Leonardo da Vinci e la scultura/Capitolo I. Leonardo col Rustici e col Verrocchio

Capitolo I. Leonardo col Rustici e col Verrocchio

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Capitolo I. Leonardo col Rustici e col Verrocchio
Capitolo II. Le sculture attribuite a Leonardo
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CAPITOLO I

LEONARDO COL RUSTICI E COL VERROCCHIO


È indubitato che Leonardo da Vinci fu anche — per quanto in misura limitata — scultore. Ce ne assicurano i contemporanei e diversi documenti del tempo. Pittore e scultore vien chiamato, fra l’altri, dallo strumento di ricevuta 19 luglio 1501 del canone d’affitto che Pietro di Giovanni da Oreno gli doveva per un pezzo di terreno fuori porta Vercellina a Milano1. Egli stesso si disse esperto non meno in scoltura che in pittura et esercitando l’una e l’altra in un medesimo grado2. Fra i suoi oggetti personali son notati i coltelli, lo scalpello, un coltello sottilissimo, una volta il porfido. «Operò di scultura» ricorda il codice dell’anonimo Gaddiano3. E il Vasari: «Operò nella scultura facendo nella sua giovanezza di terra alcune teste di femine che ridono, che vanno formate per l’arte di gesso, e parimenti teste di putti che parevano usciti di mano d’un maestro», «Et nella statuaria fece prove nelle tre figure di bronzo che sono sopra la porta di San Giovanni da la parte di tramontana fatte [p. 2 modifica]da Giovan Francesco Rustici, ma ordinate col consiglio di Lionardo; le quali sono il più bel getto e di perfezione che modernamente si sia ancor visto».4 Il Lomazzo aggiunse: «Anch’io mi trovo una testicciola di terra di un Christo, mentre ch’era fanciullo, di propria mano di Leonardo da Vinci, nel quale si vede la semplicità e purità del fanciullo accompagnato da un certo che, che dimostra sapienza, intelletto e maestà, e l'aria che pure è di fanciullo tenero, e pare haver del vecchio savio, cosa veramente eccellente» aggiungendo altrove che di lui era «un Cavallo di rilievo di plastica, fatto di sua mano, che ha il Cavalier Leone Aretino statouario»5.

Le vicende dei due monumenti equestri intorno a cui Leonardo tanto s’affaticò vedremo più avanti. Ma che egli non si limitasse a schizzar cavalli ma almeno uno — il grande modello per la statua equestre del duca Francesco Sforza — realmente modellasse è pur certo e documentato da ricordi dello stesso artista.

Tutte le opere che abbiam ricordate sono andate perdute o smarrite, meno quelle del Rustici alle quali, come si è visto, è pur legato il nome di Leonardo. Un esame attento di queste ultime si impone, prima di studiare le parecchie altre che, con varia fortuna, vengono attribuite al grande maestro fiorentino.

Giovanni Francesco Rustici aveva assunto l’incarico di scolpire e tradurre in bronzo le tre statue di San Giovanni, del Fariseo e del Levita per il Battistero di Firenze il 3 dicembre [p. 3 modifica]1506. Il Rustici abitava nella via del Martelli e di Pietro Martelli egli era intimo. Leonardo, il 22 marzo del 1 508, raccogliendo in un manoscritto diversi appunti di varie materie, annotava: chomìnciato in Firenze in casa di Piero di Braccio Martelli6. A questo periodo — come osserva il Poggi — deve riferirsi la notizia dell’anonimo Magliabechiano «per 6 mesi si tornò in casa Giovan Francesco Rustici scultore nella via de’ Martelli»7. E il Vasari «con molta verosimiglianza» — commenta il Poggi — aggiunge: «Non volle Giovanfrancesco, mentre conduceva di terra quest’opera, altri attorno che Lionardo da Vinci, il quale nel fare le forme, armarle di ferri, ed insomma sempre, insino a che non furono gettate le statue, non l’abbandonò mai, onde credono alcuni che Lionardo vi lavorasse di sua mano, o almeno aiutasse Giovanfrancesco col consiglio e buon giudizio suo. Queste statue.... furono gettate in tre volte e rinette nella detta casa, dove abitava Giovanfrancesco nella via de’ Martelli»8.

«Il nome di Francesco ripetuto da Leonardo nei suoi manoscritti — osservava il Solmi — è un ricordo dei rapporti strettissimi, che passavano fra il Nostro ed il Rustici, il quale, stando presso Andrea del Verrocchio, piacendogli la bella maniera e i modi del Vinci, e parendogli che l’aria delle sue teste e le movenze delle sue figure fossero più graziose e fiere, di quelle d’altri, si accostò a lui, e lo servì con ogni amorevole sommessione»9. «Gli pose tanto amore [p. 4 modifica]esso Leonardo — aggiunge finalmente il Vasari — conoscendo quel giovane di buono e sincero animo e liberale, e diligente e paziente nelle fatiche dell’arte, che non facea ne più qua, ne più là di quello che voleva Giovanfrancesco, il quale, perciocché, oltre all’essere di famiglia nobile, aveva da vivere onestamente, faceva l’arte più per suo diletto e desiderio d’onore, che per guadagnare»; e ancora: «imparò Giovanfrancesco da Leonardo molte cose, ma particolarmente a fare cavalli, dei quali si dilettò tanto, che ne fece di terra di cera e di tondo e bassorilievo, in quante maniere si possono immaginare».

Da tutto ciò si potrebbe concludere che il Rustici si giovò di Leonardo, più anziano e più pratico di lui nell’eseguire i bronzi per il Battistero, forse nel modellare le figure stesse, ma che gli stretti rapporti d’amicizia che correvano fra i due artisti, un dei quali, il Rustici, «faceva l’arte per desiderio d’onore» impedirono che a Firenze se ne sapesse di più sulla parte spettante all’uno e su quella dovuta all’altro. Le notizie arrivarono quindi a noi poco chiare su quella collaborazione.

