Le nostre fanciulle/Parte Seconda/Le piccole virtù
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LE PICCOLE VIRTÙ
Confessioni di una fanciulla
di quarant’anni fa
Un giorno, avevo sedici anni, frugando nella libreria del babbo trovai un opuscoletto con la copertina bigia, scolorita, coll’orlo delle pagine ingiallito. Lo annusai; sapeva di muffa. E il titolo: Sopra le virtù piccole, trattatello dell’abate Giambattista Conte Roberti, uh! come sapeva di sacrestia, e come era ridicolo quell’abate che, scrivendo delle piccole virtù, commetteva la piccola debolezza di non dimenticare d’essere conte!
Guardai in fondo al frontespizio: Milano, coi tipi di Boniardi e Pogliani — una ditta editrice che c’è ancora — Contrada dei nobili, 3993, una via che non c’è più, o almeno il nome ne fu mutato. MDCCCXLII, 1842! Vecchio, vecchio, troppo vecchio!
Pure lo apersi; cominciava: «San Francesco di Sales nelle opere sue, ecc., ecc.».
Volto la pagina: «S. Paolo dice...» volto ancora: «E S. Gerolamo consigliò...» e nella facciata di contro: «San Gregorio Magno scrisse...» Ho capito! e misi l’opuscolo a far da fondo ai volumi del Vasari.
Che nessuno lo sappia! Qua e là, fra i nomi di quei santi, avevo visto abbastanza per capire che si parlava di parecchie virtù che io non possedevo, e a sedici anni non si ha voglia di sentir correzioni. Ma non dimenticai più il titolo di quell’opuscolo, nè il nome dell’abate conte, e neppure il piano della libreria dove lo avevo relegato.
- E tre o quattro anni dopo lo andai a cercare. Qui bisogna che confessi una colpa, anzi due: prima di tutto, che lo nascosi fra i miei quaderni e lo leggevo di soppiatto, per non sentirmi dire dalla mamma: «Ah, brava, è appunto il libro che ci vuole per certe signorine di mia conoscenza», e poi di non aver detto al babbo che dalla sua vecchia biblioteca esso era venuto ad abitare nella nova casa della sua figliola.
E pensate che oggi è ancora qui sulla mia scrivania, quest’opuscolino di trent’otto pagine, che non sa più di muffa, e — cosa anche più strana — neppur di sacrestia; ora provo una venerazione per questo abate conte Roberti che ha saputo far soggezione alla fanciulla di sedici anni, e diventare per quella di venti, e rimanere poi sempre, come un piccolo prezioso vangelo.
* * *
Le piccole virtù, che cosa sono?
È facile figurarselo: saranno quelle della gente piccina: di certe sorelle di prevosti che si mummificano ne’ corridoi dei presbiteri senza sole e senza voci di bimbi; di certi scrivani, vecchi prima d’esser giovani, che passano le loro giornate chini su un registro, colle maniche di cotonina nera infilate sulla giacchetta consunta e la penna del ronde nell’orecchio; di certe povere ragazze brutte, grulle, destinate a non saper far nulla da sè e a rimaner bamboccione fino a ottant’anni. Qualcosa di bene su questa terra tutti dobbiamo fare: non potendo esercitare la virtù in grande, que’ poveretti, e molti altri, dovranno contentarsi di fare le piccole buone azioni. Sono per loro, oh, non c’è dubbio, per loro, le virtù piccole...
Per gli altri invece, privilegiati da Dio, che hanno salute, indipendenza, ingegno e cuor largo, per gli altri sono i grandi sacrifici, le alte virtù!
Ah, come fa piacere di ritornar un momento fanciulle, di ripensare ciò che allora si pensava, di riveder la vita come la si vedeva allora! Par di respirare una boccata d’aria più; pura e vibrata: si pensa come dev’essere stata bella l’infanzia dell’umanità, quante cose grandi debbono aver compiuto gli uomini in que’ tempi primitivi, nella ignorante presunzione, nell’imprudenza generosa, nella beata; ingenuità di quell’età senza esperienza.
Vi è un tempo nella vita della fanciulla — quando più ella sente prepotente il bisogno di agire — in cui non sa figurarsi una felicità completa, una più perfetta soddisfazione che nell’intiero sacrifizio di sè, della propria gioventù, delle proprie aspirazioni, de’ propri affetti.
