Leonardo o dell'arte/Conclusione
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CONCLUSIONE
Se si distingue dalla bellezza artistica perchè ci dà un piacere che non riusciamo a spiegare, la bellezza naturale non è dunque, come s’è detto, più illusoria di quella artistica, ma ne è il riscontro simmetrico. Ora, messo in chiaro in che modo l’una e Paîtra si oppongono, studiamo gli incroci.
Abbiamo già visto come, alle volte, le opere d’arte possano dare agli uomini lo stesso piacere che gli spettacoli naturali; vedremo ora come si possa anche vedere nella natura un’opera d’arte.
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Che le persone colte ritrovino facilmente dei quadri d’autore nella natura è così noto, che non vai la pena di ricordarlo. Senza ricorrere alle Intenzioni di Oscar Wilde è capitato a tutti di vedere un albero o una donna secondo uno schema pittorico, che si ispirava alle scuole di paesaggio dei giapponesi, o ai ritratti del quattrocento. Ce ne ha data una bella prova Fromentin descrivendo l’Olanda. Egli si meraviglia che l’Olanda rassomigli tanto alla sua pittura, e non pensa che, con l’occhio corrotto ormai dalla pittura olandese, ritrova le pitture nella Olanda solo perchè prima aveva visto l’Olanda nella pittura. Commentandogli la natura, l’arte si sostituisce alle cose, così che sfugge tutto quello che non rientra in questa visione prestabilita. Perpetuando in sè medesimo i suggerimenti incantati di quei pennelli, continua a contemplare un paese, pittore anch’egli in quel momento, alla stregua dei suoi pittori; ma se gli olandesi avessero dipinto come i giapponesi, Fromentin avrebbe ritrovato il Giappone sulle spiagge di Amsterdam.
Non è questo, ad ogni modo, il caso di cui voglio occuparmi: si tratta qui di un fenomeno culturale e di una semplice sovrapposizione. Voglio esaminare invece il caso, più raro e curioso, in cui cerchiamo veramente di spiegare il bello naturale come un’opera d’arte, senza che nessun ricordo di gallerie ci abbia costretto a vedere, nei lineamenti di un paesaggio, la pennellata di un quadro; il caso, insomma, in cui godiamo la natura come si gode un’opera d’arte, senza rammarico.
Il cielo m’offerse un giorno un esempio che non calza del tutto, perchè è nello stesso tempo troppo persuasivo e difficile. Salivo, di mattina, il colle a solatìo di una valle, chiusa all’orizzonte dalle montagne, quando le nuvole, la nebbia e l’azzurro, componendosi insieme a forma di falce sopra la catena dei monti, mi apparvero come un golfo aperto misteriosamente sugli spazi del cielo.
Le nuvole inquadravano, in prospettiva, come delle montagne un pò cosparse di neve, quel disco marino, orizzontale e celeste, che si incuneava luccicando fra due promontori; e l’azzurro appena annebbiato, di sopra, sembrava appunto il cielo di un’altro mondo, che splendesse colla sua cupola ricca di vapori su quell’occeano trasparente e tranquillo. Credo che neanche il golfo di Napoli m’abbia dato la gioia di questo golfo raffigurato magicamente nel cielo dalle forze luminose della natura. Perchè? Perchè quello spettacolo mi offriva nello stesso tempo il piacere della natura e quello dell’arte; perchè ne ero dominato e lo dominavo; perchè lo godevo come uno di quei giochi stupefacenti della bellezza, di cui si allieta l’universo e di cui non possediamo la chiave, e come un’opera d’arte che riuscivo a spiegare, paragonando i risultati coi mezzi, appunto perchè i mezzi erano incomparabilmente più poveri; così che potevo mescolare in me stesso l’ebbrezza di cui ci riempie l’immensità soave e silenziosa di un golfo, e la gioia intellettuale di saperlo fatto di nuvole.