Le tre nobili figure del Rustici richiamano motivi ed elementi dell’arte precedente, ma sono animate da un movimento nuovo e vivace. La esile figura di San Giovanni, seminudo, ossuto, avvolto nella lunga pelle di montone, lungochiomato, alza la destra, predicando, a indicare il cielo mentre la sinistra, molle e delicata, si stende lungo il fianco secondo un motivo caro all’arte precedente e reso fra l’altri da Matteo Civitali nell’altare-monumento a San Regolo nel Duomo di Lucca, dove la disposizione generale dei tre santi è analoga a quella del Rustici. Ma mentre le due figure estreme del Civitali ripetono con monotonia lo stesso atteggiamento [p. 5 modifica]— il braccio destro piegato sul petto, l’altro lievemente piegato in basso e quasi steso — il più evoluto artista del Cinquecento ha dato varietà di mosse alle tre figure. Il fariseo, avvolto in ampio panneggiamento dalle pieghe profonde con forti contrasti di luci e di ombre intense, quali amava il maestro, il Verrocchio, piega il forte e muscoloso braccio destro verso il petto e sulla lunga barba, ch’è ricciuta come la chioma incolta e abbondante. Già l’influsso di Michelangiolo — che poco prima era partito da Firenze ove a lungo aveva lavorato, anche a preparare studi per le figure degli Apostoli per Santa Maria del Fiore — appare in questa vigorosa figura del Rustici, che quasi sicuramente ebbe a vedere a Firenze i primi disegni di Michelangelo per la tomba di Giulio II, iniziata tre anni prima delle tre statue che stiamo esaminando: perchè qualche rapporto fra il Mosè famoso e la parte superiore del Fariseo non manca. Nella originale e un po’ bizzarra figura del Levita è stata invece già veduta, non senza ragione, qualche relazione coll' arte di Leonardo (10). Se nell’atteggiamento generale — le gambe incrociate, un braccio piegato sul fianco, la testa calva dal cranio molto pronunciato un po’ china in avanti — richiami a motivi cari a Leonardo possono essere osservati (vedasi il disegnetto a penna per il David pel gesto del braccio raccolto, in uno schizzo della collezione Velton a Parigi (11)) tuttavia d’indole troppo vaga per indurre a una conclusione persuasiva, invece il capo caratteristico può meglio richiamare un tipo ripetuto da Leonardo nei disegni, nel «Cenacolo» delle Grazie, nella «Battaglia d’Anghiari». E lo stesso ampio [p. 6 modifica]cranio, son gli stessi zigomi larghi e pronunciati, è lo stesso orecchio di cui il padiglione si piega eccessivamente nella parte superiore. E poichè siamo in materia di rapporti — ai quali non vogliamo dare più valore che non consentano — lo stesso atteggiamento della parte superiore nella figura del Fariseo, con quel viso pensoso incorniciato da barba e capelli fluenti, col braccio raccolto ad accarezzar con la mano la barba, richiama quello di una figura dell’«Adorazione dei Magi» e di tutto un gruppo di disegni leonardeschi che con quella figura del quadro il Thiis ha messo opportunamente a confronto. Si tratta evidentemente di un gesto caro all’artista, e che lo stesso Michelangiolo adottò volontieri. Qualche relazione fra alcuni disegni di Leonardo e figure e sculture di Michelangiolo fu avvertita dal Thiis.

Ma su tutto ciò preferiamo non insistere. Null’altro che rapporti superficiali riusciamo a vedere fra le figure dipinte o disegnate da Leonardo e quelle tre vigorose figure scolpite, in cui lo spirito nuovo, che già trionfava con Michelangiolo, imprimente vita, movimento non conosciuti prima, si fonde con la tecnica sapiente appresa alla buona scuola del Verrocchio. Verosimilmente Leonardo si limitò ad aiutare il Rustici nel lavoro geloso e preoccupante della fusione e tutt’al più gli additò qualche atteggiamento vivace e — ci si consenta la ipotesi — gli modellò in cera la testa calva e un po’ pesante del Levita, in cui par di vedere caratteri leonardeschi riprodotti (con quell’arrotondamento dei piani della modellatura che non consentono un gran gioco di luci e di ombre a distanza e con quelle rughe della fronte troppo tenui) da persona più conscia degli effetti pittorici che pratica delle esigenze della scultura. Il Rustici, nelle due figure vicine e nello stesso panneggio del Levita, sembra invece unicamente [p. 7 modifica]preoccupato degli effetti delle statue, che andavan collocate a distanza dal riguardante. Il suo scalpello s’è addentrato profondamente nelle pieghe, le ha grandiosamente disposte alla maniera verrocchiesca, ha ceduto il posto al trapano a scavar buchi profondi per far risaltare i piani, ha ravvolto di barbe e di capelli che sembran di lana i visi e questi lo scultore ha modellato con vigore da maestro.

Fra i disegni in cartelle nella collezione degli Uffizi il n. 226 appartiene al Rustici e servì certamente per le tre figure scolpite descritte. Anche nelle varianti del foglio è evidente la preoccupazione — di origine michelangiolesca — di imporsi all' attenzione con la grandiosità tranquilla degli atteggiamenti.

Il De Nicola ha richiamato lo studio, dopo acute indagini, sulla figura artistica del Rustici. L’attività di questo scultore sembrava limitarsi alle tre statue esaminate. Ma quello studioso ne ha messe in luce altre che documenti e raffronti di stile consigliano attribuire al Rustici stesso: il bassorilievo col Redentore che appare alla Maddalena e una lunetta con una mezza figura di Sant’Agostino, un tondo con la Vergine il Bambino e San Giovannino del Museo Nazionale di Firenze già ritenuto di Andrea Ferrucci (12). Basterebbe la somiglianza assoluta di tipo e di fattura fra la testa del Battista nel Battistero e quella del Redentore nel rilievo del Museo per persuadersi della giustezza dell’attribuzione.

Nel tondo del Museo stesso, osserva il De Nicola, la dolcezza e l' espressione della Madonna e del Bambino come la posa di quest’ultimo sono certamente derivati da Leo[p. 8 modifica]nardo. «Questa è la essenza dell’arte del Rustici: essa è leonardesca con tendenze michelangiolesche». A riprova della giustezza della nuova paternità artistica del bel tondo del Bargello rimangono una descrizione e l’attribuzione al Rustici del Vasari.

Potremmo aggiungere che basta confrontare il grazioso Bambino paffuto, con quell’atteggiamento vivace nelle gambette divergenti, con molti delle pitture lombarde di derivazione leonardesca (specialmente del Solari) per trovare fra quello e questi un’aria di famiglia.

Nella collezione Home a Firenze è un piccolo gruppo in terracotta, (additatoci dal conte C. Gamba) con tracce dell’antica doratura, raffigurante un guerriero (mutilato delle braccia) nudo, sul cavallo impennato, sotto il quale un nemico caduto, pur nudo, accenna a difendersi col braccio sinistro alzato, piegato a reggere lo scudo, che andò perduto. Il gruppo un po’ tozzo, sommario d’esecuzione, già esente dalla influenza verrocchiesca, appartiene a un artista fiorentino dell’inizio del Cinquecento. l’è qualcosa del Rustici e di leonardesco insieme nella figura del caduto, con quella pesante testa calva e rotonda così affine a quella nella figura del Levita nel Battistero e ai disegni di Leonardo ricordati precedentemente.

Questo gruppo della casa Home ripete un motivo caro a Leonardo, che lo pose nel fondo dell’Adorazione dei Magi, e lo ripetè in più d’un disegno schizzato pel monumento equestre nel periodo milanese, come vedremo. Ma il motivo era già frequente nell’arte classica a cui Leonardo certo lo tolse rammodernandolo.

