Leonardo o dell'arte/Del bello artistico

Del bello artistico

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La gara con la natura Conclusione
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DEL BELLO ARTISTICO


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Poichè abbiamo definiti alcuni caratteri del bello naturale, per trovare quelli del Bello artistico non ci resta che rovesciarli: avremo così che il bello artistico «è quello che ci dà un piacere che noi possiamo spiegare sottoponendo l’opera d’arte a delle leggi estetiche».

Ma per dare una definizione compiuta di legge estetica, bisogna dividere le belle arti in due categorie: le arti che riproducono l’infinito della natura, con dei mezzi finiti, violando una necessità. Le arti che aspirano a creare un tutto finito, con dei mezzi finiti, adattandosi ad una necessità. Alla prima categoria appartengono la pittura, la scultura, tutta la letteratura, il cinema. Alla seconda la musica, la danza, l’architettura, la decorazione.

Non ci occuperemo, in questo studio, che della prima categoria.

Il fine di un pittore, di uno scultore o di


12. Ferrero [p. 178 modifica] un letterato non è la natura, ma quello che vorrei chiamare l’infinito della natura.

Non penso nè all’infinito metafisico nè all’infinito matematico; cerco di esprimere, con questa formula, l’incalcolabile molteplicità di aspetti, che offre ogni cosa della natura, e le sostanze innumerevoli di cui si compone.

Se l’infinito della natura è appena sensibile alla maggior parte degli uomini, è invece l’ossessione di quelli che vogliono riprodurla.

Agli occhi di un pittore un albero o un viso sono infiniti come un cielo stellato. Pensate, per esempio, al caso, di un ritrattista. Un ritrattista ha dinnanzi a sè delle pupille che la luce fa scintillare, che i sentimenti, i pensieri, i desideri del modello ravvivano e spengono come il vento adombra o increspa la superficie del mare; una pelle che l’aria può colorare in verde od in azzurro, che si accende dello splendor di un velluto; un ritrattista ha dinnanzi a sè il mistero delle ombre, il problema inestricabile dei rapporti fra i vari toni, l’enigma, che ogni gesto moltiplica, delle relazioni fra il modello e le cose.

Gareggiare con la natura vuol dir riprodurre l’infinito in una cornice, e questa fu la grande ambizione di Leonardo. Poiché l’uni[p. 179 modifica]verso non è una compagine, anche un’opera d’arte dev’essere un tutto indivisibile.

Nonostante la teoria di Taine, un quadro e qualunque opera d’arte che aspira a raggiungere l’infinito non è divisibile in parti. Per soddisfare una curiosità tecnica, possiamo studiare in una opera d’arte un particolare; ma poiché un quadro non è fatto di parti commesse, non riusciremo certo, decomponendolo, a sorprendere il suo segreto.

Così, uno scultore, che modella dei corpi e suggerisce dei sentimenti, uno scrittore che si trova alle prese con le passioni e con le idee, un cineasta che ha da riassumere tutta la vita sopra uno schermo azzurro, lottano contro l’infinito, e cercano di dominarlo.

Ma una bella opera d’arte si distingue dalla bella natura perchè è un infinito violato — e tale, che lo possediamo soltanto attraverso a leggi estetiche, e cioè attraverso a quelle leggi, che «in base a un fine e a una necessità limitano i mezzi con cui si può raggiungere il fine, violando la necessità».

Giudicando una pittura, sottintendiamo sempre, come si è già visto nelle pagine precedenti, quelle leggi estetiche, che in base alla sua necessità (un piano), limitano i mezzi con [p. 180 modifica] cui un pittore ha per così dire il diritto di raggiungere «l’infinito» che si è prefisso e’ gli impongono di non uscire mai dalle risorse di una tavolozza — teniamo conto cioè dei mezzi di cui si è servito il pittore e del fatto che non sono proporzionabili alla grandezza del fine.