Quando Paul Valéry, in Eupalinos, fa dire a Socrate, che guarda un avanzo marino meravigliosamente lavorato dai secoli, che un’opera d’arte vale un secolo, cento secoli, suppone che il piacere di contemplare quell’avanzo del mare sia come il piacere di studiare un’opera d’arte, perchè sono tanto l’una che l’altra un tutto raggiunto con mezzi inadeguati e parziali; ma senza ricorrere a questi sublimi capricci dell’universo, abbiamo tutti notato come per un variar della luce, o per un comporsi manierato dell’ombre, o perchè un ramo nero ha fatto da primo piano, o perchè due tronchi hanno inquadrato dei colli, che l’ombra violetta dei nuvoli partiscono in piani geometrici di colore, la natura ci sia improvvisamente apparsa come una opera d’arte. Questo spettacolo provocava in noi quella medesima meraviglia di cui si è detto per l’arte, appunto perchè sottintendevamo, non solo delle intenzioni e quasi una volontà, ma anche dei mezzi inadeguati al risultato, così che vedendo le cose semplificate secondo una maniera, quasi direi secondo uno stile, e non più fatte di infinito, potevamo conoscerli e valutarli. Ma non è forse questo uno di quei giudizi che si può formulare soltanto in base a leggi estetiche?
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Ma come si disse che per giudicare delle opere d’arte gli uomini dovevano riferirsi alla natura, si può concludere ora analogamente che la natura non si giudica affatto o si giudica soltanto come un’opera d’arte. Su questa base possiamo fare alcune considerazioni.
Kant ha fatto un’immensa scoperta quando ha scritto che gli uomini esigono l’universale validità dei proprii giudizi di gusto; ma bisogna aggiungere che questo bisogno sarebbe assolutamente insensato, se non cercasse di giustificarsi con un paragone, che accoppiando l’oggetto da giudicare con qualcos’altro, stabilisse un rapporto. Perchè è infinitamente più facile che due uomini, in un giudizio, si accordino sulla relazione di due oggetti, che non sul valore misterioso di un oggetto incompara bile. Il principio che ha voluto parificare la verità e la bellezza ha trionfato per tanti secoli nella critica d’arte, appunto perchè era facile accoppiare l’arte con la natura, — modello conosciuto da tutti — in modo che ognuno potesse chiedere il consenso degli altri su questo-rapporto. Il fatto stesso che durante il regno di questo principio ci sia stato uno splendido fiorire di capolavori, e che gli artisti siano andati d’accordo coi critici, più che non vadano adesso, ci dimostrano come in quel principio fosse nascosta una verità necessaria, espressa male. E’ infatti assurdo pretendere che si raggiunga il tutto della natura semplicemente imitandola, perchè a imitar la natura non è mai riuscito nessuno; ma quando s’è detto che con la natura l’artista deve invece rivaleggiare, per giungere, come s’è visto in Leonardo, a un tutto, che con quello della natura sia pur sempre paragonabile, s’è dato alla seconda parte del nostro rapporto la sua vera fisionomia. La critica’ deve partire, dai sentimenti e ogni principio solido ha da essere costruito sopra una base psicologica: poiché nell’uomo il bisogno di imporre agli altri il proprio giudizio è il fondamento universale della critica d’arte, è giusto che la critica si faccia su principi che appagano il più possibile questo bisogno e cercano di aiutarlo a giustificarsi. Noi non possiamo spiegare il godimento, che ci riempie dinnanzi a un’opera d’arte, che in base a leggi estetiche, perchè tenendo conto dei mezzi inadeguati con cui il tutto è stato ottenuto, teniamo conto senza volerlo della natura, che ci offre a questo modo il piacere di mostrarsi vinta; come soltanto riferendoci all’arte riusciamo a spiegare, qualche volta, il godimento che ci riempie dinnanzi a certe bellezze — figlie allo stesso tempo della Natura e del Caso. Ma non è questa la sola maniera di formulare un rapporto, e di chiedere il consenso altrui sul giudizio che ne abbiam fatto? Permettendoci di suscitare questo rapporto, di cui gli uomini si erano liberati, per paura che fosse pericoloso ed ambiguo, il principio di Leonardo riconduce dunque la critica d’arte su un piano più umano, e psicologicamente più profondo.
