Le nostre fanciulle/Parte Seconda/Il nostro salario

Il nostro salario

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Parte Seconda - Le piccole virtù
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IL NOSTRO SALARIO

Ecco si risveglia in me tutto uno sciame d’idee che molti anni fa scambiammo, la contessa Maria Pasolini e io, e dovrei dire anche Vernon Lee, poichè fu a proposito di un libro dell’illustre scrittrice inglese, che si cominciò a parlarne.

In quel libro Vernon Lee domandava a una signorina, perchè mai la mattina la sua finestra venga aperta, il suo fuoco acceso, i suoi abiti spazzolati, il suo the preparato, da un’altra donna giovane, da Sara, la cameriera.

La risposta non c’era, ma la si indovinava: «Perchè sono ricca». Ma Vernon Lee continuava imperturbabile, senza commenti, il suo interrogatorio: «Perchè è Sara che apre la vostra finestra? che accende il vostro fuoco, spazzola i vostri abiti, prepara il vostro thè? A voi che avete press’a poco la stessa età, o [p. 206 modifica]siete più giovane e più forte di lei?»

E pareva di udire la risposta data con un sorriso franco, con lo sguardo sereno e sicuro, col tono di chi dice la cosa più ovvia, più giusta del mondo: «Ma perchè è Sara la cameriera!»

Ah, se quegli occhi appartengono a una fanciulla intelligente, come devono sbattere in faccia alla luminosa verità, come si devono chinare mortificati di non averla vista bene!

Sara, o Teresa, o Maria, o Linda, comunque si chiamino, chi sono, che cosa sono? delle ragazze anch’esse, obbligate per la loro condizione sociale a cercarsi un salario per vivere, dando in cambio il loro lavoro, il loro tempo, la loro indipendenza, rinunciando a ogni esigenza della loro mente, del loro corpo e del loro cuore. Oh, voi lo sapete che dolce cosa sia l’indugiarsi nel calduccio del letto una mezz’ora di più, la mattina, o il corrervi più presto la sera dopo una giornata faticosa (ma di che gradevoli fatiche!); come sia comodo il farsi agganciare e sbottonare gli abiti in simili momenti di stanchezza; il trovarsi i vestiti puliti, i bottoni attaccati, pronta ogni cosa di cui [p. 207 modifica]si ha bisogno e subito accontentate in ciò che si desidera! Naturalmente la vostra cameriera non sa che cosa sia tutto questo; essa v’aspetta la sera fin tardi, stanca e infreddolita, con le ossa rotte, mentre voi state a divertirvi, fresche e allegre, dopo una giornata occupata in preparativi piacevoli. Naturalmente nelle soffocanti giornate d’agosto essa stira per delle ore, sfatta dal caldo, e non deve trascurare tutti gli altri servigi, sino a sera, coi piedi gonfi, mentre voi siete giù nel salotto fresco e buio a sentir passare le ore con un ricamo inutile; oppure passeggiate in giardino al chiaro di luna chiacchierando e ridendo. Naturalmente essa ha abbandonato la sua casa, la sua famiglia, e le è difficile o impossibile di pensare a farsene una nuova, sua...

È così. È il suo destino, e deve sottomettersi senza lamentarsi, compiendo esattamente, senza svogliatezze e senza stanchezze, il suo dovere. Altrimenti noi la sgridiamo, vero? e le facciamo sentire o le diciamo apertamente, che la paghiamo per questo e che se non fa quello che ci accomoda la mettiamo alla porta; il numero d’anni del suo servizio, le prove [p. 208 modifica]d’affetto e di fedeltà dateci in molte occasioni, sono cose passate che non si calcolano più: l’abbiamo pagata.

E le nostre parole non devono offendere. Ma vi pare?! mancherebbe altro che si dovesse subire per un giorno intero un viso rannuvolato, delle labbra increspate con amarezza. La dignità, la suscettibilità, gli scoramenti, le malinconie sono il nostro privilegio, perchè noi siamo le padrone.

Le padrone! Che cosa vuol dire? Pensiamoci un poco. La schiavitù non esiste più, dunque non si può più dire che chi ci serve ci appartiene; è cosa nostra. Vuol dire soltanto che paghiamo un salario perchè ci si serva (signorine mie, quale delle due funzioni è più dipendente: il servizio o il dover aspettare di essere serviti? Quale più umiliante per la dignità umana?).