Noi ammiriamo infatti, anche se ci appaiono ugualmente perfette, le opere di grande concezione più delle piccole, perchè tenendo conto dei mezzi che sono su per giù gli stessi per tutti, riconosciamo il valore delle difficoltà di cui ha trionfato un artista, che s’è posto un fine più alto.

«Tout jugement que l’on veut porter sur une oeuvre d’art, doit faire état, avant toute chose, des difficultés que son auteur s’est données» 1, ha scritto Paul Valéry.

Questo pensiero m’è sempre parso profondo; stabilisce nel giro di poche parole il grande principio di una critica, che non voglia soltanto misurare dei piccoli trionfi stilistici, ma che sappia tener conto, giudicando un’opera d’arte, della sua grandezza e del suo respiro. E questa è secondo me la critica più sapiente e quella più umana; perchè succede già che anche gli uomini ignari di estetica am[p. 181 modifica]mirino la Divina Commedia più che la Canzonetta a Nice di Metastasio. Ma noi non possiamo ammirare la Divina Commedia più della Canzonetta a Nice, che sottintendendo come Dante e Metastasio disponessero degli stessi mezzi; come non possiamo ammirare un corridore che ne batte un altro, se non corrono tutti e due a piedi. Chi potrebbe invece ammirare Dante e il corridore vincitore se si supponessero all’uno e all’altro dei mezzi più potenti di quelli che avevano Pietro Metastasio e il corridore battuto?

Noi sottintendiamo dunque in tutti i giudizi i mezzi con cui sono state compiute le opere d’arte, e, giudicandole secondo una legge estetica spieghiamo a noi stessi il piacere di cui ci riempiono.

Che gli uomini godano in due maniere il bello di natura e il bello dell’arte, si può provare esaminando in che modo siamo commossi dallo spettacolo dell’infinito e da un quadro che ce lo rappresenta.

Concediamo senz’altro al mare, al cielo, al deserto e al quadro che dobbiamo paragonare, d’essere un bello spettacolo e un’opera d’arte immortale. Esaminiamoli.

L’infinito s’offre al nostro sguardo in due [p. 182 modifica] modi: libero o incorniciato, chiuso soltanto nella riquadratura della pupilla, o tra limiti esterni, per esempio, tra gli affissi di una finestra.

Il primo genere di infinito ci dà insieme piacere e pena, perchè ci riempie nello stesso tempo di un sentimento di liberazione e di un sentimento di cattività; di liberazione, perchè rivelando a noi stessi l’attitudine che abbiamo di concepire l’inconcepibile, o dimostrando in noi, come diceva Kant «una facoltà che trascende ogni misura dei sensi» 2, ci suggerisce l’idea che possiamo in certo senso evadere da noi stessi; di pena, perchè ci rende coscienti dei nostri limiti e ci fa balenare dinnanzi il miraggio di una potenza divina, nel momento stesso in cui ci dimostra che non potremo raggiungerla.

Nella seconda specie di infinito il sentimento di pena è invece diminuito a beneficio del sentimento di piacere, non solo perchè la riquadratura di una finestra, evitandoci di giungere, almeno dai lati, ai confini del nostro sguardo, ci libera un poco dallo sforzo che dobbiamo fare per dirci che oltre l’orizzonte c’è ancora spazio, ma anche perchè questi limiti esteriori trasportano sulla materia l’angoscia della nostra limitazione spirituale. [p. 183 modifica] Così, per il fatto che in quella finestra vediamo come il simbolo dei limiti nostri, possiamo dire di sentircene alleggeriti.

Vediamo ora che genere di piacere ci dia l’infinito raffigurato in un quadro.