Quando infatti gli uomini, che per tanti secoli avevano connesso l’arte con la natura, s’avvidero che il principio dell’imitazione non bastava a spiegare la bellezza, e condannando la natura con il furore con cui ci si rifà di un’illusione, come fossero stati giocati da questo ironico e sempre aperto termine di confronto, conclusero che la chiave dell’arte era soltanto nell’arte, soppressero teoricamente l’ultimo controllo che poteva ancor governarla. Senonchè, fra tutte le maniere di risolvere il grande enigma, questa mi è sempre parsa la più inquietante: prima di tutto perchè sopprimeva un controllo, poi perchè eliminava dalla teoria un principio che continuava a vivere nella pratica, e separava il pubblico dall’élite, con un contrasto avviluppato nelle nebbie della terminologia filosofica. Per quanto gli predichino che l’arte non ha niente a che vedere con la natura, il pubblico continuerà, anche non volendo, a tenerne conto, rifiutandosi di ammettere che si possa dipingere un uomo con dei piedi al posto del naso, per la ragione che ha detto Kant e cioè perchè «se l’oggetto è dato come prodotto dall’arte, e come tale dev’esser dichiarato bello, poiché l’arte presuppone sempre uno scopo nella sua causa (e nella causalità di questa), bisogna prima appoggiarsi al concetto di ciò che la cosa dev’essere; e, poiché l’accordo del molteplice in una cosa in vista di una destinazione interna di essa, in quanto scopo, costituisce la perfezione della cosa stessa — nel giudizio della bellezza d’arte, deve anche essere presa in considerazione la perfezione della cosa». Quando vedrà raffigurato in un quadro la figura di un uomo, qualunque pubblico partirà sempre, per giudicarlo, dal concetto di uomo e quindi dalla natura; e gli stessi critici di avanguardia che si trovassero dei piedi stupendamente dipinti al posto di un naso, dovrebbero per ammirare questa figura del tutto indipendente dalla realtà, fare un piccolo sforzo e magari un frettoloso ragionamento. Ora, il fatto stesso che tutti gli uomini continuino, quando giudicano d’arti figurative, a esigere un rapporto con la natura, m’è sempre parso degno di far riflettere.
Uno dei nostri critici d’arte più intelligenti mi rispose un giorno che al rapporto tra l’arte e la natura bisognava sostituire un nuovo rapporto, quello tra l’arte e l’artista. Per quanto ingegnosa, non mi sembra che questa risposta abbia risolto il problema. Un rapporto, in questo caso, è come una similitudine: deve essere il paragone tra l’idea che si vuol dimostrare, e una che già si conosce. L’opera d’arte, che ora è l’incognita, l’oggetto da misurare, deve essere perciò messa a raffronto, non con un oggetto più misterioso, ma con uno più chiaro. Paragonando due incognite, non s’arriva a essere certi nè dell’una nè dell’altra. Misurare l’opera d’arte, con un metro di cui non conosciamo l’unità, è come non misurarla. Perchè, se l’opera d’arte è un’incognita, anche quando ci sta immobile e paziente dinnanzi, l’artista, che può essere morto da tanti secoli, che forse non conosciamo neppure, è un’incognita più grande; e mettere in luce l’oggetto che ci sta sotto gli occhi, studiando attraverso i tempi l’artista che non possiamo vedere, è come lasciar la carne per l’ombra. Creare un rapporto tra l’opera d’arte e l’artista" vuol dire, infatti, paragonare quello che l’artista voleva fare e quello che ha fatto. Ma non è questa forse la fatica di Sisifo? Dimostrar che l’artista ha avuto certe intenzioni, e che le ha espresse, è come dimostrare, in modo più semplice, che un’opera d’arte è bella, perchè è bella. Poiché le intenzioni, come l’opera d’arte, sono da interpretare, questo rapporto è così arbitrario, che non dà più garanzia di un giudizio. Se un altro storico infatti, sopraggiungendo, dimostrasse che «le intenzioni» dell’artista erano diverse, muterebbe anche il valore dell’opera d’arte? E un’opera d’arte, di cui non conosciamo l’autore, sfuggirà dunque in ogni modo al nostro giudizio? Questa maniera di risolvere un problema ne suscita troppi, perchè possa appagarci. La natura, o per dir meglio, la realtà, come Leonardo l’intese, è dunque l’unico termine universale con cui l’opera d’arte possa formare un rapporto.
