Le Mille ed una Notti/Storia raccontata dal Medico ebreo

Storia raccontata dal Medico ebreo

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Storia raccontata dal Medico ebreo
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STORIA

RACCONTATA DAL MEDICO EBREO.


«Sire, quando studiava la medicina a Damasco, e cominciava ad esercitarvi questa bell’arte con qualche riputazione, venne uno schiavo a domandarmi per andar dal governatore della città a vedervi un ammalato. Andatovi, fui introdotto in una stanza, ove trovai un bel giovane, molto abbattuto dal male che soffriva. Lo salutai, sedendomi a lui vicino; egli non rispose al mio complimento, ma mi fe’ segno cogli occhi per indicarmi che m’intendeva e mi ringraziava. — Signore,» gli dissi, «favoritemi la mano per toccarvi il polso.» Invece di darmi la mano destra, mi presentò la sinistra: del che fui assai maravigliato. — Ecco,» dissi fra me, «una crassa ignoranza di non sapere che si presenta la mano destra ad un medico, e non la sinistra.» Pure non tralasciai di toccargli il polso, e scritta una ricetta, partii.

«Continuai le visite per nove giorni, e tutte le [p. 65 modifica]volte che volli toccargli il polso, sempre mi porse la sinistra. Il decimo giorno, mi parve guarito, e gli dissi che aveva bisogno soltanto d’andare al bagno. Il governatore di Damasco, che trovavasi presente, per dimostrarmi il suo contento, mi fece al suo cospetto rivestire d’un magnifico abito, dicendomi che mi faceva medico dell’ospedale della città, e medico ordinario della sua casa, ove poteva andar liberamente a mangiare alla sua tavola, quando mi piacesse.

«Anche il giovane mi esternò grandi attenzioni, e mi pregò di accompagnarlo al bagno. Vi entrammo, e quando la sua gente l’ebbe spogliata, vidi che gli mancava la mano destra. Notai anche non essere molto tempo ch’eragli stata troncata: anzi era la cagione da me ignorata della sua malattia; e mentre vi si applicavano medicamenti atti a guarirlo in breve, mi avevano chiamato per impedire che la febbre sopraggiuntagli, non portasse sinistre conseguenze. Rimasi stupito ed afflittissimo, insieme al vederlo in quello stato: egli se ne accorse. — Medico,» mi disse, «non vi maravigliate di vedermi monco; ve ne dirò un giorno o l’altro il motivo, ed udrete una storia delle più sorprendenti. —

«Usciti dal bagno, ci mettemmo a tavola, e conversando insieme, mi domandò se poteva, senza alterare la sua salute, andar a passeggiare fuor della città, nel giardino del governatore. Gli risposi non solo poterlo fare, ma che gli sarebbe anzi salutarissimo il prender aria. — Se così è,» replicò egli, «e se volete tenermi compagnia, vi racconterò colà la mia storia.» Gli ripetei ch’io era a sua disposizione per tutto il resto della giornata. Comandò dunque ai servi d’ammannir la colazione, indi partimmo pel giardino del governatore. Fatti due o tre giri, sedemmo sur un tappeto che i suoi schiavi spiegarono [p. 66 modifica]sotto un albero di bellissima ombra, ed il giovane mi fece di tal guisa il racconto delle sue avventure:

«— lo sono nativo di Mussul, e la mia famiglia è una delle più ragguardevoli della città. Mio padre era il maggiore di dieci figliuoli, da mio avolo lasciati, morendo, tutti in vita e maritati. Ma fra tanto numero di fratelli, mio padre fu il solo che avesse figliuoli, ed anzi ebbe me soltanto. Preso quindi gran cura della mia educazione, e mi fece insegnare tutto quello che un figlio della mia condizione doveva conoscere....»

— Ma, sire,» disse Scheherazade, fermandosi, «l’aurora che sorge m’impone silenzio.» Ciò detto, tacque, ed il sultano si alzò.


