Lepida et tristia/L'Istituto dei Rachitici
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L’ISTITUTO DEI RACHITICI
in memoria di
PIETRO PANZERI
L’ISTITUTO DEI RACHITICI
in memoria di PIETRO PANZERI
Questo luogo è l’Istituto dei Rachitici.
Le alte magnolie del parco dalle lucide foglie sembrano invigilare il silenzio; il sole sembra con maggior compiacenza che altrove posarsi sui viali del giardino, sui lunghi pergolati di glicine, sulle terrazze, su gli smalti vivaci dei piccoli graziosi edifici che formano l’Istituto.
Questo effetto forse avviene perchè quivi tutto è lindo, semplice, familiare, quasi allegro. Certo il luogo non richiama alla mente imagini lugubri: e ciò è bene, e può anche essere parte di cura.
Anche le persone che prestano l’opera loro in questo Istituto — infermiere, maestre, medici, soprastanti — dimostrano di non essere invase da quella fretta nella parola e negli atti che nei centri di grande operosità come Milano, in qualsiasi istituto, ufficio, o scuola si vada, ognuno può notare senza essere fornito di doti eccezionali di osservazione. Fretta nobilissima, senza dubbio, ma che imprime in una mente disposta a filosofare un’idea non di lietezza, quale dovrebbe indurre la santità del lavoro: ma qualcosa di eccessivo e di necessario.
E poi perchè non dirlo? Questa gente che, mentre opera una cosa, sembra preoccupata di quella susseguente che è ancor da eseguire, dà adito al sospetto che se la prima non è fatta bene, la seconda non lo sarà meglio certamente.
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Nell’Istituto dei Rachitici, invece, una certa placidezza sorride ovunque, nelle cose e nelle persone: certe sorveglianti, vestite di nero, mi ragionavano con amabile soavità monacale.
L’Istituto eleva le mura dei suoi vari padiglioni in un quartiere che non è punto elegante e niente affatto ricercato di Milano: cioè a pena fuor della cinta antica del Naviglio fra le due porte Vigentina e Lodovica, proprio fuori di mano, come disse il Giusti di S. Ambrogio; ed oggi quello non sarebbe termine rigoroso per esattezza.
Benchè il lato meridionale della città non sia tra i più elevati, tuttavia quel terreno, a cagione della vicinanza di magnifici giardini, può dirsi tuttora in buone condizioni igieniche. Le quali forse dovevano apparire anche migliori, quando nel 1880 fu proposta la costruzione di un edificio speciale pei Rachitici, come sarà detto più innanzi. Milano si poteva allora permettere il lusso di grandi spazi interni, tenuti a giardino od ortaglie, veri polmoni e depuratori dell’aria; onde l’ampio terreno, non eccessivamente costoso, dovette consigliare l’acquisto.
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Dell’Istituto dei Rachitici a Milano avviene un po’ quello che con molta fede e pazienza possiamo riscontrare anche nell’uomo: certi sentimenti buoni e generosi conviene ricercarli proprio fra le pieghe più serrate ed occulte del cuore. Così del pari Milano occulta questa sua opera buona e gentile, sorta da lei, in così pudico modo che non è facile rintracciarla, come io non credo che siano molti quelli che conoscano la piena funzione di questo Istituto, pure essendo esso così popolarmente conosciuto.
Vediamo di ragionarne un po’.
Ecco: si lascia a mano sinistra il corso di Porta Romana — uno dei più fragorosi e ingombri della città — al punto dove una statua di ecclesiaste, seicentisticamente agitata, sorge nel bigio marmo sul ponte del Naviglio. Si diverge per una via solitaria che sembra chiusa al passaggio, la via che prende nome dall’antica chiesa di S. Calimero: si passa prima davanti al melanconico giardino che è di fronte alla chiesa di S. Sofìa; poi la via si restringe ancora, ben lastricata, con de’ muricciuoli ai lati che sembra una delle tristi vie disabitate di Orvieto, sopra quell’aereo colle. In fine appaiono ciuffi di verde da alte piante al di là del muricciuolo; si volta, ed ecco un lungo edificio rosso con terrazze, colonne snelle, in fra un largo spiazzale di aiuole e di prato.
È l’Istituto dei rachitici, o meglio il padiglione principale. Questo sorse per il primo, attorno ad esso furono poi costruite le villette e i padiglioni minori.