Per concludere questo studio praticamente, direi che qualunque opinione, in sede critica e filosofica, si può benissimo sostener con la penna, e in pratica si sostiene; ma non bisogna dimenticare come la critica si faccia sulle opere e serva a tracciare delle strade; com’essa dunque sia un’arte incatenata alla vita. È perciò dannosa all’arte e alla civiltà artistica ogni teoria che si stacca troppo dalla verità psicologica, che perciò traballa nello spazio, tentenna e s’agita sulla frasca. Noi dobbiamo sempre giudicare sulla base dei nostri sentimenti più profondi. Io non credo alla validità universale di un giudizio. Variano, con i secoli e i paesi, tutti i giudizi, e non ci riuscirà mai di dimostrare, per quanto se ne abbia voglia, che il nostro punto di vista è migliore di quello altrui. Credo però all’universalità di certi sentimenti fondamentali, che regolano il nostro atteggiamento di fronte al bello e di fronte al buono. Qualunque critica, che si fondi su questi sentimenti, non permetterà dunque agli uomini di accordarsi, ma li aiuterà a discutere sensatamente, il che è quasi lo stesso e succede infatti molto di rado.
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Mi rimane, come un’uggia, il pensiero di una categoria di belle arti inviolate. L’architettura, la musica e la danza, chiuse in sè stesse, oppongono a tutti quelli che cercano di spiegarle, la durezza liscia e inattaccabile di una parete senza fessure. Le belle arti che aspirano la raggiungere l’infinito della natura gettano subito all’esteta un’ancora di salvataggio, un rapporto, e non fioriscono in quella magnifica solitudine, ove ogni cosa è imparagonabile. Poichè sono legate alla natura, non si tratta, per capirle, che di capire la qualità di questo rapporto.
Ma di che possiamo valerci per spiegare una cattedrale? Mi riservo il diritto di tornare sull’argomento. Ma poichè a Chartres ho avuto un primo barlume, e la speranza di poter risolvere il problema di queste belle arti smarrite in sè stesse, vi comunico questa conclusione, provvisoria e inquieta come una spiaggia scoperta dalla marea, nella speranza di spingere gli altri sulla strada di più compiute scoperte.
Non mi riuscì quasi di guardare la cattedrale, tanto ero preoccupato di spiegare a me stesso perchè la trovavo bella. Da principio mi sembrò sopratutto immobile. Delle rondini, fragili e sicure s’appoggiavano sulla massa del vento in un gran cantare, e piegandosi e svoltando facevano l’altalena intorno a quella immobilità terrestre e mi davano le vertigini.
Mi sentii inquieto: dinnanzi alla cattedrale non riuscivo a provare nè il piacere chiaroveggente dell’arte, nè la cieca voluttà della natura. Quell’edifizio mi appariva successivamente come una montagna e come un’opera d’arte. Rassomigliava alla natura nella misura in cui era incomprensibile. Non avevo infatti nessun bisogno di spiegare a me stesso il piacere che mi dava la cattedrale, non perchè fosse infinita a guisa di una montagna, ma perchè era un tutto finito perfettamente, senza altre ambizioni che sè medesimo. Quella cattedrale, come la natura, rappresentava un successo, in cui non si poteva distinguere i mezzi dal risultato. Qual è infatti la necessità dell’architettura? Lo spazio? Ma si può dir che l’architetto si sforzi di violarlo, perchè gli si sottomette? L’architetto non viola lo spazio, come un pittore viola una superficie; e per questa categoria di belle arti la necessità non ha nessuna importanza.
Senonchè, sentivo in quell’opera d’arte uno sforzo e una precisione umane, di cui l’opulenza disordinata della natura non ha mai potuto abbellirsi. Mi dissi allora che in un edifizio, in un pezzo di musica, in una danza, in un arabesco, in tutte le opere d’arte che hanno una vita estetica solitaria si trovano dei ritorni periodici, dei prevedibili altaenii di motivi. Questi ritorni, che il nostro spirito, guardando un’opera d’arte, prevede ed aspetta, — e c’è tutta un’arte di deludere quest’attesa, o di sorprenderla — rappresentano, opponendosi alla irregolare magnificenza della natura, il lato umano delle opere d’arte.
Il segreto dell’architettura, della musica e della danza sarebbe dunque un ordine ostentato? E perchè anche la pittura, la scultura e la letteratura non potrebbero glorificarsene? Perchè l’ostentazione di un ordine non è possibile che quando un’opera d’arte è divisibile in parti.