Dunque siamo padrone. Vuol proprio dire che abbiamo soltanto dei diritti e non dei doveri? Lasciamo da parte i doveri di bontà verso le persone che ci servono; non è questione di gentilezza d’animo da parte nostra, è questione di giustizia. Parliamo di altri doveri. [p. 209 modifica]

Che cosa abbiamo noi fatto per meritarci nel mondo un posto così privilegiato, una vita così facile e così comoda?

Se una di queste donne, più intelligente di noi, ce lo domandasse, che cosa risponderemmo noi? Quale turbamento, quale malessere proveremmo nel non saper trovare una ragione!

Noi dunque — pensiamoci bene — godiamo, come si dice, a scrocca; se una servente rimanesse in casa nostra pigliandosi il salario, mangiando a nostre spese e non lavorando, che ne diremmo noi? Ma noi facciamo peggio, perchè noi pure siamo salariate, e come profusamente! e che cosa facciamo per la società che ci paga?

Ah! vedete che direzione nuova prende il nostro pensiero e il nostro sentimento solo a scrutare da vicino in quella coscienza sociale di cui ci ha parlato Maria Pasolini.

Molte di voi, chi non lo sa? sentono già umanamente riguardo ai loro inferiori, ma credono che basti riconoscere i loro meriti e i loro sacrifici e trattarli con affetto; non hanno mai pensato in che posizione si trovano rispetto ad [p. 210 modifica]esse, non hanno mai provato un senso di vergogna della propria vita inutile e oziosa, o vana e gaudente, davanti a questi intimi spettatori, a queste spettatrici la cui vita è invece un lavoro senza interruzione, un dovere compiuto ad ogni ora, in pagamento di un salario che non permette loro un po’ d’agiatezza neppur nella vecchiaia, dopo cinquantanni di vita sacrificata e sottomessa.

Non vi è mai balenala l’idea che noi pure siamo delle salariate, in certo modo, della società, e che, quanto più siamo favorite dalla fortuna, tanto più dobbiamo un lavoro corrispondente, proporzionato al pagamento che riceviamo?

«Se le classi superiori — mi scriveva la contessa Pasolini, — si pigliano agi e godimenti senza dar nulla in cambio, certe voci sinistre che ci risonano all’orecchio si faranno sempre più forti e numerose».

Se la serva non fa il suo dovere, la padrona non alza forse la voce?

La società, o fanciulle, è la padrona invisibile che manifesta il suo malcontento e il suo rancore contro quelli che si godono i privilegi [p. 211 modifica]senza meritarseli, e minaccia di toglierli se si ostinano a rimanere inoperosi.

Charles Gide, in un notevolissimo discorso tenuto ai laureati dell’Università di Montpellier «sulle professioni liberali e il lavoro manuale» disse qualche cosa che si applica anche al nostro caso.

«Voi dovete dire che siete, per grazia, o per fortuna, sfuggiti al lavoro manuale, e che, per conseguenza, avete da pagare questo vostro riscatto. Voi dovete impegnare il vostro onore a fornire una somma di lavoro almeno equivalente al lavoro fornito da quelli che abitudine chiama, con una denominazione veramente umiliante, non per essi, ma per noi «i lavoratori»; a costoro, che vi hanno rimpiazzati nei servigi obbligatori che impone la natura e portano in vece vostra il peso della giornata e producono il pane quotidiano per essi e per noi; per voi prima, per essi dopo, se ne resta».

E proseguendo, disse anche questo:

«Avete voi pensato che i vostri compagni del lavoro manuale non conoscono nella loro vita alcuna vacanza, e per dir meglio, essi non le conoscono e non le desiderano, anzi le [p. 212 modifica]detestano troppo, queste vacanze, che per essi, per una amara ironia si chiamano giornate senza pane, stagioni morte?... Da essi a voi misurate la differenza! pensate che il lavoro che vi si domanda, non è che il prezzo, il giusto prezzo, del vostro privilegio; pagatelo senza mercanteggiare».

