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alle loro rassomiglianze o ai loro contrasti, o alla loro materia, o ai sensi a cui si rivolgono, ma in base a quello che vorrei chiamare il nostro metodo di contemplazione. Non riesco a capire come i filosofi, che a cominciare forse da Leibnitz hanno fatto del bello un fenomeno soggettivo, e l’hanno appaiato al nostro piacere e alle nostre sensazioni, abbiano poi stabilito delle categorie di belle arti indipendenti dal nostro giudizio, quasi che un’arte potesse fiorire per conto suo. Indifferenti a quei rapporti fra l’opera d’arte e il suo giudice, che avevano presi a fondamento del loro sistema, si sono poi divertiti, per spirito di ordine e di simmetria, a fare con le belle arti dei mazzi di fiori. Ma tutte queste divisioni e questi raggruppamenti sono inutili se non tengon conto del nostro atteggiamento dinnanzi al bello. Poiché il bello è l’oggetto del nostro piacere, poiché non possiamo goderlo che quando l’abbiamo spiegato e poiché l’arte è quell’attività che lo crea, non è lecito partire e ricomporre le belle arti, senza tener conto del nostro piacere e del nostro «metodo di contemplazione». Che importa infatti che un’opera d’arte sia nello spazio o nel tempo, che sia soggetta all’occhio o alla