Un quadro, un poema, una statua non sono fatti di parti. Le arti figurative e la poesia vogliono gareggiare con l’infinito della natura, e cioè con un tutto che non è una compagine; non possono perciò costruire un’opera d’arte che si possa dividere e suddividere in cellule indipendenti. In questa lotta l’artista ha da sognare soltanto un trionfo oscuro: bisogna che il pubblico possa immaginarne il segreto senza vederlo. Ma un’opera d’arte indipendente da questo infinito, un tutto trovato dall’uomo in sè stesso non può essere che una compagine. Una cattedrale, una sinfonia, una danza, una città, un arabesco, un mobile son divisibili in parti, e ci è dato di possederle e di ritrovare l’ordine che le compone, soltanto decomponendole.
È il caso di rilevare, a questo proposito, la soddisfazione con cui contempliamo, ai lati di una chiesa gotica, gli arconi di sostegno. Questi arconi, che non rappresentano in fondo che una gigantesca rabberciatura della cattedrale, resa veneranda da una lunga tradizione, ci danno un piacere artistico solo perchè ci aiutano a capire il segreto dell’edifizio. Questi appoggi, questi visibili sostegni non sono che l’ordine della cattedrale rivelato agli uomini che la guardano. Un’opera architettonica non nasconde il proprio mistero. Immaginatevi un quadro o un romanzo che lasciassero a nudo e così visibile l’ossatura della loro composizione. Ci sembrerebbero incatenati e senza afflato. Un artista non può raggiungere l’infinito della natura che sorpassandosi, e se il suo segreto non è ben celato, l’opera d’arte che vien creando apparirà senza luce. Ma un’opera d’architettura ci dà un piacere più grande quando si spiega. Una volta che s’è capita, cominciamo a possederla davvero. Quegli archi ci denunziano una parete, che si tratta di sostenere: siamo così condotti sulla strada dei paragoni. E ci vien fatto di spiegare le torri ravvicinandole in noi, e di giustificare i portali, schiumanti in gradini candidi sulla piazza, considerando il fianco diritto e altissimo della chiesa; e siamo tentati persino di godere della cattedrale e della sua grandezza paragonandola alle casette di cui s’attornia.
Questo non è vero della musica e della danza. Ma si può osservare che quando ascoltiamo un ballo viviamo dei curiosi attimi di aspettazione. Ogni nota, ogni atteggiamento non è giustificata che da quelli che la continuano. Anche un bel verso è ricco di promesse che bruciamo di veder mantenute; ma ogni parola è giustificata da quella che le succede, nella misura in cui catturano l’infinito, quando il poeta le accoppia. Dinnanzi a una collana di note o di atteggiamenti noi ci stremiamo invece a inseguire, in ognuna di queste parti connesse, l’ordine che le riunisce. Dinnanzi a un pezzo di musica o a una danza siamo come dei profeti eternamente smentiti: non possiamo non prevedere, in base a ogni nota e a ogni gesto, le note e i gesti che nascendo dopo di loro devono modificarli. Ma un’opera d’arte non ci piace che se ci disorienta: e il nostro maggior piacere è di costruire a ogni secondo dei piccoli universi che saranno meno belli di quelli veri, e che crollano continuamente.
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Non vogliamo per ora occuparci di questa categoria di belle arti; rileviamo invece che le belle arti hanno da esser partite in due classi, non perchè siano particolarmente diverse una dall’altra, ma perchè le consideriamo in due modi. Si devono in verità dividere le belle arti, non già in base alle loro rassomiglianze o ai loro contrasti, o alla loro materia, o ai sensi a cui si rivolgono, ma in base a quello che vorrei chiamare il nostro metodo di contemplazione. Non riesco a capire come i filosofi, che a cominciare forse da Leibnitz hanno fatto del bello un fenomeno soggettivo, e l’hanno appaiato al nostro piacere e alle nostre sensazioni, abbiano poi stabilito delle categorie di belle arti indipendenti dal nostro giudizio, quasi che un’arte potesse fiorire per conto suo. Indifferenti a quei rapporti fra l’opera d’arte e il suo giudice, che avevano presi a fondamento del loro sistema, si sono poi divertiti, per spirito di ordine e di simmetria, a fare con le belle arti dei mazzi di fiori. Ma tutte queste divisioni e questi raggruppamenti sono inutili se non tengon conto del nostro atteggiamento dinnanzi al bello. Poiché il bello è l’oggetto del nostro piacere, poiché non possiamo goderlo che quando l’abbiamo spiegato e poiché l’arte è quell’attività che lo crea, non è lecito partire e ricomporre le belle arti, senza tener conto del nostro piacere e del nostro «metodo di contemplazione». Che importa infatti che un’opera d’arte sia nello spazio o nel tempo, che sia soggetta all’occhio o alla vista, che sia immobile o in movimento? — Queste sistemazioni acquietanti e ingegnose non avrebbero un senso che se le belle arti fossero indipendenti dall’uomo; ma poiché non hanno vita che dal nostro giudizio, bisogna ordinarle in base all’atteggiamento che assumiamo dinnanzi a loro. Ora, ho rilevato che possiamo assumerne due. Pensiamo all’infinito davanti a un quadro e ai mezzi finiti di cui dispone l’artista. Il quadro è l’oggetto di un godimento che viene spiegato da leggi estetiche. Dinanzi a un edificio non ci curiamo dell’infinito, nè del miracolo che rappresenta la sua cattura, nè della sproporzione fra il risultato ed i mezzi; ma ricerchiamo in ognuna delle parti di cui un edificio è composto l’ordine umano che le compone.