La fronte del lungo edificio prospetta verso mezzodì e verso occidente e perciò è quasi sempre confortata dal sole. Su questa fronte, all’altezza del piano superiore e in corrispondenza con le infermerie, corre una terrazza lunga ben trentaquattro metri e larga tre, sostenuta da svelte colonnine di ghisa così che al piano terreno rialzato essa riesce a formare una specie di portico.
Questa terrazza fu imaginata allo scopo di trasportarvi i letticciuoli dei piccoli infermi durante le stagioni temperate. Un’opportuna disposizione di tende protegge i malati dalle forti correnti dell’aria e dall’eccessivo calore.
Se ricordiamo certi stambugi umidi e scuri ad uso di abitazione, certe stanze di portineria dove l’aria non corre, dove il sole non è potuto mai penetrare per dare il buon giorno; ma dove pur si abita e si prolifica, ma dove il terreno è ben fecondo alla rachitide e i poveri piccini che quivi dimorano hanno nelle pallide gote riflesso il colore dell’ambiente, questa terrazza soleggiata fra il verde può sembrare come un compenso o una riparazione che la società porge ai piccoli abitatori di quelle infelici dimore.
Ben lo so; è poco: si potrebbe rimediare curando il male dalle radici. Chi lo sa? L’avvenire è incognito e grande. Ma nel frattempo conviene accogliere quel compenso che la pietà sociale è giunta ad offrire.
L’edificio è composto di tre piani: un piano sotterraneo dove è disposto il servizio di cucina, i caloriferi, le dispense, i depositi di combustibile, ecc. Quivi è pure un’officina meccanica per la fabbrica degli apparecchi ortopedici.
Al primo piano, alquanto rialzato dal suolo, sono gli uffici, le sale per le visite, i gabinetti pei medici, una sala per i preparati anatomici, un’aula grande per la ginnastica medica, ecc.
Al piano superiore si trovano le piccole infermerie, e una vasta sala per i convalescenti. Le scuole, che prima erano al piano terreno, furono più tardi trasportate in altro edifìcio, costruito più tardi.
Un grande studio in ogni menomo particolare presiedette alla costruzione dell’edificio. E non solo la cosa corrispose all’idea dal lato scientifico ed igienico, ma, quello che è pur notevole, anche l’estetica se ne può compiacere.1
Inoltre il visitatore che entra nell’Istituto, non è in nessun modo colpito da quel non so che di tristezza che incombe sugli altri Istituti ospitalieri, ma vi respira come un’aura di riposato benessere e di mite lietezza, nè gli repugna di ritornarvi.
Interessante per l’uso a cui serve è il padiglione Regazzoni che si trova sulla linea della strada e che, nel piano terreno, contiene la portineria.
Da prima le inservienti e le infermiere per la insufficienza del locale, dormivano nelle soffitte, ne’ corridoi, nelle stesse infermerie, dove insomma rimaneva un poco di spazio.
La signora Regazzoni, che aveva ragioni di affetto per l’Istituto, volle per sua munificenza che fosse eretto codesto padiglione a dormitorio e ricovero delle infermiere. Sono bellissime e ariose stanze al primo piano.
Del resto se nulla indicasse che quello è l’Istituto dei rachitici, v’è tale in sul limitare della portineria — vice-portinaio volontario, forse — che può servire di insegna. Se ha spiegato il giornale, come di sovente, non lo si vede, giacchè il foglio lo nasconderebbe. Una mano enorme e maligna sembra essersi posata su di lui e averlo schiacciato. Non so perchè quel mio simile così maltrattato dalla comune madre natura, mi richiami ogni volta che mi avviene di passare per di lì, il Diavolo Zoppo del signor Le-Sage: forse per l’arguzia della linea del volto e per quel non so che di intelligente che di solito risplende nel volto dei rachitici.
Del resto il piccolo vice-portinaio non sembra malcontento del suo destino, anzi all’aspetto si direbbe il contrario: egli intanto ha il suo posto al sole, la qual cosa non accade facilmente a tutti; e forse inoltre penserà che, più o meno ben fatti e ben costrutti, un’unica sorte persegue tutti; e infine la filosofia della vita si acquista anche senza aver letto i libri dei filosofi.
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L’Istituto dei Rachitici sta alla scuola press’a poco come le ossa stanno al cervello.