Nel Museo Nazionale di Firenze una testa virile calva entro un ovale, di cui si ignora l’origine, ricorderà ancora la [p. 9 modifica]testa del Levita e i disegni leonardeschi, con quel suo accenno caricaturale nella parte inferiore del profilo. Ma la modellatura vi è più sommaria e l’orecchio appuntito non ha la caratteristica forma di quello un po’ accartocciato del Levita.

Nel Museo Estense di Modena una figura in bronzo ha ancora, nello spirito michelangiolesco che lo informa, il motivo prevalente nel Fariseo del Rustici.

Alla bottega del Rustici potrebbero appartenere i busti in terracotta della cattedrale di Fiesole, con figure di vecchi barbuti, accigliati, dalle lunghe chiome pesanti, i colli troppo lunghi, le fronti enormi. Sembrano di un modesto scultore toscano del Cinquecento che s’industri a ripetere, come può, disegni o caricature leonardesche. Anche fra essi la testa grossa, calva del Levita del Rustici ritorna esagerata.

A Pietro da Barga appartengono numerose piccole riproduzioni in bronzo di statue classiche eseguite per la collezione del cardinale Ferdinando De Medici. Appartengono al Museo Nazionale di Firenze e il De Nicola richiamò su di esse l’attenzione13. Allo stesso scultore, a mezzo di questi confronti, egli attribuì anche una figuretta di un caduto, nella collezione della signora Finaly a Firenze, avvertendo (dopo quello scritto, dov’era ritenuta un Gallo combattente) come essa fosse precisamente la riproduzione di un motivo caro a Leonardo: cioè la figura del nemico sotto il cavallo del vincitore dei disegni pel monumento equestre milanese, analoga quindi anche alla terracotta di casa Horne.

Per concludere: una collaborazione di Leonardo all’opera di scultura del Rustici — assicurata dallo storico, confermata dall’esame stilistico — è a ritenersi sicura. Ma la [p. 10 modifica]contemporanea influenza del maggior scultore, Michelangelo, la contenne in modesti limiti.

Convien tuttavia tener presente che l’attività del Rustici è a pena intravveduta allo stato presente degli studi. Quando l’artista, a ottant’anni, partì per la Francia, altre cose oltre le poche ricordate egli aveva probabilmente eseguite che forse passano sotto il nome d’altri. E possibile che in avvenire sia dato precisarle e riconoscervi altre tracce di una collaborazione leonardesca.



A una ben più importante collaborazione da parte di Leonardo — quella pel monumento al Colleoni del Verrocchio — s’è pensato recentemente e con qualche insistenza.

L’opera, voluta dalla Repubblica di Venezia in onore del suo glorioso condottiero Bartolomeo Colleoni da Bergamo, era stata commessa ad Andrea Verrocchio nel 1479. L’artista, stando a Firenze, eseguì un grande modello che fu inviato a Venezia nel 1481. Insieme a quello furono esposti due modelli, del Vellano e del Leopardi. Si stava per eseguire la fusione in bronzo del gruppo del Verrocchio quando la Serenissima ordinò, racconta il Vasari, «che Vellano da Padova facesse la figura ed Andrea il cavallo. La qual cosa avendo inteso Andrea, spezzato che ebbe al suo modello le gambe e la testa, tutto sdegnato se ne tornò, senza far motto, a Firenze». Le cose si accomodarono così che, nel 1485, Andrea potè riprendere il suo lavoro a Venezia. Nel 1488 l’artista, ridotto in fin di vita, supplicava la Serenissima di concedere al proprio allievo Lorenzo di Credi di condurlo a termine. Ma l’estremo desiderio del maestro non fu [p. 11 modifica] dito. Il cavallo, nella cinghia che gira sotto il ventre, porta scritto il nome del suo esecutore, Alessandro Leopardi, che si ritiene si attenesse, almeno nelle grandi linee, al modello del Verrocchio. Il lavoro, anche per le dorature, di cui parla Marin Sanudo, andò così per le lunghe che solo il 21 marzo 1496 potè essere fatta l’inaugurazione del monumento.

I critici non si son messi ancor d' accordo sulla parte che spetta al maestro fiorentino e su quella che spetta allo scultore veneto. Gli uni attribuirono il cavallo al Leopardi, poiché il suo nome ce lo addita, e il cavaliere al Verrocchio; gli altri, vedendo nel modellato fine, tormentato del cavallo caratteri toscani e nelle bardature la finissima decorazione cara agli orafi fiorentini, preferirono attribuire questa parte del monumento al Verrocchio; il quale, viceversa, nel modellare la vigorosa figura del condottiero, insolita all’arte fiorentina, si sarebbe fatto Veneziano (la frase è di Marcel Reymond)(14), e si limitarono a vedere nel Leopardi il completatore del monumento e il fonditore. Non si può accogliere questa seconda ipotesi senza un po’ di ritegno. Par strano che l' artista che non s’era spogliato delle sue qualità originarie per una buona metà del gruppo consistente in due parti cosi intimamente collegate, se ne liberasse d’improvviso e mutasse del tutto maniera per l’altra metà. Altri, non potendo toglier di mezzo il nome del Leopardi, pensa che « questi si attenne forse in generale al modello del Verrocchio, ma lo ridusse a destriero da torneo, apportandovi le modificazioni che gli sembrarono proprie a dare solennità [p. 12 modifica]e ricchezza al monumento » (15). Ma è a chiedersi in che potessero consistere le innovazioni apportate dall’artista veneto in confronto al progetto del fiorentino, il quale non doveva certo aver dimenticato la solennità e la ricchezza dell’opera, a giudicare dalla statua stessa, che pure gli vien data senza discussioni.

Finalmente Cavalcaselle e Crowe {16), ricordando come un istrumento del 7 ottobre 1488 aggiungesse che, morto il Verrocchio «quando aveva fatto solamente di terra la figura e il cavallo», Lorenzo di Credi aveva preso a condurre a perfezione l’opera pel prezzo di 1420 ducati che la Serenissima ancora doveva pagare e ne allogò a sua volta il lavoro in bronzo a Giovanni d’Andrea di Domenico scultore fiorentino per la stessa somma, conclusero che in realtà il nome del Leopardi sta a indicarci per lo meno il fonditore (f sta scritto dopo il suo nome e poteva ben dire fudil) e che realmente il monumento rivela indirizzi artistici diversi.

«Se attentamente osserviamo — essi notano — questa statua equestre, è da concludere che non alla semplice fusione del modello il Leopardi abbia lmitato soltanto l’opera sua, ma che ancora mettesse la mano sul modello in terra del cavallo, poiché la testa si riscontra alquanto piccola in confronto del rimanente, e sembra a noi che questa parte dell’animale non sia stata modellata con quella perfezione e larghezza di forme, come vediamo invece modellata la figura del Colleoni, nella quale si riscontra una maniera che molto [p. 13 modifica]ricorda, in ogni parte, quella dello scolare Leonardo da Vinci». La lusinghiera ipotesi, non mai completamente abbandonata, è stata ripresa e ripresentata, con maggior copia di considerazioni, recentemente quando l’abbassamento e il trasporto a Roma del gruppo in bronzo, per ripararlo dai pericoli della guerra, ne consentirono un diligente esame da vicino.