Noto subito che è quasi inutile distinguere, come prima, due categorie di infiniti, perchè un cielo o un mare, visti attraverso a una finestra o liberamente, ci riempiono dello stesso piacere. Volgiamo lo sguardo dall’oceano al quadro, e vedremo il godimento mutare e la pena dissolversi. Non ci sentiremo più limitati, come quando per un momento avevamo intuito di poter essere più grandi di noi, perchè pensavamo una cosa che l’uomo non potrebbe pensare, e nello stesso tempo ci accorgevamo d’essere troppo deboli, perchè non riuscivamo a pensarla tutta. Godremo invece del piacere contrario. Sarà un piacere meno inebriante e più dolce, meno temporalesco e più umano: ci parrà come di passare improvvisamente dal ponte di una nave in balìa degli uragani in una sala silenziosa e tiepida, illuminata dalla luce tremante e dorata di qualche candela.

Che cosa è infatti questo piacere? È il piacere di violare l’infinito lasciandolo intatto, di possederlo, di capirlo, di pensarlo [p. 184 modifica] come un oggetto, nel momento stesso in cui lo si pensa come infinito. Dinnanzi a un quadro in cui brillano i cieli più vasti, noi godiamo di contemplare questo prodigio che è una distanza, della quale non si può fornire come misura una unità, imprigionata in quattro confini d’oro, senza nemmeno meravigliarci di noi, con la stessa durezza chiara di pensiero e di ragionamento, con cui guardiamo, bianca e grossa sul primo piano, una casa. Noi godiamo dunque l’infinito raffigurato in un quadro, non solo perchè non proviamo la pena che ci dà l’infinito della natura, ma anche perchè non ne godiamo quel piacere, di cui ci ricordiamo come di una sofferenza.

Ma perchè mai l’infinito ci annienta nella natura e ci procura quando è dipinto un sentimento così gradevole di potenza? Perchè il vero cielo è un mistero, in cui non possiamo che naufragare; mentre abbiamo la chiave di un cielo dipinto in un quadro. Sappiamo di dove l’artista è partito per arrivare a quel risultato, possiamo calcolare i mezzi con cui è stato raffigurato l’infinito sopra un breve spazio di tela. L’infinito infatti, in pittura, ci riempie di godimento, solo perchè sopraffà misteriosamente una cornice ed un piano, e quelle armoniche trasparenze del cielo e quei [p. 185 modifica] violetti orizzonti c’incantano, solo perchè sono resi coi pennelli e con delle mestiche.

Senonchè, noi possiamo conoscere questi mezzi, e tenerne conto quando giudichiamo un’opera d’arte, soltanto perchè sono inadeguati rispetto al fine e parziali. L’infinito reale, fatto di infinita materia, non ci dà lo stesso piacere dell’infinito ottenuto con dei colori stesi sopra la canapa, appunto perchè il fine e i mezzi si confondono come il mare e il cielo sull’orizzonte, durante le mattinate di bruma.

Ma tener conto dei mezzi o giudicare in base a leggi estetiche è la stessa cosa, poichè le leggi estetiche appunto limitano e determinano i mezzi con cui si può raggiungere un fine.

La letteratura e il cinema ci offrono lo spettacolo della medesima lotta con l’infinito. Apro i due libri dell’Abbé Bremond sulla Poesia, e vedo questo critico sensibile alle prese con un «fluido misterioso», con una «magia piena di raccoglimento», che gli pare troppo vaga e profonda perchè si possa chiudere nel giro di una definizione. «Grelots de la rime, scrive, flux et reflux des allitérations, cadences tour à tour prévues et dissonantes, aucun de ces jolis bruits ne parvient jusqu’à la zone profonde où fermente l’inspiration, où [p. 186 modifica] l’on ne perçoit, avec le Périclès de Shakespeare, que la musique des sphères». In un poema «il y a d’abord et surtout de l’ineffable» e «tout poème doit son caractère proprement poétique à la présence, au rayonnement, à l’action transformante et unifiante d’une réalité mystérieuse, que nous appelons poésie pure». Ma che è mai questo mistero, questa magia, questo fluido contenuto in un verso? Sono le parole che sorpassano sè medesime; è l’infinito prigioniero dei suoni.

Un bel verso è il miracolo di un sentimento, di un’idea, di una visione infinita, che due parole, appaiandosi, fan prigioniere, «senza averne il diritto».