Nella scuola si corrobora l’intelligenza e si coltivano i buoni sentimenti: almeno questo dovrebbe avvenire e qualche volta anche avviene. Nell’Istituto si allungano, raddrizzano e smuovono femori e tibie, e l’operazione — quantunque alcuna volta debba essere cruenta — riesce meglio di quello che non si pensi.
Sì nell’uno come nell’altro caso conviene avere molto umano compatimento se la cura non riesce che in parte.
Le macchine che sono lavorate dagli ingegneri, se sono guaste, si possono rifare: ma la macchina-uomo sfugge in gran parte alla nostra giurisdizione. Tuttavia questo tenace sforzo titanico di rimediare a ciò che pare od è irrimediabile per natura, rappresenta la più alta conquista, la più stabile elevazione dell’uomo. In fondo è un’alta idealità che si persegue mercè un numero infinito di piccoli sforzi e di umili prove giornaliere.
Sì, bene intendo le fosche parole che un pensiero pessimista mi suggerisce: mentre da un lato così pazientemente si lavora per mettere a posto la piccola tibia deforme di un fanciullino, dall’altro lato si flacella a morte altro che femori e stinchi!
Ma è la vita che è fatta così, e delle contraddizioni umane è irreperibile in vero l’ortopedia.
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Ritornando a quel che riguarda le deformazioni anatomiche dello scheletro, possiamo affermare come tutto ciò che di più moderno, di più perfetto siasi potuto trovare dall’amore e dalla scienza, è raccolto nell’Istituto milanese, sorto dalla SALA DA PRANZO beneficenza e per la beneficenza: da una ricca biblioteca, contenente tutta la letteratura che riguarda l’ortopedia, alla grande sala della ginnastica medica dai svariatissimi e costosissimi attrezzi: dalla macabra stanza piena di gessi e fotografie e scheletri di tutte le più orrende e bizzarre deformità umane, alla gran fiamma lucida scoppiettante nel tenue color di lavanda entra il tubo di Crook e che fotografa l’invisibile. (Voi vi rifiutaste, è vero, gentile signora che in quel giorno mi accompagnavate, a sottoporre ai terribili raggi della verità la vostra mano perfetta; e quando avete veduto sul diaframma nero disegnarsi le scheletriche falangi delle mie mani che pure così affettuosamente stringete, avete rabbrividito. Perchè? Ma forse ognuno reca con sè, per benignità della sorte, l’illusione di essere sottratto alla gran legge dell’immutabile).
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L’Istituto dei rachitici adempie oggi a questi diversi uffici di umanità e di carità.
Anzi tutto accoglie i bambini poveri della città, affetti da rachitismo o da altri mali congeniti delle ossa; e questo fu il primo intento della benefica istituzione. Una serie di omnibus si spande per la città e prende i piccoli infermi, casa per casa. Verso le nove sono tutti ricoverati nell’Istituto.
Quivi ricevono la cura, secondo il vario grado delle loro infermità: fanno colazione verso le undici; quindi passano alla ricreazione, e talvolta al riposo (le grosse teste deformi in quel bel giorno del maggio che visitai l’Istituto, posavano nel sonno sopra i loro banchi lillipuziani nel silenzio e nella penombra di una grande aula) in fine sono raccolti nella scuola. La colazione nei giorni d’estate, invece che nel solito refettorio, è imbandita su certe tavole i bambini che tornano a casa. elevate e disposte all’uopo, coi loro incavi per i piattelli, in un prato, sotto un bosco di magnolie splendide. Ciò è assai gentile.
Questo tratto ombrato fu annesso all’area dell’Istituto per munificenza del duca Melzi, il cui giardino o parco è attiguo.
La scuola comprende l’asilo e le prime elementari. Una buona signora sorveglia e istruisce i piccoli ammalati, i quali apprendono assai bene ed hanno di solito quella precocità che è carattere dei rachitici.
Le scuole, inoltre, sono tenute benissimo; e per nettezza, ricchezza di arredi e di materiale didattico, savia disposizione di ambiente, credo, pur troppo che non temano di rivaleggiare con le scuole publiche. Notevole è pure la cura nella scelta dei banchi e dei sedili, de’ quali fin dall’inizio dell’istituzione lungamente e con amorosa minuzia ebbe ad occuparsi il Dottor Edoardo Pini, come ognuno può vedere nell’opuscolo citato innanzi.