NOTTE CLI


All’indomani, Scheherazade ripigliò il seguito del suo racconto. — Il medico ebreo,» diss’ella, «continuando a parlare al sultano di Casgar:

«— Il giovane di Mussul,» soggiunse, «proseguì di tal guisa la sua storia:

«Era già grande, e cominciava a frequentare la società, quando un venerdì mi trovai alla preghiera del mezzogiorno, con mio padre ed i miei zii, nella gran moschea di Mussul. Dopo la preghiera, tutti uscirono, tranne mio padre ed i miei zii, che sedettero sul tappeto disteso per tutta la moschea. Sedetti anch’io con loro; e parlando di varie cose, la conversazione venne insensibilmente a cadere sui viaggi. Vantarono essi la bellezza e le singolarità di alcuni regni e delle loro principali città; ma uno zio disse, che se doveasi credere alla relazione uniforme di molti viaggiatori, non c’era al mondo paese più bello [p. 67 modifica]dell’Egitto, nè più bel fiume del Nilo; e quello che ne raccontò me ne porse sì alta idea che, da quel momento, concepii il desiderio di andarvi. Quanto gli altri miei zii poterono dire per dar la preferenza a Bagdad ed al Tigri, chiamando Bagdad il vero soggiorno della religione musulmana, e la metropoli di tutte le Città della terra, non fece su me la medesima impressione. Mio padre appoggiò il sentimento del fratello che aveva parlato in favore dell’Egitto, cagionandomi sì gran piacere; — Checchè se ne possa dire,» gridò egli, «chi non vide l’Egitto, non ha veduto quanto di più singolare è al mondo. La terra ivi è tutta d’oro, cioè sì fertile che arricchisce i suoi abitatori. Tutte le donne incantano per la loro bellezza e le graziose maniere. Se parliamo del Nilo, v’ha fiume più magnifico? Qual acqua fu mai più leggiera e deliziosa? Il limo stesso che seco trascina nello straripare, non ingrassa forse i campi, quali producono senza lavoro mille volte più delle altre terre, con tutta la fatica che si fa per coltivarle? Sentite cosa un poeta, costretto ad abbandonare l’Egitto, diceva agli Egiziani:

«Il vostro Nilo vi colma ogni giorno di benefizi: e per voi soli ch’egli viene sì da lontano. Aimè! allontanandomi da voi, mi sgorgano le lagrime in egual copia delle sue acque. Voi continuerete a godere delle sue dolcezze, mentre io son condannato a privarmene contro voglia.»

«Se guardate,» aggiunse mio padre, «dalla parte dell‘isola formata dai due maggiori rami del Nilo, qual varietà di verzura, quale smalto di variopinti fiori, qual prodigioso numero di città, di borghi, di canali e mille altri gradevoli oggetti! Se volgete gli occhi dall’altra parte; rimontando verso l’Etiopia, quanti altri soggetti d’ammirazione! Non saprei paragonar meglio la verzura di tante campagne irrigate dai [p. 68 modifica]diversi canali del Nilo, se non a brillanti smeraldi incastonati nell’argento. Non è forse il Gran Cairo la città più vasta, la più popolata, la più ricca dell’universo? Quanti magnifici edifizi, pubblici e privati! Se procedete fino alle Piramidi, sarete colpiti da stupore, e rimarrete immobili all’aspetto di quell’ammasso di pietre d’enorme grossezza che s’ergono fino alle nubi! Dovrete confessare esser duopo che i Faraoni, i quali tante ricchezze e tanti uomini impiegarono a costruirlo, abbiano superato tutti i successivi monarchi, non solo d’Egitto, ma anche della terra tutta, in magnificenza ed invenzione, per aver lasciati monumenti sì stupendi della loro memoria. Celesti monumenti, sì antichi, che i dotti non saprebbero indicare il tempo in cui furono innalzati, sussistono oggidì ancora, e dureranno quanto i secoli. Taccio delle città marittime del regno d’Egitto, come Damiata, Rosetta, Alessandria, dove non so quante nazioni vanno a cercare mille sorta di granaglie, di tele, e migliaia di altre cose pel comodo e le delizie degli uomini. Ve ne parlo con cognizione di causa, avendovi scorsi alcuni anni della mia gioventù cui conterò, finchè respiro, pei più piacevoli di tutta la mia vita.»