In certe giornate piovose del novembre, in certe fredde notti d’inverno, di ritorno dal teatro dove s’è udita una musica triste, in certi soffocanti pomeriggi di estate, o prima che nella casa s’accendano i lumi passano, come vampate calde nella testa, profonde invidie per le suore che vanno lontano in paesi barbari a portar la carità e la fede; ci sorprendiamo a sognare d’essere una povera mamma su in una soffitta, che veglia tutta la notte agucchiando per guadagnare il pane al suo bambino, addormentato lì accanto, nella culla di vimini; e si provano delle indicibili tenerezze, de’ ferventi desideri di dedicar tutta la vita a un giovane malato di cui s’è intravvista la faccia pallida e melanconica dietro i vetri di una finestra...
Ma quando diventa caro il libriccino ammuffito dell’abate conte, è segno che siam mutate in molte cose. È segno che in fondo a ciò che una volta ci pareva generosità, abbiamo visto un po’ di egoismo; è segno che troviamo più meritorio non strappare il cuore alla mamma e al babbo, e star tranquille a casa nostra ed aver cura di loro, piuttosto che andare in paesi lontani a far le suore di carità senza vocazione. È segno che, riconoscenti a Dio di non averci fatte nascere nella miseria, e godendo di figurarci il nostro bambino ben nutrito e calduccio nella sua culla foderata d’azzurro, sappiamo comprendere tutte le pene delle madri che vorrebbero poter dare alle loro creature qualche cosa più del pane.
E il giovane malato d’etisia di cui avremmo voluto diventare la compagna? oh, no, no, no! benedetta la salute che dà forza, giocondità e voglia di lavorare. La famiglia è come un albero che va piantato in terreno buono. Dio ci chiederà conto della salute di chi verrà dopo di noi.
Oh, la ragione, che fredda, che crudele anatomista sembra quando non si hanno ancora vent’anni! Ma più tardi, come benefica ci appare in molti casi; quando al posto di una felicità immaginaria porta un bene reale, quando, dando la via alle spensierate allegrezze, vi lascia una profonda, consapevole serenità, e, fugando le ardite presunzioni, ci fa ritrovare una tranquilla fiducia; quando infine si sgombra dinanzi tutte le nebbie, i miraggi, i fuochi fatui, e ci mostra diritta e chiara la nostra strada.
Guardiamo, guardiamo pure col cannocchiale, anche col telescopio, se volete: è inutile! non vi si scorge neppure l’ombra di una grande virtù; è una strada di pianura, fiancheggiata dai paracarri: piccole virtù, che a volerle saltare s’arrischia di fare un capitombolo.
* * *
Dunque, nessun eroismo. La maggior parte degli uomini e quasi tutte le donne sono destinale alla mediocrità. Orazio la chiama aurea, e non vorremo credere a Orazio?
«Non invidiamo le alte cime de’ pini — egli dice — che sono agitate dal vento; nè le torri eccelse che minano con fragore. Il fulmine colpisce le sommità».
Bisogna dunque tenerci contente della propria strada di pianura e pensare con l’abate Roberti che: «passa la vita di molti senza che una villania gli trafigga, e senza che una calunnia gli travolga nell’infamia. Chi, perciò, aspettasse l’acerbità di tali infortuni per esercitare la sua virtù, aspetterebbe troppo».
Non aspettiamoli; consoliamocene, anzi, e guardiamoci intorno per vedere in che modo possiamo essere buone, diventare sempre più buone, sfogare questo nostro desiderio d’essere utili, di far qualche cosa di bene che ci contenti il cuore. Alla prima occhiata, che mare morto ci pare il circolo de’ conoscenti fra i quali siamo destinate a passar la vita! No, non c’è pericolo di tempeste, nè che sorgano sull’orizzonte astri fulgenti.
Ma se osserviamo bene, quante, quante piccole burrasche in quelle insenature, in que’ porti che sono le varie famiglie! Come se ne trovano poche di quelle in cui le navi riparate non si urtino, anche involontariamente, le une contro le altre. Qualche volta i colpi di vento dal di fuori le buttano tutte insieme a picco, ma non sono i momenti più difficili: la sventura comune le unisce più strettamente. Ciò che è più malagevole, è il tenersi alla riva quando l’onda vorrebbe portare al largo, lo stare saldi al fluttuare di sotto, il cercar di evitare gli urti e il sapersi tirare indietro a tempo per lasciar posto a chi vuole farsi innanzi ad ogni costo... Ah, se non ci fossero le piccole virtù!