Il miglioramento che molti di quei cari piccini presentano, sì per effetto della cura rigorosa come per il nutrimento migliore, è da vero sorprendente. Pietoso talvolta è lo sforzo della scienza, costretta ad arrestarsi davanti all’impossibile. Certi bimbi graziosi, dalla fisonomia aperta e buona, dal busto ben formato, posano su gambe accorciate della metà. La mano dell’Invisibile si è obliata di quasi tutto il femore.
Emilio Praga in una sua fremente e potente lirica intitolata: Ad un feto, ha questa terribile dimanda:
Egli che fa degli uomini |
Alle tre e mezzo comincia la partenza degli omnibus dall’Istituto. Alle cinque, sono via tutti. I piccoli rachitici sono ritornati alle loro famiglie. E la mattina dopo è ripreso il pietoso lavoro.
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L’Istituto in secondo luogo contiene l’ambulanza gratuita, ogni giorno. Dall’ambulanza sono scelti gli infermi che richiedono l’infermeria (di cui dirò poi), quelli per cui basta il temporaneo asilo (di cui sopra è discorso), quelli che possono essere curati ambulatoriamente, con visite, massaggio, ginnastica medica, ecc.
All’ambulatorio gratuito è stato di recente aggiunto un secondo ambulatorio a pagamento, con libretto o tessera delle visite.
In terzo luogo l’Istituto contiene l’infermeria con un numero di letti che andò di mano in mano crescendo col crescere della beneficenza. Oggi i letti variano dai cinquanta ai sessanta. Sono i piccoli lettucci, a forma di cune, quasi eleganti, con pannilini finissimi e candidi che nulla hanno dell’ospedale. Sono pochi lettucci in ciascuna stanzetta, e in ciascuna il sole, la luce e l’aria entrano abbondantemente.
Ma il sole ha un bel sorridere, un bel posarsi sul capezzale dei piccoli infermi, l’aria invano rapisce alle aiuole ed ai fiori delle magnolie i loro profumi, e le pietose donne invano donano ai piccoli infermi i balocchi e le bambole! La piccola infermeria è pur triste! Non canta, non ride, non s’agita per quelle stanze la vivacità infantile, propria dei bambini sani e robusti. Benchè i più non soffrano nè siano in pericolo di vita, pure è nelle loro movenze, ne’ loro sguardi alcun che di melanconico, quasi muto e dolce rimprovero contro una legge che essi ignoravano, ma che pur li ha BAMBINO CONVALESCENTE. colpiti in sul nascere, senza loro colpa. Mamma, ove sei tu? Sembra che tutti quei poveri piccini siano stati abbandonati dalla loro madre, la grande, la fatale madre di cui Giacomo Leopardi ragiona nel suo canto della Ginestra.
Ricordo e l’ho davanti agli occhi una piccola inferma. Poteva avere un cinque anni. Volto più dolce, occhi più eloquenti e mesti io non ricordo. Erano stranamente grandi e neri in quel viso dove, sotto l’epidermide diafana, le piccole vene azzurre portavano ancora il loro contributo di vita. Sorrideva a noi senza parlare e con infinito amore accarezzava la sua grande bambola.
— Le vuoi molto bene alla tua bambola?
Accennò gravemente di sì e le gote le si tinsero in rosa, come un raggio di sole che in una giornata fosca appare per un istante, e si cela.
— Sta benino, è vero, la piccina? — chiesi alla signora che mi accompagnava.
— È invece gravemente ammalata — rispose la signora. — Si tratta di una tubercolosi delle ossa. Abbiamo fatto il possibile per veder di curarla. Finora tutto inutile!
⁂
Passammo ad altra stanza, quella grande ove stanno i bambini convalescenti.
Quivi tutto attorno alle pareti sono disposte delle sediuole a sdraio. Vi riposano i piccoli infermi. Occhi vivi, volti ridenti. Giuocano o fanno piccoli lavori. Hanno tutti un grembiulino di cotonina rosa.
— Buon giorno! — augurano lietamente in coro ai visitatori.
— Buon giorno, piccini!