In favore di una cooperazione di Leonardo si schierò Arduino Colasanti il quale, considerando che il Leopardi orafo e zecchiere non fu artista capace di grandi cose e che le sue opere, come i pili di piazza San Marco, non si raccomandano che per la ricchezza decorativa, e tenuto conto, da un lato, del temperamento artistico del Verrocchio, non conciliabile con gli ardimenti della meravigliosa statua e, dall’altro, constatando indubbie relazioni fra il bronzo e numerosi disegni di Leonardo che farebbero sospettare una collaborazione di quest’ultimo, concluse come «non sembri impossibile di poter in seguito arrivare a dare almeno valore d' ipotesi a questa che è, per ora, un’impressione fatta di sensazioni indefinite» (17).

A parer nostro, l’ipotesi ha un serio fondamento di considerazioni storiche e di raffronti critici.

Nel 1479, quando il monumento fu commesso al Verrocchio, che vi si applicò senza muoversi da Firenze, Leonardo abitava a Firenze. Col Verrocchio suo maestro egli lavorava e non di rado abitava. Leonardo Ser Pieri de Vincio manel cum Andrea del Verrocchio, ricorda un atto di notifica del 9 aprile 1476 (18). E a Firenze egli rimase fino al 1482 circa. [p. 14 modifica]E indubbio che in quel primo periodo certamente febbrile, intenso, appassionato di ricerche e di studi da parte del Verrocchio per corrispondere all’aspettativa di Venezia, Leonardo da Vinci dovette assisterlo, almeno come allievo, quasi come collega. Perchè egli era già artista di valore e di grido e aveva avuto commissioni d’importanza.

Nel 1485, è noto, il Verrocchio riprese quel lavoro.

E appunto in quegli anni mancano notizie della presenza di Leonardo a Milano, dove s’era stabilito pochi anni prima.

Nel 1487 egli aveva l’incarico dalla Fabbriceria del Duomo di Milano di preparare un modello per il tiburio, chiamato a risolvere così uno dei quesiti statici e artistici più importanti d’Italia. E legittimo quindi il ritenere che, nel frattempo, egli avesse dato alte prove del suo valore, più che non ce ne ricordino i pochi e freddi documenti rimastici. Da quel tempo fino alla caduta di Lodovico il Moro, cioè fin quando, a un di presso, il monumento al Colleoni fu inaugurato, Leonardo non si allontanò dalla Lombardia, dove — si noti — egli doveva godere fama di artista oltre che valente, pratico nel modellare monumenti equestri, perchè il Duca gli commetteva il più importante, addirittura uno in superlativo grado, E non è forse una mera coincidenza il fatto che ai lavori per l’esecuzione del modello alla statua equestre del Colleoni seguano a poca distanza quelli del colosso sforzesco, pel quale lo scolaro aveva appreso tanto da poter senz’altro affrontare opera così grandiosa collaborando, sia pure nelle ricerche, col maestro alla precedente opera d’arte.

Perchè, si può ammettere fin che si vuole ch’egli fosse un genio, ma non è credibile ch’egli iniziasse addirittura la sua carriera di «statuario» col colosso al duca Francesco senza essersi provato prima in qualcosa del genere. Non occorre [p. 15 modifica]esser scultore per sapere che, oltre che di genio o più modestamente d’ingegno, per tali lavori è questione di pratica; per la quale ben poco potevano aver giovato le testine in terracotta e i lavorucci di che ci parlano il Vasari e il Lomazzo.

E indubitato che il monumento al Colleoni rappresenta, nell' opera delicata del Verrocchio, una sorpresa. Nessun anello congiunge le opere precedenti, squisite ma non audaci, a questa, superba e grandiosa. Perchè i lavori suoi di scultura sicuri — Cristo e San Tommaso per Orsanmichele, la tomba De* Medici, il Davide, il genietto di Palazzo Vecchio, la terracotta di villa Careggi, il sepolcro Tornabuoni, le sculture sul monumento Forteguerri finite, sembra, da scolari, la Madonna col Bambino del Museo Nazionale di Firenze — rivelano costantemente un artista preoccupato di imprimere eleganza, grazia, nobiltà alle sue figure, ma non provano ch’egli con altrettanta fortuna riuscisse a dar loro, quando fosse il caso, potenza e vigore. Davide è per lui esclusivamente il giovanetto delicato di forme e piacente, nella sua tunica attillata che l' orafo ha finemente ornata nei bordi: la enorme testa di Golia a’ suoi piedi, nonostante la elaborazione infinita dei piani del viso molle e ammanierato, non è ne forte ne truce e può esser scambiata con quella di un Redentore. I bassorilievi del sepolcro di Francesca Tornabuoni, fra le tante figure leziosamente doloranti, non ne presentano una sola che riveli vigore e grandiosità. Il gruppo «dell’incredulità di San Tommaso» in Orsammichele (gruppo nel quale fu- veduto il prototipo del Cristo e degli Apostoli di Leonardo) (19) è di una nobiltà cui nuoce il lavorio delle [p. 16 modifica]pieghe moltiplicate eccessivamente come di panni bagnati appiccicati alle membra secondo una preoccupazione dello scultore, che negli angioli del monumento Forteguerri si spin- gerà alla esagerazione. In un' opera il Verrocchio rivela forza e vigore : nel dossale con la Decollazione di san Giovanni Battista per il Battistero di Firenze finito nel 1480. V' è una drammaticità che invano si cercherebbe nell' arte fiorentina di quegli anni. Lo sforzo dello sgherro con la spada alzata, l'atteg- giamento del soldato che mostra il dorso e le gambe aperte, in atto di volgersi a un cavaliere che s'avanza (e il profilo arcigno del soldato richiamerà un tipo che con maggior larghezza Leonardo ripeterà di sovente) rappresentano un'eccezione, da questo aspetto, nell' attività dello scultore fiorentino, che tuttavia nemmeno in quella scena tragica ha abbandonato il lavorio eccessivo delle pieghe e che sopratutto ha affievolito il senso tragico del gruppo con la esagerata decorazione delle vesti e delle armature ricchissime, dello sfondo, dei parti- colari. L' orafo elegante e paziente si sovrappone sempre allo scultore e non gli concede la nota solenne, elevata che si giova dei mezzi scelti e, di conseguenza, parchi, misurati. Una bella grandiosità d' arte ottenuta con minori mezzi, con larghezza di modellatura se non del tutto spoglia delle troppe cincischiature ornamentali si osserva nel busto — conservato nel Museo Nazionale di Firenze — raffigurante una donna coi fiori nella sinistra raccolta sul petto, con un atteggiamento e una sobrietà di linee che hanno già qualcosa di leonardesco; nel busto in terracotta di Giuliano De Medici della collezione Dreyfus a Parigi, dall'aria spavalda; nel bassorilievo di Sci- pione di profilo del Museo del Louvre. Ma le attribuzioni non son concordi e varii dubbi son nati sulla paternità artistica delle due ultime sculture. Ora, si confrontino le sculture sicure [p. 17 modifica]del maestro con la magnifica figura del Colleoni e ci si troverà sconcertati ad attribuirla al Verrocchio, senza ammettere l’intervento di una forza nuova in aiuto dello scultore. V’è una analogia iconografica indubbia fra il viso del condottiero famoso e quello del soldato vòlto di profilo a destra nella Decollazione di san Giovanni. Ebbene: quest’ultimo sembra una caricatura in confronto a quello, non tanto perchè l’artista si sia studiato di imprimere una smorfia allo sgherro per renderlo sgradevole, secondo una consuetudine del tempo, quanto perchè il tormento della tecnica insistente nell’incavar piani delle occhiaie e sotto la bocca e sotto gli zigomi e nei capelli contrasta troppo con la larghezza di fattura del viso del Colleoni, a piani sapienti eseguiti con misura. Il cavaliere è piantato in arcioni con un’imponenza impressionante, con una coscienza e una scienza della gravità dei corpi, dell’equilibrio delle masse, dell’effetto che deriva dalla solennità della misura quale, con tutta la miglior buona volontà, si cercherebbe invano in quel bassorilievo, finito quando incominciava il monumento equestre. Il bassorilievo della Decollazione ha errori di prospettiva nello sgherro seminudo, nelle figure del secondo piano e nello stesso tempo esagerazioni di atteggiamenti e di ostentati sentimenti interni, sopraffatti da una decorazione che non dà respiro, così da intonarsi perfettamente all’ambiente fiorentino del suo tempo. La figura del Colleoni è invece del tutto ispirata a intendimenti moderni e nuovi.