E per pagarlo, per conto vostro, cominciate, signorine, col prendere parte al lavoro manuale che esige la vostra casa e la cura della vostra persona; esso non è per nulla più umile del lavoro intellettuale, è una ginnastica come già vi dissi, che ritempra le forze, che elimina gli umori cattivi, rende più fresca e alacre la mente; dopo un alacre affaccendarsi per la casa, ci si mette alla scrivania, alla tavolozza o al pianoforte con una serenità e un vigore nuovo.

I moderni educatori intravvedono come soluzione al grande problema sociale, come ponte sull’abisso che separa i vari membri della società, l’unione del lavoro manuale col lavoro intellettuale; gli uomini non credono d’abbassarsi consacrando una parte del loro tempo o della loro giovinezza a qualche occupazione [p. 213 modifica]manuale. Gli anglo-sassoni, sempre, nella loro educazione diedero un alto valore al lavoro manuale. Ma noi possiamo dire a tutti quelli che lo sognano (Tolstoi lo praticò), come quest’unione del lavoro manuale col lavoro intellettuale sia già in fatto compiuto per le donne della borghesia, le quali alternano le faccende più umili di casa cogli studi più seri, i libri colle pentole, la penna col ferro e coll’ago.

Il lavoro manuale può dare delle vere soddisfazioni: non soltanto «la gioia di vedere la propria opera realizzata sotto una forma concreta, e che nel suo genere può essere veramente perfetta» ma la gioia, diciamo noi, di aver compiuto un lavoro la cui utilità è immediata, evidente per noi e per gli altri, e se non altro ci dà la soddisfazione, spesso inconscia, che la fatica che ne risentiamo è stata risparmiata ad altri.

Lasciate che ancora citi Charles Gide:

«Sì, il giorno in cui il lavoro intellettuale ed il lavoro manuale si saranno riconciliati, abbracciati, sposati, il genere umano avrà fatto un gran passo verso la gioia; gioia morale, quella cioè che risulterà dal sentimento di [p. 214 modifica]solidarietà con i nostri simili, realizzata in un comune lavoro e in un comune destino! gioia fisica anche, quella che deriverà dall’armonia delle funzioni e dalla pienezza della vita».

Comune lavoro e comune destino!

Applicandolo al nostro soggetto, quanto fa pensare! Se v’è destino e lavoro comune è precisamente questo di gente che, ai tempi remoti, — lo vediamo nella Bibbia, — l’erano chiamati famigliari e che noi, malgrado tanta civiltà, chiamiamo ancora servitori. Gente che abbandona la propria casa, la propria famiglia, per venire a vivere sotto il nostro tetto, per essere spettatori e partecipi delle nostre gioie e dei nostri dolori. Nessun amico, nessun congiunto di sangue viene a conoscere i nostri caratteri, i nostri interessi e perfino i nostri pensieri più delle persone che ci servono: attori che non parlano, ma che tutto vedono, tutto odono, tutto indovinano, tutto giudicano.

Non parliamo male di loro, come si usa; parliamo invece male dei padroni. Guardiamoci intorno, e vedremo che la fedeltà, il rispetto, la devozione affettuosa, si ritrovano là dove è l’onestà, l’attività, la purezza dei [p. 215 modifica] costumi e dei discorsi, l’educazione vera dei padroni. L’ozio, la maldicenza, la vita di piaceri, corrompono non soltanto noi stessi ma chi è intorno a noi. Non basta non fare nulla di male, bisogna fare il bene, se vogliamo che l’atmosfera di casa nostra rimanga pura; deve partire da noi l’esempio dell’attività, dell’ordine, della abnegazione. Se noi non fossimo egoisti, se si vedesse che l’agiatezza c’impone dei doveri, che l’istruzione ricevuta viene impiegata in un lavoro utile, che gli svaghi non sono che una vacanza meritata in una vita tutta dedicata al bene altrui, come s’acquieterebbero a poco a poco le ire e i rancori che vanno accumulandosi e impaurendoci! Come si accorgerebbero, i diseredati, che tutti siamo servi di qualcuno, che la società, quest’ente invisibile, è per i ricchi un padrone esigente e severo e che la ricchezza non è per essi che un salario che li obbliga a un proporzionato lavoro!


Fine