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156 | la seconda disillusione |
cere il fragore del treno. Si era accesa una disputa. La giovanetta immobile, colle mani ferme, rispondeva imperterrita all’impeto delle parole di lui.
Di che disputavano?
Dell’eterno tema umano: la vita! cioè come deve essere intesa la vita: se la vita è piacere, oppure se la vita è dolore. Certo l’ora soave del vespero aveva inspirato tale argomento.
Ambedue i contendenti consideravano la vita dal suo lato bello, onesto e buono; ma il giovane con un entusiasmo lirico, con un’esuberanza di inesperienza, con una fede tale da negare quasi il dolore e la morte.
La giovanetta invece sosteneva l’esistenza del dolore, fuori della previdenza umana.
I pensieri di lei del pari che l’aspetto di lei non erano tristi. La tristezza era piuttosto nella voce, la quale aveva delle vibrazioni come se per essa si accendessero, ardessero spiriti di passione: la tristezza era nel senno delle sue osservazioni e nella rettitudine delle sicure risposte, le quali non erano conformi a quella sua giovinezza: la tristezza era nelle pupille che parevano non sorridere come sorrideva talvolta la bocca gentile.
L’amabile diverbio era pieno di poesia, tanto che il signore e la signora, vinti a quel dialogo giovanile, puro ed elevato, ascoltavano piacevolmente. La madre si stava atteggiata in contemplazione del figlio; il signore ammiccava e torceva la bocca come compiacendosi del ragionamento serrato, logico, composto della giovanetta, che faceva barcollare su la sella il titanico avversario. Egli pareva dire con quella mimica del volto: «Non c’è male! oh, lei ti mette a posto, caro giovanotto!» e poi di tanto in tanto, gettando i buffi di fumo dello zigaro: «che vale, povera creatura, avere dell’ingegno?»
La dolcezza del vespero pareva attenuare il rimbombo del treno.