Scheherazade parlava così quando la luce del giorno, che cominciava a sorgere, venne ad imporle silenzio; ma sulla fine della notte seguente ripigliò essa in questi termini il filo del suo discorso:


NOTTE CLII


— «I miei zii non trovarono nulla da ripetere a mio padre,» proseguì il giovine di Mussul, «intorno alle sue enfatiche descrizioni del Nilo, del Cairo e di tutto il regno d’Egitto. Io intanto n’ebbi sì piena [p. 69 modifica]l‘immaginazione, che non dormii per tutta la notte. Poco dopo, i miei zii fecero conoscere quant’erano anch’essi colpiti dal discorso di mio padre, perchè gli proposero di fare tutti insieme il viaggio d’Egitto, ed accettata da lui la proposta, siccome erano ricchi mercadanti, risolsero di portar seco merci da esitarvi. Udendo che si apparecchiavano alla partenza, andai a trovare mio padre, e lo supplicai, colle lagrime agli occhi, di permettermi d’accompagnarlo, ed accordarmi un fondo di mercanzia, per farne io stesso lo spaccio. — Sei ancora troppo giovine,» mi disse, «per intraprendere il viaggio d'Egitto: troppo grandi sono i disagi; inoltre son persuaso che ci perderesti.» Tali parole non mi tolsero la voglia di viaggiare, adoprai l’influenza dei miei zii presso il padre mio; ed essi ottennero in fine che andassi soltanto sino a Damasco, ove mi avrebbero lasciato mentre continuavano alla volta d'Egitto. — La città di Damasco,» disse mio padre, «ha pure le sue bellezze, e bisogna si contenti del permesso d’andar fin là.» Benchè immenso fosse il mio, desiderio di vedere l’Egitto, dopo quanto gliene aveva udito dire, egli era mio padre, ed io mi sottoposi al suo volere.

«Partii dunque da Mussul cogli zii e col padre. Traversata la Mesopotamia, valicammo l‘Eufrate, e giunti ad Aleppo, vi soggiornammo alcuni giorni. Di là passando a Damasco, la cui vista mi sorprese gradevolmente, ivi alloggiammo tutti in un medesimo khan. Vidi una città grande, piena di bella gente e ben fortificata. Impiegati più giorni a passeggiare per tutti i giardini deliziosi che abbondano nei dintorni, come possiamo vederli da questo luogo, ci convincemmo aversi ragione di dire che Damasco era in mezzo ad un paradiso. Finalmente i miei zii pensarono a continuare il viaggio, essendosi data prima la briga di vendere le mie merci; il che fecero con tanto [p. 70 modifica]vantaggiosa per me, che vi guadagnai il cinque per uno. Cotesta vendita produsse una somma ragguardevole, della quale fui lietissimo di vedermi possessore.

«Mio padre ed i miei zii mi lasciarono adunque a Damasco, e proseguirono il viaggio. Dopo la loro partenza, ebbi cura di non ispendere inutilmente il mio denaro, ma tuttavia noleggiai una casa magnifica, tutta di marmo, ornata di pitture a fogliami d’oro ed azzurro, con un giardino ove vedeansi bellissime lontane. L’ammobigliai, non già in vero colla ricchezza che richiedeva la magnificenza del luogo, ma almeno con molta decenza per un giovine della mia condizione. Aveva essa altre volte appartenuto ad uno dei principali signori della città, chiamato Modun Abdalraham, ed era allora di proprietà d’un ricco mercante di gioie, al quale non pagava che due scerifi al mese (1). Io aveva molti domestici; viveva onorevolmente, convitando talvolta le persone colle quali aveva fatto conoscenza, e qualche volta andando a pranzo da loro; e così passava il tempo, aspettando il ritorno di mio padre. Nessuna passione turbava il mio riposo, e l’amicizia delle oneste persone formava l’unica mia occupazione.

