, sostenuta dai facchini e poi lì, in mezzo alla folla elegante dei bagnanti, adattarsi le grucce sotto le ascelle.
Allora le grucce mossero il loro lugubre e rigido passo che suonò, ed il corpo si trascinò dietro inerte, bianco, lungo, come il corpo della biscia si trascina quando la falce lo ha troncato.
Scomparve senza voltarsi e, «presto, presto! si parte!» il treno ripigliò la forte corsa lungo il mare, anelando alle terre d’Oriente.
⁂
E questa fu la seconda disillusione del giovane straniero.
I CINQUE PULCINI