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camera dov’era salito, e fecemi mille scuse per tutti i timori che m’aveva cagionati. — I miei spasimi,» disse, «non sono stati minori dei vostri; non dovete dubitarne, avendo sofferto per amor vostro e per me, che correva il medesimo pericolo. Un’altra in mia vece non avrebbe forse avuto il coraggio di cavarsi tanto bene d’un sì delicato impaccio. Non ci voleva minor ardire e presenza di spirito, o piuttosto bisognava avere tutto l’amore ch’io ho per voi, per uscire da tale imbarazzo; ma rassicuratevi, ora non v’ha più nulla a temere.» Dopo aver conversato qualche tempo con molta tenerezza: — È tempo,» mi disse, «che riposiate: andate a letto. Non mancherò domani di presentarvi a Zobeide, mia padrona, in qualche ora del giorno; cosa facile, non vedendola il califfo se non che la notte.» Tranquillato da tal discorso, dormii abbastanza placidamente; e se il mio sonno fu talvolta interrotto da inquietudini, erano queste inquietudini dilettevoli, cagionato dalla speranza di possedere una donna di tanto spirito e bellezza.

«Il giorno dopo, la favorita di Zobeide, prima di presentarmi alla padrona, m’istruì del modo con cui doveva contenermi verso di lei, mi disse all’incirca le interrogazioni che la principessa m’avrebbe rivolto, e mi dettò le risposte da farle. Indi mi condusse in una sala, ove tutto era d’una pulitezza, d’una ricchezza e d’una magnificenza veramente straordinaria. Appena vi fui entrato, venti schiave, d’età già avanzata, tutte vestite d’abiti ricchi ed uniformi, uscirono dal gabinetto di Zobeide, e vennero a collocarsi davanti ad un trono in due file eguali, colla massima modestia. Le seguirono venti altre, tutte giovani e vestite alla foggia medesima delle prime, colla differenza però, che gli abiti loro erano alquanto più galanti. In mezzo a queste comparve Zobeide, in aria maestosa, e così coperta di gemme e d’ogni sorta di gio-