«Un giorno ch’era seduto alla porta della mia casa a prendervi il fresco, una dama molto ben vestita, e che pareva di leggiadre forme, mi si presentò, e chiesemi se vendessi stoffe. Ciò dicendo, entrò in casa...»

Qui Scheherazade, vedendo albeggiare, tacque; e la notte seguente riprese in questi termini:

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NOTTE CLIII


— «Quando vidi,» disse il giovine di Mussul, «la dama entrare in casa, mi alzai, chiusi la porta, e la feci entrare in una sala, dove la pregai di sedere. — Signora,» le dissi, «ebbi una volta varie stoffe degne di esservi mostrate: ma ora non ne ho più, e ne sono dispiacentissimo.» Levò allora colei il velo che le copriva il volto, e fece risplendere ai miei occhi una bellezza, la cui vista mi fece sentire certi movimenti che non aveva per anco provati. — Non ho bisogno di stoffe,» mi rispos’ella; «vengo sol per vedervi e passare la sera con voi, se lo avete caro: non vi domando che una leggiera refezione. —

«Inebbriato di sì buona fortuna, diedi ordine ai miei servi di recare parecchie sorta di frutta ed alcune bottiglie di vino. Fummo subito serviti: messici a tavola, stemmo allegri fino a mezzanotte; in fine, non aveva ancor passata una notte sì piacevole come quella. L’indomani volli mettere in mano alla dama dieci scerifi, ma ella la ritirò bruscamente. — Non sono venuta a trovarvi spinta da interesse, e mi offendete. Ben lungi dal ricevere danaro da voi, voglio anzi che ne prendiate da me, altrimenti non vi rivedrò mai più.» Nel medesimo tempo cavò dalla borsa dieci scerifi, e mi costrinse a prenderli. — Aspettatemi fra tre giorni,» mi disse, «dopo il tramonto del sole.» E così congedatasi, io sentii che, partendo, ella m’involava il cuore.

«Scorsi i tre giorni, non mancò essa di comparire all’ora stabilita, ed io la ricevetti con tutto il giubilo d’un uomo che l’attendeva con impazienza. Passammo la sera e la notte come la prima volta; e il [p. 72 modifica]dì dopo, lasciandomi, promise di tornarmi a vedere di nuovo fra tre giorni; ma non volle partire se non ebbi prima ricevuto dieci altri scerifi.

«Tornata per la terza volta, e quando il vino ci ebbe riscaldati entrambi, ella mi disse: — Cuor mio, che cosa pensate di me? Non son io bella e scherzosa? — Signora,» le risposi, «questa domanda, a quanto mi sembra, è inutile: tutti i segni d’amore che vi do debbono persuadervi del mio affetto. Sono incantato di vedervi e possedervi! Voi siete la mia regina, la mia sultana, e formate tutta la felicità della mia vita! — Ah! son certa,» soggiunse la dama, «che cessereste di tenere simile linguaggio, se aveste veduto una mia amica più giovine e leggiadra di me! È dessa d’umore sì giocondo, che farebbe ridere i più malinconici. Bisogna che ve la conduca qui. Le ho parlato di voi, e da quanto gliene dissi, muor di voglia di vedervi; laonde mi pregò di procurarle tal favore, ma non osai soddisfarla, senza prima avervene parlato. — Signora,» risposi, «fate il piacer vostro, ma checchè possiate dirmi della vostra amica, sfido tutte le sue attrattive a rapirvi il mio cuore, sì fortemente a voi legato, che nulla è capace di staccarnelo. — Badate a quello che dite,» replicò colei; «vi avverto che sto per mettere l’amor vostro ad una prova singolare. —