La decorazione minuta e troppo fine nell’armatura e nella sella del capitano e nelle bardature del cavallo per essere vista dal basso non manca, è vero, nel gruppo equestre; e sopratutto si svolge nel basamento alto, esile, ricchissimo. Ma ha tutta l’aria d’esser stato messo come una concessione ai [p. 18 modifica]gusti dell'orafo, anche se nelle barde non mancano motivi cari a Leonardo stesso, a incominciare da certe girate che si risolvono in fiori a larghe foglie. L’arte del Verrocchio riappare nel modo com'è trattata, a fiocchi di lana incomposti, la criniera, nell'infittimento dei fregi delle barde e delle briglie che non lasciano riposar l’occhio, quali ritornano nelle vesti nella Flagellazione. La novità è tutta nello spirito generale che informa il gruppo equestre e che non si può senza ripugnanza ritenere uscito di getto, spontaneamente, dalla consueta genialità del Verrocchio. E poiché in quel tempo Leonardo lavorava con lui e quello spirito nuovo è del tutto consono al suo genio inventivo, al suo modo di pensare e di creare nell’arte, non sapremmo trovare altra soluzione al quesito altrimenti insolubile della vera paternità artistica dell’opera superba che ammettendo una sua diretta collaborazione. Collaborazione verosimilmente limitata a un’idea, a un progetto, forse a disegni (e perchè no alla modellatura di quella testa vigorosissima e di sapore tanto leonardesco?) ma sempre collaborazione. Siamo nel campo delle ipotesi: s’intende. Ma a noi pare che buone ragioni confortino questa che ci consente di spiegare in modo convincente la presenza del capolavoro fra le opere del Verrocchio e che è, come vedremo, confermata da tutto un complesso di raffronti con le opere di Leonardo.

Neil’arte italiana l’atteggiamento generale del cavallo di quel monumento — preferito sugli altri, dal celebre gruppo del Marco Aurelio in poi — era comune.

Figura, per citare gli esempi più noti, in quelli in onore dell'Hackwood, di Nicola da Tolentino, del Gattamelata. Ma nel monumento al Colleoni la novità non consiste tanto nella zampa più alzata e che imprime movimento e vita e nel [p. 19 modifica]spondente maggior distacco dalle altre zampe atteggiate al passo un po’ fremente del destriero di razza, quanto nella sapienza nuova dei muscoli vigorosi. E l’atteggiamento stesso, interpretato con gli stessi particolari, che Leonardo esprime in uno dei cavalli (e, si noti, condotto a miglior punto che il cavaliere e le figure circostanti) nel fondo turbinoso della sua Adorarazione dei Magi, del 1481. Se pensiamo al fatto che il Verrocchio, spezzato nel 1481 il primo modello del suo cavallo, ne ripresentò uno nuovo, certo mutato, intorno al l485, con la forma attuale, ne concludiamo che la trovata di Leonardo ha la precedenza. Di qui all'ammettere che Leonardo — spirito audace e novatore — aiutasse il maestro e ormai collega di lavoro col consiglio e coli’ opera v’è solo un passo. E il passo è facile a farsi quando si pensi alla foga, nuovissima nell'ambiente artistico fiorentino, che emana dal fondo dell' Adorazione, in cui è stata veduta una lotta fra due civiltà, la pagana e la cristiana, ben lontana dallo spirito tranquillo legato alla tradizione, del Verrocchio; quando si pensi ai rapporti grandi, evidenti non solo di intuizione ma di forme e di particolari fra le figure di fondo e il Colleoni, fra questo e disegni di cavalli che altri, prima di noi, ha opportunamente messi a diretto contatto con quello del monumento20.

La modellatura del petto e delle gambe del destriero in bronzo son del tutto analoghe a quelle che Leonardo ha diligentemente studiate sul vero, insistendovi, scrutando il movimento dei muscoli a seconda del procedere dell’animale, in un magnifico foglio del Museo di Budapest e in diversi disegni [p. 20 modifica]di Windsor. Non solo i lunghi tendini ma le piccole pieghe delle giunture della pelle forte sono interpretati in modo uguale, che va oltre la necessaria analogia che corre fra tutti i cavalli di lusso ma permane nel bronzo con uniformità d’interpretazione; mentre poi, nella parte superiore del petto, nel collo ammanierato del cavallo in bronzo lo scultore sembra ricadere nel tipo tradizionale allontanandosi dal vero, a cui invece Leonardo s’è tenuto fedele. L’atteggiamento della zampa anteriore sinistra alzata fino a formare quasi un angolo retto — che dà all’animale una singolare nobiltà — ritorna frequente, con effetto veramente monumentale, nei disegni di Leonardo: in quelli della collezione Reale di Torino, di Windsor, nello schizzo del codice Atlantico. Perchè, negli studi pel monumento a Francesco Sforza, l’artista riprese l’atteggiamento preferito, ma con una lieve variante: abbassando cioè il piede dell’animale che si appoggia a un oggetto posto in terra.

