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20 ATTO PRIMO


Vittoria. Vi vuol pochissimo. È un abito di seta di un color solo, colla guarnizione intrecciata di due colori. Tutto consiste nel buon gusto di scegliere colori buoni, che si uniscano bene, che risaltino, e non facciano confusione.

Leonardo. Orsù, non so che dire. Mi spiacerebbe di vedervi scontenta; ma in ogni modo s’ha da partire.

Vittoria. Io non vengo assolutamente.

Leonardo. Se non ci verrete voi, ci anderò io.

Vittoria. Come! Senza di me? Avrete cuore di lasciarmi in Livorno?

Leonardo. Verrò poi a pigliarvi.

Vittoria. No, non mi fido. Sa il cielo quando verrete, e se resto qui senza di voi, ho paura che quel tisico di nostro zio mi obblighi a restar in Livorno con lui; e se dovessi star qui, in tempo che l’altre vanno in villeggiatura, mi ammalerei di rabbia, di disperazione.

Leonardo. Dunque risolvetevi di venire.

Vittoria. Andate dal sarto, ed obbligatelo a lasciar tutto, ed a terminare il mio mariage.

Leonardo. Io non ho tempo da perdere. Ho da far cento cose.

Vittoria. Maledetta la mia disgrazia!

Leonardo. Oh gran disgrazia invero! Un abito di meno è una disgrazia lacrimosa, intollerabile, estrema. (ironico)

Vittoria. Sì, signore, la mancanza di un abito alla moda può far perder il credito a chi ha fama di essere di buon gusto.

Leonardo. Finalmente siete ancora fanciulla, e le fanciulle non s’hanno a mettere colle maritate.

Vittoria. Anche la signora Giacinta è fanciulla, e va con tutte le mode, con tutte le gale delle maritate. E in oggi non si distinguono le fanciulle dalle maritate, e una fanciulla che non faccia quello che fanno l’altre, suol passare per zotica, per anticaglia; e mi maraviglio che voi abbiate di queste massime, e che mi vogliate avvilita e strapazzata a tal segno.

Leonardo. Tanto fracasso per un abito?

Vittoria. Piuttosto che restar qui, o venir fuori senza il mio abito, mi contenterei d’avere una malattia.