Quando un poeta concepisce una poesia, il suo volo è continuamente appesantito dall’ansia di non saperlo condurre a termine, e ciò che si chiama in genere ispirazione è la coscienza del momento propizio alla scrittura. Un’opera di poesia non può fiorire che alla sua ora, perchè prima non era ancóra matura, e dopo è già secca. Ci sono a ogni modo due maniere di catturar l’infinito, quella di tutti i classici e una moderna.

Fino al secolo XIX° i poeti, servendosi delle parole, non avevano ancor l’aria di mordere il freno. Le parole erano la necessità [p. 187 modifica] della poesia, e i poeti sapevano che ci voleva un ostacolo per acquistar la gloria di averlo vinto. Consideravano l’infinito con calma, come se fosse un oggetto, non si decidevano a dargli la caccia che dopo averlo ben conosciuto, e se ne impossessavano con un certo distacco, senza perdersi d’occhio. Si può quasi dire che «raccontassero l’infinito». Anche quando era in loro, attendevano, per inseguirlo, di vederlo come una cosa lontana. I grandi classici hanno tutti aspettato, per scrivere dei versi tristi, che la loro tristezza, adagio adagio, avesse lasciato il proprio deposito.

Ma dall’ottocento in poi si son visti i poeti, presi, direi quasi, dallo struggimento di esprimersi per capirsi, spremere l'infinito senza guardarlo, con gli occhi chiusi, come si spreme un limone. Il poeta concita in sè medesimo questo infinito che vorrebbe traboccare in cascate ritmiche, e cerca, abbandonandosi ai suggerimenti di un vago istinto, delle parole che acquietino il suo furore con il sentimento di un’inesplicabile concordanza, e scrive in base alla garanzia del proprio benessere. Mallarmé ci ha dato l’esempio estremo di questo metodo. Non è giusto infatti di considerare [p. 188 modifica] Valéry, così rigorosamente, come l’ultimo frutto del simbolismo. Valéry ha delle radici in questi mondi. I poeti che spremono l’infinito come un limone maturo — Mallarmé più degli altri — sono in rivolta perpetua contro il vocabolario. La povertà delle parole li esasepra, e a torto, poiché non avrebbero più nessuna voglia di scriver dei versi, se le parole possedessero già la qualità divina di essere poesia. Valéry, invece, come i classici, sente il valore di questa resistenza delle parole, e ora mi ricordo di una intervista, in cui Leon Paul Fargue si rallegrava di aver da fare con il francese, perchè «è una lingua dura». Rileviamo, tra l’altro, che si possono scrivere in tutte due le maniere dei capolavori; ma che la Divina Commedia è più bella di qualunque suo verso, mentre un verso di Mallarmé è sempre più bello di tutta la poesia.

Non potrei sognare un esempio più persuasivo del cinema. Ecco un’arte che può avere delle immense ambizioni — e che ha per prima necessità il silenzio. L’infinito delle passioni e dei sentimenti, tutto quello che si esprime in parole, deve apparire sopra uno schermo silenzioso.

Possiamo ammirare questa difficoltà, ora [p. 189 modifica] che una nuova invenzione ha permesso di catturare nello stesso tempo alla realtà la sua immagine e la sua voce e sta annientando la bellezza e la maraviglia del cinematografo. Come lo splendore caramellato delle films a colori mi ha rivelato il valore delle ombre nere, il cinema parlante mi ha rivelato la maestà del silenzio. Il silenzio è la difficoltà che l’artista ha da vincere, la necessità del cinematografo. Chi ha visto oggi a Parigi delle films di anteguerra sa come questo silenzio forzato intimidisse gli attori, che per paura di non essere intesi abbastanza, facevano di ogni gesto una vera e propria dimostrazione figurativa.

Allora, si poteva dire che il silenzio fosse clamoroso. Ogni atteggiamento rammentava la rinunzia delle parole. Bisognava arrivare a non sentire il silenzio. Oggi la lotta contro il silenzio è stata vinta dall’uomo e il silenzio è divenuto il complice benigno della espressione; E senza saperlo il pubblico è grato agli attori appunto di questo: che si facciano capire senza parlare, più che se parlassero.

