un’impressione e di non misurar le parole colle quali palesano il loro pensiero.
Se ci sdegna un’ingiustizia, se ci offende una malignità, una diffidenza o una villania, sentiamo qualche cosa dentro che si gonfia torbido, preme, trabocca. Il proposito d’essere calme molte volte non giova; non bastano in certi casi a trattenere l’impeto che ci trascina neppure il pensiero dell’età nostra non più giovanile, della nostra posizione che c’impone dignità. In altri momenti è un bisogno di dire la verità che somiglia a un bisogno di respiro, quasi che ciò che ci appare falso ci soffochi, ci opprima: ed ecco che quello che si pensa esce fuori dandoci la superba illusione di un dovere compiuto. Ma un momento dopo si risveglia in noi la coscienza delle parole violente o severe che pronunciammo o scrivemmo, e passato qualche tempo, calmato lo sdegno o la pena esse ci riappariscono in tutta la loro cruda e sconveniente esorbitanza. Sentiamo che l’aver detto la verità non è una scusa alla ferita cagionata ad altri, e che l’averla questi meritata non è una scusa alla nostra arroganza di giudice.