In tre delicatissimi disegni di cavalli piantati su un piano liscio l’animale ritorna due volte con la zampa sinistra alzata come nel gruppo di Venezia. E v’è in tutti tre la testa troppo piccola, che nel bronzo fu criticata sempre come un difetto appariscente. Forse che quel triplice disegno appartiene al periodo di studi per la statua al Colleoni? Il sospetto è legittimo anche se in essi è una eleganza di forme superiore al bronzo; nel quale, per ragioni pratiche dirette a dare alla massa maggiore stabilità, anche se a danno della naturalezza, lo scultore fece appoggiare tre zampe in terra, allontanando stranamente la destra posteriore che non accenna affatto ad alzarsi come dovrebbe: così che il cavallo del Verrocchio sembra alzare le gambe per battere sul terreno — con un movimento comune ai cavalli vogliosi di muoversi — [p. 21 modifica]piuttosto che per camminare. Anche la forma delle orecchie piccole e ritte, fra le quali un ciuffo si aderge, richiama un motivo leonardesco, reso con maggior cura in un forte disegno chiaroscurato della biblioteca Ambrosiana. La stessa modellatura delle coscie, con quei rigonfiamenti eccessivi se pure di un cavallo ben nutrito e che sembran natte più che giuoco naturale di muscoli e di adipe nel movimento, che si osservano in qualche disegno di Leonardo — sopratutto in un foglio di Torino — hanno riscontro nel bronzo. Finalmente conviene tener conto di un gruppo di disegni che col monumento di Venezia presentano un’affinità di spirito, di interpretazione che sembra esorbitare dalla pura casualità. Fra gli schizzi di Leonardo — fra qualcuno almeno che qui riproduciamo — e il bronzo corrono così stretti, evidenti rapporti che, se non fossero accompagnati da altri nei quali lo spirito caratteristico di Leonardo è chiaro, si crederebbero del Verrocchio e pel monumento al Colleoni. Si osservi, fra l’altro, il disegno di Windsor che qui riproduciamo accanto a un particolare del bronzo e che presenta il largo petto dell’animale con le due zampe anteriori viste di fronte, quella alzata di scorcio. Vien naturale la tentazione di concluderne che non v’ha dubbio sul rapporto diretto fra il disegno con quei larghi piani, quelle protuberanze accentuate, quell’arcuatura grandiosa sotto il ventre e il monumento di Venezia. Ma in quest’ultimo par di vedere poi, nel suo complesso, l’opera di un artista che, per quanto ben consigliato, non ha saputo cavarsi completamente d’impaccio nell’interpretazione anatomica dell’animale. Come se, pur avendo sott’occhio disegni e un modello superbi per lo spirito generale animatore, fosse nuovo al compito difficile. È noto che tutti gli specialisti di cavalli, anche ammirando il superbo atteggiamento del cavallo [p. 22 modifica]verrocchiesco, hanno sempre fatto molte riserve sulla sua modellatura, pur senza arrivare forse alle severe critiche del Cherbuliez che notò «une petite tête insignifiante, ajustée a cet énorme corps, a ce ventre lourd, a cette croupe massive, a ces flancs ensevelifs sous la graisse,... enfin ce triste destrier a l’air morne, languissant et eteint, n’a nulle action, rien qui annonce la vie, sans compter que la position de ses jambes ne se peut expliquer. Il lève celle de droite de l’avant-train en la repliant de mauvaise grâce; ce qui faisait dire à Cicognara que ce cheval a l’air de vouloir descendre de son piedestal; mais on pent se rassurer là-dessus, les trois autres jambes sont solidement fixées au sol, qu’elles pressent de tout leur poids; en particulier la jambe gauche de derrière, qui devrait accompagner le mouvement, est la plus reculée de toutes et bien habile qui la détacherait du piedestal». Al che tuttavia un altro scrittore francese particolarmente intenditore di cavalli faceva notare che anche senza tener conto del lapsus per cui qui si parla della gamba sinistra mentre in realtà è della destra che si tratta, conviene osservare che se la gamba più lontana dovesse essere rappresentata diagonalmente al basamento, cioè a dire alzata, per accompagnare quella del treno anteriore, l’animale correrebbe al trotto e, per conseguenza, premerebbe il terreno con altre due gambe. Ma tenendo conto di ciò, egli non appoggerebbe con forza che un piede davanti, perchè quello che completerebbe, per di dietro, l’accordo diagonale necessario alla naturalezza della mossa non tocca il suolo che con la punta; inoltre, se questo piede fosse poggiato, non costituirebbe una base sufficientemente lunga per giustificare un’altra attitudine che quella che esige la metà d’un passo ordinario, [p. 23 modifica]e non il trotto21. Egli ne concluse che il movimento è corretto. Ma, a dir vero, la questione esorbita dalla pura arte per entrare nella statica in rispetto alle esigenze del peso di una grande massa di bronzo. Certo è che mentre Donatello, nella statua del Gattamelata a Padova, piantò l’animale con tre zampe in terra e per di più, a dare il massimo della stabilità, collocò una palla fra lo zoccolo della sola zampa alzata e il basamento, e con la stessa disposizione delle gambe adottata dal Verrocchio, cioè le due di sinistra contemporaneamente avanzate, le due di destra arretrate, come precisamente aveva fatto Nanni di Bartolo nel monumento Sarego a Sant’Anastasia di Verona (per non risalire a esempi del secolo precedente e al periodo classico), Leonardo invece, che aveva studiato a lungo i movimenti del cavallo sul vero — i disegni lo provano — s’era ben avveduto che il movimento del cavallo, se movimento deciso vuol essere e non l’inizio di una mossa, esige, per l’eleganza stessa del procedere, che non due gambe da un lato siano avanzate e le altre due arretrate, ma mentre l’una anteriore procede, proceda pure quella dell’altro lato, posteriormente. Il foglio coi tre disegni finitissimi di Windsor ce lo conferma: sarà meno estetico in realtà veder da un lato le gambe che si allontanano mentre dall’altro si avvicinano, provocando una ampia apertura da una parte e una ristrettissima dall’altra, ma così volle provvidamente natura nel movimento del lungo corpo dell’animale. Se ne potrebbe concludere che Leonardo [p. 24 modifica]24 CAPITOLO I studiò con buoni intendimenti il progetto per il monumento e comunicò il risultato de’ suoi studi non tanto d* indole generale e quali il Verrocchio buon maestro ben conosceva ma verosimilmente anche le sue ricerche di particolari e di anatomia del cavallo, in cui rivela più profonda conoscenza che il suo maestro; il confronto fra la piccola testa nel bronzo con quelle vene che sembran fuoruscire dalla pelle dissecata e il disegno della testa analoga dell’Ambrosiana basta a provarlo. Il Verrocchio ne tenne forse conto come potè, ma le esigenze della fusione e della stabilità del grande cavallo, una novità per lui, lo indussero agli adattamenti che abbiam veduto e ad arricchire eccessivamente di decorazioni, secondo la sua natura, l’armatura, la sella, le fibbie, le barde; a tormentare di troppe arricciature e sfioccolature la criniera e la coda del destriero. Nella nobile, potente figura del condottiero, così lontana dal repertorio di tipi e di formule artistiche care al Verrocchio, tanto affine invece al sentimento d’arte di Leonardo è a vedersi probabilmente una più fedele interpretazione di disegni, forse di un modello: almeno nella testa, magnifica di esecuzione, di Leonardo. L* ipotesi — a parer nostro — collima coi dati di fatto e spiega la presenza di quest opera colossale e potente fra quelle delicate e raccolte del Verrocchio. Al Leopardi dovrebbero spettare la fusione e qualche adattamento dopo la morte del Verrocchio e verosimilmente lo stesso alto e ricco basamento a colonne eleganti e a belle profilature: motivo di sapore prettamente locale e che a Venezia trova frequenti analogie nel periodo precedente e nel coevo. La figura del Colleoni, la testa principalmente, modellata con larghezza di piani, con una accentuazione di tratti fisionomici atti a esagerare l’espressione della forza, fino a rag [p. 25 modifica]LEONARDO COL RUSTICI E COL VERROCCHIO 25 giungere, sopratutto nel labbro inferiore così avanzato, quella dello sprezzo, richiama (come s’è visto) altre figure di Leonardo che hanno contribuito a far pensare al suo intervento nella fattura del monumento al condottiero. Nei quadri e più nei disegni il tipo ritorna frequente. E poiché il noto bassorilievo di Scipione, di profilo, già nel Museo del Louvre, dal bizzarro elmo ornato d’un drago, dall’armatura esuberantemente decorata con svolazzi che in