Arrivati a questo punto, precisiamo: se è [p. 190 modifica] vero che il bello artistico si distingue dal naturale, perchè se ne può spiegare il piacere, dobbiamo aggiungere che il piacere non si prova affatto se non si spiega. Si potrebbe cioè concludere «che il bello artistico è quello che ci dà un piacere, che per esser goduto noi dobbiamo spiegare». Il bello naturale ci riempiva per forza sua. Il bello artistico no. Il piacere del bello artistico, se non viene spiegato, non è nemmeno un piacere artistico e quindi per la maggior parte dei casi non è che un piacere mediocre.

Certo, ci si imbatte, anche nel piacere artistico, in un momento che non riusciamo a comprendere; e forse l’ultimo nòcciolo di un’opera d’arte è ermetico come quello della natura. Ma poiché siamo degli uomini, e cioè degli esseri nello stesso tempo saggi e ignoranti, dobbiamo avere il coraggio di spiegare le cose in un modo grossolano, per non correre il rischio di ignorarle del tutto. Ci rassegneremo dunque in questo caso a rilevare che la natura e un’opera d’arte ci dònno due piaceri diversi, anche se dobbiamo rinunciare a far luce in quel fondo ultimo dei sentimenti, die sfugge al dominio dell’intelletto.

Alla base di un’opera d’arte si trova ad [p. 191 modifica] ogni modo sempre una contraddizione; perchè se è vero che c’è un punto, nell’opera d’arte, che non possiamo capire, è anche vero che ci sentiamo appagati, guardandola, come se potessimo spiegarla. E in verità la spieghiamo, sebbene non del tutto. Ne abbiamo data una prova trattando dell’infinito; se ne potrebbe facilmente dare una controprova, mostrando come in generale gli uomini godano poco dinanzi alle opere d’arte, appunto perchè non cercano di spiegarle.

Basta guardare la folla di cui rigurgitano i musei, per capire quante volte gli uomini contemplino il bello artistico, come se fosse una bellezza della natura, aspettando che il piacere li penetri, quasi attraverso a dei pori. Ma chi guarda un’opera d’arte come si guarda una campagna o una donna e apprezza soltanto, nell’opera d’arte, quegli elementi che sono ancora natura — il colore o il soggetto nelle arti figurative i suoni nella musica, la trama nella letteratura — gode molto meno che dinnanzi a uno spettacolo naturale, appunto perchè il suo godimento è colto di straforo e come ingiustamente a un’opera che era stata composta per dare un piacere diverso.

Questo godimento, infatti, che ci è dato da un attento esame di noi medesimi, in cui [p. 192 modifica] cerchiamo di spiegare perchè si è goduto e si gode, non si può quasi distinguere dallo sforzo rapidissimo che facciamo per spiegarcelo in base a leggi estetiche. Godere esteticamente vuol dire in gran parte meravigliarsi dinnanzi al paradosso di un tutto ottenuto con mezzi inadeguati; per provare un piacere, dobbiamo dunque riconoscere questa specie di maestoso e stupefacente squilibrio, che fa la grandezza dell’arte; e cioè spiegare il nostro sentimento a noi stessi.

Per questo Leopardi dava tanta importanza, nel suo «Sistema di Belle Arti», all’assuefazione, e cioè in fondo all’attitudine, che veniamo a poco a poco acquistando, di spiegare il piacere della bellezza artistica. Senza l’assuefazione infatti, noi non possiamo provare nessun piacere innanzi a un’opera d’arte. Tutte le persone colte se ne sono accorte con la musica moderna, che le prime volte li aveva lasciati scontenti. Perchè, infatti, la musica moderna dava loro così poco piacere? Perchè non conoscendone i mezzi — nuovi e difficile — e non vedendone il fine, non arrivavano a capire in che misura il fine e i mezzi potevano coordinarsi, e non potendola giudicare secondo una legge estetica, non riuscivano nemmeno a spiegarne, non dico il [p. 193 modifica] piacere, ma il primo significato; e poiché quella stessa armonia era sensualmente sgradevole a, un orecchio non esercitato (gradevole diventa ora che l’abbiamo capita), dovevano scambiare per «rumore» quelle che era una nuova maniera di utilizzare la scala armonica.