Ma se il volto sorride, se gli occhi scintillano, v’è qualcosa che parla molto eloquentemente per loro. Piedi e gambe, contorte e gessate, protese sui loro appoggi; torsi stravolti; membra cui apparecchi pietosamente rigidi costringono di ritornare alla forma normale; attitudini immobili e mostruose. Non si possono muovere da sè: le infermiere li prendono, li sollevano, li trasportano conservando essi quella loro immutabile attitudine della parte inferma. Vengono in mente i fantocci che il giocoliere variamente dispone sul palco scenico. Ma il riso, oimè, non nasce sulle labbra del visitatore! In quella stanza sembra che un invisibile, maligno Giove abbia fatto sfoggio di un suo tristo potere sopra quei piccoli umani innocenti.
— Buon giorno, piccini! — e il sole ride del suo eterno splendore.
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La cura dell’infermeria è gratuita essa pure. Vi si accolgono gli infermi della città e della provincia, non che del di fuori, e anche dell’estero. Anzi ogni specie di malattia che presenti materia di studio — di quelle che i medici con triste eufemismo chiamano un bel caso — vi è accetto e curato.
E nel modo stesso che all’ambulatorio gratuito è annesso l’ambulatorio a pagamento, così all’infermeria gratuita che occupa tutto il piano superiore del padiglione principale, è stato annesso più tardi un padiglione per i pensionanti. Più che un padiglione è un villino di stile veramente grazioso: il padiglione Frizzi di cui qui porgiamo il disegno. Esso sorse per lascito di un’egregia benefattrice, la signora Edvige Frizzi; ed è congiunto all’edifìcio principale per mezzo di una lunga ed ampia galleria a terreno, tutta a vetrate, fiancheggiata da bambine ricoverate nel padiglione frizzi. ambedue i lati da spalliere di glicine. Le stanze di questo padiglione non solo rispondono ad ogni più rigorosa norma di igiene, ma sono anche eleganti ed allegre.
⁂
Ed ora un po’ di statistica. I numeri hanno talvolta più eloquenza che le parole dello scrittore. PADIGLIONE FRIZZI Nel 1882 il numero degli ammalati, che ricorsero all’ambulatorio era di 573; nel 1890 salì a 1388; nel 1899 a 1616. Così dicasi dei piccini, quelli che sono raccolti dagli omnibus: nel 1882 erano 57, nel 1899 salirono a 369 e già nel 1890 erano 373.
Così i ricoverati nella infermeria: nel 1882 erano 19. Nel 1899 salirono a 497. Queste cifre, desunte dalle tabelle che sono nell’Istituto, non hanno bisogno di chiosa.
Non deve fare meraviglia se l’area in origine di metri quadrati 8737 vada per nuovi acquisti continuamente aumentando. Il patrimonio del pio Istituto quando nel 1886 morì Edoardo Pini — che insieme a Pietro Panzeri ne ebbe la generale idea e ne fu il fondatore — era di 443,000 lire: capitale netto. Quale sia al giorno d’oggi non è il caso di dire, certo si può asserire che è di molto aumentato da quell’epoca.
Ma ciò che è notevole e torna specialmente ad onore di questa città, dalle iniziative potenti e felici, si è che l’Istituto non sorse per sussidio di governo o di provincia; non dal lascito unico di un generoso signore, come è dell’Istituto ortopedico Rizzoli, il quale sorse in Bologna, magnifico, per volontà dell’insigne scienziato che morendo volle devoluto a quell’opera il vistoso suo patrimonio: l’Istituto di Milano sorse gradatamente, come dirò poi, e per opera della beneficenza.
Il beneficio dato si spande e, come l’umor della pioggia, ricade in beneficio su l’Istituto: provvida legge da vero, a cui gli uomini ubbidiscono con più fede che non si creda.
Un’altra cosa è da aggiungere: l’Istituto non tende come altri istituti — pur altamente umanitari e benefici — a sostituire la coscienza collettiva alla coscienza individuale: ma rimedia nei limiti delle forze umane ad un difetto che è tale per sua natura e che non è, se non in parte, in facoltà nostra o delle leggi eliminare e distruggere.
Alfredo Panzini.
- ↑ Nota. — Chi desiderasse più ampia relazione dell’Istituto, confronti l'opuscolo che il benefattore e fondatore, Dr. Edoardo Pini, publicò in Milano nel 1884: Gli Istituti e le Scuole pei rachitici in Italia. Statuto e regolamento del Pio Istituto dei rachitici in Milano.