modo poco persuasivo se ne staccano presenta qualche apparente analogia col vigoroso disegno di guerriero di profilo ch’è attribuito a Leonardo nel British Museum (la presenza di una testa di leone nella sua armatura contribuì persino a far credere che il guerriero fosse il Colleoni stesso!) (’), anche il primo fu da qualcuno ritenuto suo. Una maggiore distinzione nei tratti e una maggiore flessibilità nei movimenti che si nota nelle opere di Leonardo giovane in confronto al Verrocchio fu osservata in quel bassorilievo del Louvre, come in un busto di San Giovanni Battista, del Kensington Museum e nel bassorilievo di giovani portanti uno scudo nel palazzo comunale di Pistoia, dati anch’essi da qualche studioso a Leonardo (^). Ma i caratteri leonardeschi, così vigorosi e personali nelle opere sicure del maestro, si smorzano, si rammolliscono in quelle sculture attribuitegli; solamente le esteriorità permangono, proprie, qual più qual meno, a tutti i seguaci del Verrocchio. Per attenerci a (’) E. JACOBSEN, Neues iiber Leonardo, in «Kunslkronik», Lipsia, n. 13, 1906-7, 25 gennaio, dove son ricorditi le opere e i disegni affini al profilo di Londra e al bassorilievo del Louvre. L’Jacobsen stesso pensò a una collaborazione di Leonardo al monumento Colleoni, almeno per la testa del condottiero. i^) E. Me. CURDY, Leonardo da Vinci as sculplor, in «The nineteenth Century and after», Londia, dicembre 1909. [p. 26 modifica]26 CAPITOLO I un confronto possibile, concludiamo che il magnifico disegno di condottiero del Biitlsh Museum è il più vicino alla grandiosità di fattura di Leonardo: v’è più rilievo nel foglio stesso che in realtà non abbia il Scipione in marmo ricordato. Nel quale i piani del viso si appiattiscono, gli zigomi sfuggono, la linea della schiena non si riattacca a quella del collo, le decorazioni stesse non seguono i movimenti delle membra. Tuttociò — convien ripeterlo — non si presta che a ipotesi più o meno attraenti. Per questo è lecito concludere che se Y intervento, diretto o più verosimilmente indiretto, col tramite di schizzi e di consigli, di Leonardo nel monumento verrocchiesco e che noi riteniamo probabile è un problema che può attrarre e sedurre, mancano fino ad ora sicuri elementi di giudizio per tradurre il quesito dal campo delle pure ipotesi a quello della realtà. Un’altra scultura del periodo verrocchiesco attribuita da uno studioso, Teodoro Cook, a Leonardo stesso è un bassorilievo con la Madonna e il Bambino Gesù trovato in una villa ch’era degli Albizzi, passata poi agli Orsi nel paese toscano di Signa (’). Ma le sottili argomentazioni dello scrittore inglese, per quanto appoggiate da richiami critici e storici di qualche entità, non tolgono che i caratteri strettamente verrocchieschi del bassorilievo impediscano di pensare a Leonardo, che nelle opere sicure della giovinezza si rivela già personale (’) T. COOK, The Signa Madonna an essay in comparisons, dicembre 1919, edizione privata ili. J. THllS, Leonardo da Vinci, Londra. [p. 27 modifica]LEONARDO COL RUSTICI E COL VERROCCHIO 27 e indipendente dal nìaestro, per quanto ne risenta la derivazione. Lo stesso convien dire del busto di giovane donna che con le belle mani regge i fiori, nel Museo Nazionale di Firenze, in tutto affine all’arte del Verrocchio, con quella tecnica minuta, quasi trita dei particolari; del busto in cotto di San Giovanni Battista del South Kensington Museum (e che attribuiremmo all’arte del Solari) attribuiti timidamente, qualche volta, a Leonardo. Al quale si pensò anche per il putto col delfino sulla fontana nel cortile di Palazzo Vecchio, così diverso, con la sua testa zazzeruta sul corpo un po’ mingherlino, dai compagni cari a Leonardo, forti, atticciati, coi pochi riccioli dietro la testa quasi calva (’). Le attribuzioni si spiegano col fatto che, per qualche tempo, l’arte di Leonardo si avvicinò volentieri agli ideali artistici del Verrocchio. I noti disegni di giovani donne di profilo a Windsor, ritenuti dal Thiis del 1476, ben lo assicurano. Quei rapporti, lievi, quasi spirituali, furono bene analizzati dal Thiis stesso; che a ragione combattè la tendenza di certa critica, dal Miintz m poi, che esagerava quei rapporti fino a supporre che il giovanissimo Leonardo influisse seriamente sul Verrocchio, anziché questi sull’allievo (^). Ad altra opera di scultura è legato il nome del grande fiorentino. Neil’esordio del Cinquecento giaceva abbandonato, da più che un trentennio, nel cortile dell’opera di Santa (’) L’attribuzione dr:l putto col delfino a Leonardo fu raccolta anche da SELWYN BRINTON, Form and nature in the of Leonardo, nel volume dell’Istituto Vinciano Per il IV centenario dalla morte di Leonardo da Vinci, Bergamo, Isf. It. di Arti grafiche, 1919. Si noti che nell’elenco delle opere del Verrocchio pei Medici, steso dal fratello di lui Tomaso, fii;ura il putto col dilfìno, come il busto muliebre ora nel Museo di Firenze. (2) JENS THIIS. Leonardo da Vinci, Londra. [p. 28 modifica]28 CAPITOLO I Maria del Fiore a Firenze, un blocco in marmo dal quale invano s’era tentato cavare una figura di gigante. Lo scultore incapace era stato certo Bartolomeo di Pietro detto Baccellino da Settignano. Per desiderio dei Consoli dell’Arte della lana fu deciso di affidare quel marmo a più valente artista, perchè ne ottenesse una gigantesca figura di Davide. Ciò risulta dalle deliberazioni nell’Archivio dell’Opera. Il Vasari aggiunge che Pier Soderini, uno de’ maggiorenti della città «aveva avuto ragionamento molte volte di far condurre quell’opera a Leonardo da Vinci, teste ritornato da Venezia e che si trovava in patria senza alcuna importante occupazione e stabile impiego». Quelle trattative — come pensa il Solmi, che rievocò l’episodio e indicò il disegno leonardesco che ne è conseguenza — avvennero certo sulla fine del 1 500 e nel primo semestre del 1 501, perchè è noto che il 1 6 agosto 1501 l’importante incarico fu affidato invece a Michelangiolo Buonarroti (’). E autorizzato il sospetto del Solmi che la fama di Leonardo anche come scultore dovesse essere ben stabilita se a lui s’era pensato e ripetutamente di affidare tal lavoro. A quel periodo appartiene sicuramente lo schizzo a penna leonardesco del David a Windsor, disegnato con vigore di effetti. David ha il braccio sinistro col sasso in mano raccolto sul petto, il destro steso lungo il fianco a reggere la fionda. Il motivo è lo stesso adottato da Michelangiolo e svolto con maggior nervosità ed esilità di forme; perchè i due artisti, vincolati dalla sbozzatura precedente del marmo non poteron creare ex novo — l’uno sul foglio, I’ altro nel marmo stesso — r opera d’arte. Sul foglio, sotto uno scritto e (’) E. Solmi, // «’DacìJ» dì Leonardo e il * ’David» di Michelangelo, in «Rassegna d’Arte». 1912, agosto-seUembre. [p. 29 modifica]LEONARDO COL RUSTICI E COL VERROCCHIO 29 disegni d’altro argomento ritorna una seconda volta, a pena accennata, la figura del David. Il Miintz credette quel primo disegno una copia di Leonardo della statua di Michelangiolo. Riuscì facile al Solmi provare che non si trattava di una copia ma di un disegno originale affine a quello del Buonarroti, per le ragioni esposte, ma diverso: diverso nello spinto generale, nella posizione della sinistra — sul petto, per Leonardo, non sulla spalla — e nell’atteggiamento della destra che Leonardo con caratteristico atto voltò all’indietro a regger meglio la fionda. L’opera sarà affidata a Michelangiolo e Leonardo sarà poi chiamato a dare il suo parere dove meglio collocarla. E possibile — come fu scritto dal Solmi — che a Leonardo si preferisse il suo rivale pel fatto che il monumento allo Sforza non era stato eretto e fuso per supposta deficienza tecnica da parte di Leonardo. Certo la statua è superiore allo schizzo. V è nella prima tanta eleganza e nello stesso tempo tanto vigore quanto nel disegno v’è pesantezza e forza bruta. Ma sarebbe azzardato concludere che Leonardo non V avrebbe — egli, così instancabile ricercatore della forma e del movimento agile e spontaneo — modificato prima di tradurlo nel marmo. Altre volte egli aveva saputo, con un motivo analogo, avvicinarsi alla eleganza michelangiolesca. V* è un accurato disegno di Leonardo, nel British Museum, per un Nettuno che qui riproduciamo, in cui sarebbe difficile desiderare più classica bellezza di forme, maggior robustezza di modellatura. La figura ha la solennità di una statua classica e per una scultura sembra veramente ideata e tratteggiata.