Volendo dunque riassumere in uno schema i risultati di questi ragionamenti, direi:

1. L’arte è quell’attività che crea ìl bello.

2. Il bello (artistico) è quello che ci dà un piacere che per essere goduto deve essere spiegato e che noi possiamo spiegare sottoponendo l’opera d’arte a delle leggi estetiche.

3. Il piacere è. una concordanza sorprendente con un tutto imprevedibile e la coscienza che nessuno, salvo l’artista, avrebbe potuto crearlo.

4. Legge estetica è quella che in base a un fine e a una necessità, limita i mezzi con cui si può raggiungere il fine violando la necessità.

Possiamo perciò ripetere, come nel capitolo precedente, che mentre quasi tutti gli uomini godono gli spettacoli naturali, pochissimi godono la bellezza dell’arte.

Molti uomini sentono forse il bisogno di


13. Ferrero [p. 194 modifica] commentare il contenuto o il soggetto e cioè la materia naturale, di un’opera d’arte, ma rimangono indifferenti a quello che in un’opera d’arte suscita il piacere artistico; e se non li urgessero le convenienze e la vergogna di un prossimo, che ha vergogna di loro, rinuncerebbero volentieri al loro sovrano diritto di giudici. Ma anche quando riescono a farsi una tavola di valori, possiamo dire che godano? Tra le stesse persone colte, quanti, visitando una galleria o leggendo un romanzo o ascoltando musica, sentono davvero la bellezza, e cioè quello che dà all’uomo un piacere, che può essere spiegato in base a una legge estetica e non quello che è ancora natura e piacevole per sè stesso, come i colori o le note degli strumenti?

Notate che tutti si illudono di godere un capolavoro e che è un piacere questa stessa illusione. Già Leopardi ha notato come un’opera, quand’è antica e famosa, ci dia, solo per questo, un piacere che non ci dànno le opere sconosciute o moderne. Il fatto di leggere un libro o di guardare una pittura, che sono famose da molti secoli, che ci giungono cioè svviluppati in un alone suggestivo di ammirazione e di leggende, è un piacere di per sè, prima di tutto perchè il voler godere è quasi [p. 195 modifica]sempre tutt’uno con il godere, negli intelletti non esercitatissimi, poi perchè ci sentiamo, a quel modo, gradevolmente partecipi di un immenso coro, falsi cantanti che hanno soltanto da aprir la bocca, liberi da ogni giudizio responsabile e contenti di godere senza avere il dubbio che ne valga la pena, e finalmente perchè ogni opera famosa, che abbiano conosciuta, entra a far parte della nostra coltura sociale, e ci fa sperare che ce ne potremo servire con gli altri uomini, quando vorremo sfoggiare la ricchezza delle nostre letture.

Si spiega così come gli uomini godano dinnanzi agli avanzi del tempo o semplicemente dinnanzi alle opere illustri; ma per capire come questo piacere non sia un piacere artistico, basta pensare che gli uomini non ne godrebbero, se non sapessero d’essere davanti a dei capolavori.

Partiamo da questo principio; che là dove l’uomo è incerto per ignoranza, giudica sinceramente con il volere; e che ama sinceramente tutto quello che o per seguire la moda o per opporcisi vuole amare. Ma dire che la volontà è la vera base di quasi tutti i giudizi di gusto, in fatto d’arte, è come dire che pochi uomini godono veramente quello che dicono bello.

Note

  1. [p. 202 modifica]Paul Valery, Op. cit., pag. 111.
  2. [p. 202 modifica]Kant, Op. cit., pag. 99.