* * *
Ma quali, quali sono le piccole virtù?
Ecco, ce lo dice l’opuscoletto dell’abate Roberti, ma io ve lo ripeto con parole più semplici:
Essere indulgenti per le colpe altrui. Mostrare di non accorgersi delle debolezze degli altri e molto meno cercar di scoprire quelle che si nascondono. Comprendere e partecipare alle tristezze di chi soffre, e appropriarsi con una certa giocondità i piaceri dei felici. Accogliere senza ritrosia le buone idee nate in mente al compagno o alla compagna, benchè non prima avvertite: e godere senza invidia delle sue scoperte. Essere solleciti nel prevenire i bisogni, per risparmiare agli altri il rossore di averli e l’umiliazione di dover chiedere soccorso. Possedere una generosità volonterosa, che fa sempre ciò che può, e che, anche facendo poco, vorrebbe sempre poter far molto. Ascoltare gl’importuni senza apparente noia ed istruire, con un’affabilità tranquilla, gli ignoranti senza offenderli. E avere una gentilezza di maniere che non sia una finzione leggiadra, come si usa nel mondo, ma sia una schietta cordialità.
C’è di che spaventarsi! Queste piccole virtù hanno l’aria d’esser molto più difficili delle grandi. Qual’è quella ragazza che non inciampa in una di esse, senza dire: «ahi?»
Perchè sono proprio in opposizione con la petulante franchezza di certi quindici, sedici, e anche diciott’anni. È una tentazione così grande quella del disubbidire, del contraddire a ciò che vogliono gli altri, o anche a ciò che ci suggerisce il nostro buon senso, la nostra educazione e la nostra coscienza! Ci sentiamo così forti della nostra schiettezza, quando ci rimproverano certe scortesie, certe antipatie, certe intolleranze e certi malumori!
Ma dopo, come siamo malcontente di noi! Come vorremmo non aver usato quello sgarbo, non aver detto quelle cattive parole, non aver contristato col nostro broncio! Ma come si fa? come si fa? La nostra natura si può mai vincerla? E si hanno degli sconforti così grandi, si invidiano certe compagne istintivamente dolci e gentili che non sanno far soffrire un moscerino, e sopportano tutte le contrarietà con rassegnazione.
Oh, i brutti momenti! E con che verità ce li descrive l’abate Roberti!
«L’anima langue e quasi si ammala: arrivano dei giorni foschi, o almeno de’ foschi quarti d’ora, in cui par che nel mondo non abiti dappertutto, sotto vari aspetti, che la noia: e la incontriamo, tal noia, sin dietro di noi, divenendo così molesti a noi stessi. La languidezza abbatte il corpo, l’accidia snerva lo spirito, il fervore è spento, il cuore freddo...»
Oh, non c’è bisogno di dircelo; questo è uno dei momenti peggiori, quello in cui meno sappiamo esercitare le piccole virtù. Ci vuol troppa fatica per reagire contro quel languore, ed è così comodo incolparne la nostra natura, e pensare che chi è buono lo è perchè Dio l’ha fatto così, e non ci ha nessun merito!...
Sì: ammettiamo che siamo antipatiche a noi stesse e agli altri; ma perchè non lasciarci alle nostre indolenti fantasticherie, alle nostre intolleranze, ed ai nostri capricci? Perchè obbligarci a fare una cosa che non possiamo soffrire, o ad occuparci di una persona che ci è antipatica? Come si fa, dico, a non rispondere con un: «Auf! eccomi!» sgarbato, o anche con una spallucciata a una persona seccante? Come si fa a pretendere che si vada a tavola col viso allegro, o si ascolti con interesse un racconto inconcludente, o si sorrida a una grulleria?
Eppure... eppure c’è chi lo fa, e non per bontà istintiva: c’è chi, appunto in quei momenti, e anche in altri di più seri e più gravi tristezze, dà una risposta mite, fa un atto cortese o china il capo in silenzio a lasciar passar la bufera.
Perchè non lo faremo anche noi? Se è tanto difficile, come è degno di una creatura intelligente, forte e buona lo studiare per riuscirvi!
* * *
Ma vediamo ancora che cosa dice l’opuscoletto.