  1. G. Milanesi nelle Vite del Vasari. 1878-85, IV. 89.
  2. Trattato della pittura, ed. Ludwig. I. pag. 82, pag. 38.
  3. C. de Fabriczy. Il codice dell’anonimo Gaddiano, in «Arch. stor. ital.», serie V, t. XII, 1893, Firenze.
  4. G. VASARI, Le Vite.
  5. G. P. Lomazzo, Trattato dell’arte della pittura, Milano. 1584. lib. II.
  6. British Museum, ms., Arundel, n. 263, c. 1. r.
  7. Leonardo da Vinci. La Vita di Giorgio Vasari nuovamente commentala e illustrata con 200 tavole a cura di GIOVANNI POGGI. Firenze. Pampaioni. 1919.
  8. Vite cit.
  9. E. Solmi, Le fonti dei manoscritti di Leonardo da Vinci, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», Supj)l. n. IO e li, i orino, Loescher, 1908.
  10. W. Von Seidlitz. Leonardo da Vinci. Berlin. J. Bard. 1909. vol. II.
  11. Pubblicato da J. Thiis. Leonardo da Vinci. Londra, pagg. 190 e 198.
  12. Giacomo De Nicola, Notes on the Museo Nazionale of Florence, I , in « The Burlington Magizine », febbraio 1916.
  13. G. De Nicola, in «The Burlington Magazine», dicembre 1916.
  14. M. Reymond, Verrocchio (Les mailres de l’art), Paris.
  15. A. Venturi, Storia dell’arte italiana, vol. VI. La Scultura del Quattrocento, Milano, Hoepli, 1908.
  16. G. B. Cavalcaselle e J. A. Crowe. Storia della Pittura in Italia. Firenze, Le Monnier, 1894, vol. VI, Andrea Verrocchio.
  17. Cfr. « Giornale d’Italia » del 14 gennaio 1918 e « Raccolta Vinciana », IX fase. 1918. pag. 172.
  18. Documenti e memorie riguardanti la vita e le opere di Leonardo da Vinci in ordine cronologico a cura di Luca Beltrami, Milano, Treves, 1919, n. 8.
  19. A. Venturi, op. cit., VI.
  20. Fra l’altri e più evidentemente, con particolari che riteniamo indispensabile riprodurre, da Lederer Sandor, A Szépmuoeszeti Mùseum Milanoi meslerei es Leonardo da Vinci. Budapest, 1907.
  21. E. DUHOUSSET. Un dernier mot a propos du „Colleone„ da Verrocchio, in „Gazette des Beux Art„, 1898. pag. 149 e segg., dov’è ricordato lo scritto di CHERBULIEZ. A propos d’un cheval.