La bellezza di un quadro e la bellezza di un edifizio ci appaiono dunque così diverse, perchè all’uno e all’altro domandiamo due diversi successi, e perchè misuriamo il nostro piacere con due misure.
Kant scrisse che il sentimento estetico è il sentimento del gioco armonioso dell’immaginazione e dell’intelletto. Si potrebbe aggiungere che l’immaginazione coglie la bellezza, al momento stesso in cui l’intelletto glie ne spiega il piacere. Ci sarebbe perciò una sola bellezza per l’immaginazione e due per l’intelletto.
L’immaginazione non ha che una spia maniera di apprendere la bellezza: davanti a una chiesa o davanti a un poema, si riempie dello stesso piacere turbinoso e indistinto, porne un raggio di sole si riempie di polvere. Ma l’intelletto chiede due successi diversi alle due classi di belle arti, e non può spiegarli che in due maniere. Si capisce dunque perchè nei sistemi di quasi tutti i filosofi, una delle belle arti non si adatti mai alla definizione che dovrebbe comprenderle tutte.
Leonardo esiliava la musica dal suo Olimpo perchè non aveva da lottare con l’infinito. Ma il problema è troppo vasto perchè possa risolverlo in poche pagine.
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Mi pare di aver sviluppato un punto della mia tesi, ma solo quello. La maggior parte delle idee che formano la sostanza di questo libro restano smarrite in un Limbo, di dove un giorno potranno crescere o dove potranno morire.
Ma se mi sono deciso a confidarvi questi pensieri, tali quali erano, ancora titubanti e non sempre chiari, è perchè non ho voluto sorpassare il momento in qui, alla men peggio, mi sentivo la forza di scriverli.
«Nous n’aurons plus jamais notre âme çe ce soir», ha detto la Comtesse de Noailles, ed è uno dei versi più malinconici che conosca, le idee non si possono esprimere, e non si possono eqmpiere certi gesti che a certi momenti determinati, e può essere pericoloso di volerli ritardare o perpetuare.
Un poeta spagnuolo dell’epoca di Calderon, ci racconta che quando era studente a Salamanca, ne fece l’esperienza con un melone. Una donna che amava cenò nella sua soffitta. Siccome era giovane e innamorato, il poeta non sapeva rassegnarsi a mettere nel passato delle ore che gli erano sembrate degne di non morire, come le altre ore del giorno. Così che quando la mattina dopo svegliandosi sentì nell’aria un odor di frutta, e ritrovò sulle foglie verdi le pesche e l’uva in piramidi ruinanti, i garofani, che la notte s’erano aperti, curvi nei vasi, e il vino luccicante in silenzio nelle guastade, si rallegrò come se la serata della veglia avesse potuto ancora allungarsi per qualche giorno sulla sua vita. Ma i garofani avvizzirono nel pomeriggio; e affamato com’era il poeta non tardò a mangiar l’uva e le pesche, e a bere quel che rimaneva dell’Alicante. Gli era avanzato un melone, che voleva lasciare intatto. Un giorno fiutandolo e palleggiandolo, lo sentì molliccio e corrotto da non so ché melata acredine; il melone andò a male e il poeta si vide costretto a gettare dalla finestra l’ultimo oggetto in cui risonava uno dei momenti più dolci della sua vita.