«Le piccole virtù si esercitano come contro «voglia» — oh, lo sappiamo noi! — «perchè non bisogna credere che si esercitano intieramente qualora si prestano dei buoni uffizi e si fanno delle carezze a persone amabili e amate: allora si segue piuttosto la naturale inclinazione ed il genio amichevole. L’esercizio loro più verace è sopportare gli spiace* voli e gl’ingrati, benchè in petto ne fremano talvolta tutte le nostre passioncelle! Tanto è vero che non si seconda in esse la volontà propria, che il fiore più bello di tali virtù è riposto appunto nel coprire l’antipatia; la molestia, l’ira e la discordia interna dell’anima. Nella pratica di esse è lecito il fingere e divien lodevole una non so quale ipocrisia. Per fingere intendo il dissimulare una disattenzione, uno sgarbo, un dispregio che si riceve, quasi fossimo senza occhi e senza orecchie. Per ipocrisia lodevole intendo mostrare la calma sul viso, mentre il cuore è in procella; pronunziare fredde le parole, mentre le affezioni son calde; tacere affatto; mentre si avrebbe il maggior stimolo al garrire. Lo studio poi più da raccomandarsi, è di serbare in tali sforzi una piena naturalezza, onde non appaia al di fuori quanto succede al di dentro: e la perfetta sapienza vuole che nella fronte non sorga, o certo non si addensi, nuvolo di tristezza».
Non si può far a meno di pensare, che san Francesco di Sales, il quale queste per il primo chiamò piccole virtù, fosse ben grande, se trovava facile quel che è l’abnegazione d’ogni volontà, il sacrifizio dell’amor proprio.
* * *
E l’abate Roberti seguita:
Le occasioni di praticar le nostre virtù usuali si hanno senza cercarle e si hanno sempre. Le virtù convengono, non solamente a tutte le stagioni della vita, in tutti i giorni dell’anno, in tutte le ore del giorno, ma anche in tutte le condizioni e a tutte le persone. È difficile poter proporre un caso in cui dalle circostanze sia escluso, almen per tempo notevole, l’esercizio di qualcuna delle piccole virtù... Esse si possono praticare anche allora ch’è interdetto l’esercizio di molte altre virtù, anche allora che uno è infermo». Io ho dinanzi il dolce e intelligente viso di mia Madre che mi sorride dal suo ritratto e mi dice come ciò sia vero. La rivedo, la nostra cara, sofferente di una malattia che appariva agli occhi di tutti e destava un senso di pietà intorno a lei. Eppure ella sorrideva così tranquilla e serena, dava così poca importanza al suo male — un enorme tumore interno che le sformava tutta la persona, una volta così agile e bella, — da mutare il senso di pietà in quello d’ammirazione. Ma non era questo che ella voleva: ella così modesta e semplice, voleva invece, e ci era quasi riuscita, abituare chi viveva intorno a lei, suo marito, i suoi figli, i nipotini, a non crucciarsi, a non preoccuparsi di lei. Non si mitigano le proprie sofferenze parlandone, partecipandole: certo, fa bene al nostro cuore il vederci guardati da visi ansiosi e compassionevoli, il veder spiati con amore i nostri dolori: ma quando chi li spia sono i nostri cari, quelli che noi vorremmo veder sempre felici, perchè farlo?
In certi momenti uno spasimo contraeva la sua fisionomia, in certi giorni si trascinava a stento, ma non lo confessava che l’indomani, quando il male era passato, e anche allora lo raccontava sorridendo: «Ma se è passato!» diceva, «consoliamoci che è passato...!»
Chi entrava in casa non aveva tempo di chiederle conto della sua salute, perch’ella, sempre cordiale, s’interessava alle gioie e ai fastidî degli altri e alla salute di chi stava meglio di lei.
Non c’è che dire, queste piccole virtù sono in fondo ben grandi e non fanno pompa di sè, non si mettono innanzi a svergognar nessuno, non hanno l’impetuosità un pochino sfacciata delle virtù grandi, ma un non so che di dignitoso, di ammodo, che impone rispetto e attrae.