«Così intesi, il giorno appresso, nel lasciarmi, invece di dieci scerifi, me ne diè quindici, che mi costrinse ad accettare. — Ricordatevi,» disse, «che tra due giorni avrete una nuova ospite, e pensate ad accoglierla bene; verremo all’ora solita, dopo il tramonto.» Feci adunque ornare la sala, e preparare un buon pasto pel giorno che dovevano venire.»

Scheherazade, a questo passo, notando ch’era giorno, s’interruppe; ma la notte seguente proseguì a questo modo: [p. 73 modifica]

NOTTE CLIV


— Sire, il giovine di Mussul, continuando a raccontare la sua storia al medico ebreo:

«Aspettai con impazienza le due dame,» diss’egli, «le quali arrivarono alfine al calar della notte. Si tolsero il velo l’una e l’altra; e s’io era rimasto sorpreso dalla bellezza della prima, ebbi argomento di esserlo vie più, quando vidi l’amica sua; aveva desse lineamenti regolari, un volto perfetto, un colorito vivace, ed occhi sì brillanti che poteva appena sostenerne il fulgore. La ringraziai dell’onore che mi faceva, e la pregai a scusarmi se non la riceveva come meritava. — Lasciamo da parte i complimenti,» essa rispose; «toccherebbe a me il farvene, avendo permesso alla mia amica di qui condurmi; ma poichè vi contentate di soffrirmi, lasciamo le cerimonie, e non pensiamo che a star allegri. —

«Avendo io dato ordine che all’arrivo delle dame ci fosse servita la cena, in breve ci mettemmo a tavola. Io stava seduto rimpetto alla nuova venuta, la quale non cessava di guardarmi sorridendo; non potei resistere alle sue occhiate affascinatrici, ed essa si fe’ padrona del mio cuore, senza potermene difendere. Ma anch’ella arse d’amore ispirandomene, e lungi dal dissimularlo, mi disse mille tenere cose.

«L’altra dama, che ci osservava, ne rise sulle prime. — Ve l’aveva pur detto,» sclamò, volgendosi a me, «che trovereste amabile la mia amica, e già veggo avete ormai violato il vostro giuramento di essermi fedele. — Signora,» le risposi ridendo anch’io, «avreste motivo di lagnarvi di me se mancassi di [p. 74 modifica]civiltà ad una dama che mi conduceste voi stessa, e cui tanto prediligete; potreste entrambe rimproverarmi di non saper fare gli onori di casa. —

«Continuammo a bere, e mano mano che il vino ci riscaldava, la nuova dama ed io ci provocavamo con sì poco riguardo, che la sua amica ne concepì una violenta gelosia, di cui ne diede in breve funesti segni. Si alzò costei ed uscì, dicendo di tornar subito; ma poco dopo la giovine rimasta con me cangiò colore, fu presa da forti spasimi, e finalmente esalò l’anima fra le mie braccia, mentr’io chiamava gente per aiutarmi a soccorrerla. Allora escii ratto, e chiesi dell’altra donna; i servitori mi dissero, che se n’era andata per la porta di strada. Sospettai quindi, e con ragione, essere stata colei la causa della morte dell’amica sua; infatti, aveva avuta la destrezza e la perfidia di mescere un veleno potentissimo nell’ultima tazza da lei medesima presentata.