«Qui tutto passa in silenzio tra la coscienza e Dio» dice il mio libretto, e come è vero quel che aggiunge più in giù:
«Chi è presente neppure si accorge talvolta perchè si sia detta una parola, perchè se ne sia taciuta un’altra: non penetra ai pensieri per comprendere come si è di opinione diversa: non penetra al cuore per sentire come si ha un’affezione contraria. E poi la pratica delle nostre virtù piccole si compie spesso tanto velocemente, che la vanagloria non ha nè tempo, nè agio di sorprenderle. Con un’occhiata, con un gesto, con un vocabolo, l’atto di virtù è già compiuto».
Oh, beati quelli che se ne sono fatto un’abitudine! per i quali questi atti sono come gli oggetti di uso che una persona ordinata trova sempre al loro posto, alla portata della mano, e che adopera senza far rumore e senza scomodar nessuno.
* * *
Se ci si bada bene, tutte queste piccole virtù si possono riassumere in una sola: la tolleranza, una virtù così ragionevole, poichè con le nostre impazienze, coi nostri risentimenti, coi nostri dispetti, nuociamo più a noi stessi che agli altri.
Ma dove andiamo a finire?... Vediamo di dove abbiamo cominciato, e lo capiremo.
Da principio — verso i quindici o i sedici anni, siamo intolleranti di un viso antipatico, di un’abitudine di casa che più non ci garba, di una correzione ripetuta, di una visita che ci pesa, di una lezione noiosa, della petulanza di un fratello.
È l’epoca delle grandi baruffe, degli scoppi d’ira, dei pianti irrefrenabili.
Un po’ più tardi sono le opinioni di un fratello, il tono ironico di una sorella, o l’insistenza della mamma a voler correggerci di una cattiva abitudine; sono certe assurde convenienze sociali, o il falso viso di un’amica di casa, o certe idee piccine, certe meschine pusillanimità...
È l’età delle superbe risposte, dei grandiosi ideali.
E sempre più tardi, diventate donne, ma non ancora madri, è l’età dei grandi stupori, dei magnanimi sdegni, delle tristi delusioni.
Come! c’è chi manca al proprio dovere? e c’è chi sorride alle persone oneste come alle disoneste? Oh le festose accoglienze fatte a una persona spregevole, l’impudenza di chi ha sulla coscienza una colpa, certi lusinghieri giudizi della società su persone che nell’intimità non hanno che bassezze e debolezze, le mille ignoranze colpevoli, le mille miserie non soccorse e le mille ingiustizie sociali, come sdegnano, come sdegnano!
Accade a tutti quelli che sentono vivamente, j di non saper sempre trattenersi dall’esprimere! un’impressione e di non misurar le parole colle quali palesano il loro pensiero.
Se ci sdegna un’ingiustizia, se ci offende una malignità, una diffidenza o una villania, sentiamo qualche cosa dentro che si gonfia torbido, preme, trabocca. Il proposito d’essere calme molte volte non giova; non bastano in certi casi a trattenere l’impeto che ci trascina neppure il pensiero dell’età nostra non più giovanile, della nostra posizione che c’impone dignità. In altri momenti è un bisogno di dire la verità che somiglia a un bisogno di respiro, quasi che ciò che ci appare falso ci soffochi, ci opprima: ed ecco che quello che si pensa esce fuori dandoci la superba illusione di un dovere compiuto. Ma un momento dopo si risveglia in noi la coscienza delle parole violente o severe che pronunciammo o scrivemmo, e passato qualche tempo, calmato lo sdegno o la pena esse ci riappariscono in tutta la loro cruda e sconveniente esorbitanza. Sentiamo che l’aver detto la verità non è una scusa alla ferita cagionata ad altri, e che l’averla questi meritata non è una scusa alla nostra arroganza di giudice.
Coi nostri sdegni, coi nostri atti di protesta e di ribellione non possiamo mettere un argine alle debolezze e alle cattiverie del mondo; noi non riusciamo che a non saper sopportare gli altri, non solo, ma a renderci noi stessi insopportabili.
No, no; sarebbe troppo umiliante! Impariamo ad essere calme e serene in mezzo a tutto questo sballottìo di caratteri e di opinioni; davanti a tutte le cecità e le ingiustizie umane, e compiamo noi, tranquille, i nostri doveri, ricordando che «esigere molto e dare poco è il modo di trovarsi male con sè stessi e con gli altri».
La mia mamma scrisse su un mio quadernetto quand’ero bambina: «Quando tu sarai buona, ti accorgerai che tutti sono buoni con te».