«Vivamente afflitto di tale sciagura: Che cosa farò» dissi allora fra me. «Che sarà mai di me?» Siccome credetti non vi fosse tempo da perdere, feci levare dalla mia gente, al chiaror della luna e senza strepito, una delle lastre di marmo del cortile, e scavare in fretta una fossa, ove sotterrammo il cadavere della giovane dama. Rimesso che fu a suo luogo il marmo, presi un abito da viaggio, con quanto denaro aveva, e chiusi dappertutto, sino la porta della casa, che suggellai ed improntai col mio sigillo. Andai poscia a trovare il gioielliere che n’era proprietario; gli pagai quanto dovea d’affitto con un’annata di anticipazione, e dategli la chiave, lo pregai di custodirmela. — Un affare urgente,» gli dissi, «mi astringe ad assentarmi per qualche tempo; debbo andar a trovare i miei zii al Cairo.» Insomma, m’accommiatai da lui, e tosto montato a cavallo, partil co’ servi che mi aspettavano...» [p. 75 modifica]Il giorno che cominciava a sorgere impose silenzio a Scheherazade, la quale la notte seguente ripigliò di tal guisa la narrazione:


NOTTE CLV


— «Il mio viaggio fu felice,» proseguì il giovane di Mussul, «e giunsi al Cairo senza sinistro incontro. Colà trovai i miei zii, che maravigliarono molto al vedermi; dissi loro per iscusa che m’era annoiato d’attenderli, e che non avendone nuova alcuna, la mia inquietudine mi aveva fatto intraprendere quel viaggio; mi accolsero bene, e promisero d’intercedere in mio favore presso il padre, acciò non si adirasse perchè fossi partito senza sua licenza, da Damasco. Alloggiai con loro nel medesimo khan, e visitai le cose più belle del Cairo.

«Siccome avevano finito di vendere le loro merci, parlavano di tornare a Mussul, cominciando anzi a fare i preparativi di partenza; ma non avendo veduto quanto restavami ancor da vedere in Egitto, lasciai gli zii, ed andai ad abitare in un quartiere lontanissimo dal loro khan, nè comparvi finchè non furono partiti. Mi cercarono essi molto tempo per tutta la città; ma non avendomi trovato, giudicando che il rimorso d’essere venuto in Egitto contro la volontà paterna, mi avesse consigliato a tornare a Damasco senza dir nulla, partirono nella speranza d‘incontrarmi colà, e prendermi passando.

«Rimasi dunque al Cairo dopo la loro partenza, e vi dimorai tre anni onde soddisfare per intero alla mia curiosità di vedere tulle le maraviglie dell’Egitto. Nel frattempo, ebbi cura di mandar danaro al gioielliere, [p. 76 modifica]invitandolo, a conservarmi la casa, essendo mia intenzione di tornare a Damasco e fermarmi colà per qualche altro anno. Al Cairo non m’accadde nulla che meriti d’esservi raccontato; ma ora di certo rimarrete assai sorpreso, quando udrete l‘avventura che mi toccò di ritorno a Damasco.

«Giunto in questa città, andai a smontare dal gioielliere, il quale mi accolse con giubilo, e volle accompagnarmi in persona fino alla casa, per farmi vedere che, durante la mia assenza, niuno v’era entrato. In fatti, il suggello era ancora intatto sulla serratura. Apersi, e trovai ogni cosa nello stato medesimo, in cui l’aveva lasciata.

«Nel ripulire e spazzar la sala, dove aveva mangiato colle dame, un mio servo trovò una catenella d’oro ov’erano di spazio in ispazio dieci belle perle grossissime; me la portò, ed io la riconobbi per quella da me veduta al collo della giovane dama morta avvelenata. Compresi ch’erasi staccata e caduta senza avvedermene: ma non potei guardarla senza versar lagrime, ricordandomi d’una sì amabile persona, veduta morire in modo sì crudele. La incartocciai, e me la riposi preziosamente in seno.

«Scorsi alcuni giorni a rimettermi dalla fatica del viaggio, cominciai ad andar a trovare le persone colle quali stretto aveva altre volte amicizia, ed abbandonatomi ad ogni sorta di piaceri, insensibilmente scialacquai tutto il mio denaro. In tale situazione, in vece di vendere le masserizie, risolsi di disfarmi della collana, ma m’intendeva sì poco di perle, che mi ci presi malissimo, come in breve intenderete.

«Mi recai al bezestin, e colà tratto in disparte un banditore, e mostratagli la collana, gli dissi ch’io voleva venderla, pregandolo di farla vedere ai primi gioiellieri. Maravigliò il banditore alla vista di quel monile. — Che bella cosa!» sclamò, dopo averla [p. 77 modifica]guardata a lungo con ammirazione. «I nostri mercadanti non ne videro mai di più preziose! Son certo di arrecar loro un gran piacere, e voi non dovete dubitare che non ve ne diano a gara un gran prezzo.» Mi condusse ad una bottega, che per caso era quella del mio padrone di casa. — Aspettatemi qui,» mi disse il banditore; «torno subito a portarvi la risposta. —

«Mentr’egli con molta segretezza andava mostrando la collana di mercante in mercante, sedetti presso il gioielliere, il quale dimostrò gran giubilo al vedermi, e cominciammo a conversare di cose indifferenti. Tornò il banditore, e chiamatomi in disparte, invece di dirmi che si stimava la collana almeno duemila scerifi, mi assicurò che non volevano darne più di cinquanta. — Perchè mi han detto,» soggiunse, «che le perle sono false: guardate voi se volete cederla a tal prezzo.» Siccome credetti alle sue parole, ed aveva bisogno di denaro: — Andate,» gli dissi, «mi fido di chi se n’intende meglio di me: datela pure a tal prezzo, e portatemi tosto il denaro. —

«Era il banditore venuto ad offrirmi i cinquanta scerifi da parte del più ricco gioielliere del bezestin, il quale aveva fatto tale proposta al solo scopo di scandagliarmi e sapere se conoscessi il valore dell’oggetto cui voleva vendere. Laonde non ebbe appena udita la mia risposta, che condusse il banditore dal luogotenente di polizia, cui, mostrando la collana: — Signore,» gli disse, «ecco una collana che mi fu rubata; ed il ladro, travestito da mercante, ebbe l’ardire di venir ad esporla in vendita, e trovasi attualmente al bezestin. Egli si accontenta,» soggiunse, «di cinquanta scerifi per un gioiello che ne vale duemila: penso non ci voglia di più per provare che costui è un ladro. —

«Il luogotenente di polizia mandò issofatto ad arrestarmi, e quando gli fui davanti, mi chiese se la [p. 78 modifica]collana, ch‘egli teneva in mano, fosse quella ch'io voleva vendere nel bezestin. Gli risposi di sì. — Ed è vero,» proseguì egli, «che la cedete per cinquanta scerifi?» Ne convenni. «Or bene,» disse allora con accento di dileggio, «gli si diano le bastonate: ci dirà così, col suo bell’abito di mercadante, com’egli altro non sia che uno sfacciato ladro; venga battuto finchè confessi.» La violenza delle bastonate m’indusse a far una bugia: confessai, contro la verità, d’aver rubata la collana, e tosto il luogotenente di polizia mi fe’ tagliare la mano.

«Quel fatto fe’ gran rumore nel bezestin, e fui appena tornato a casa, che vidi giungere il proprietario di questa, il quale:— Figliuolo,» mi disse, «voi mi sembraste un giovane saggio e ben educato; com’è possibile che abbiate commessa un’azione sì indegna come quella, della quale sentii testè parlare? Voi stesso m’istruiste delle vostre sostanze, e non dubito che non siano quali mi diceste. Perchè non m’avete chiesto danaro? Ve ne avrei prestato; ma dopo l‘accaduto, non posso: permettere che restiate più a lungo nella mia casa: vi prego d’andar a cercarvi alloggio altrove.» Rimasi estremamente mortificato da quelle parole, e pregando il gioielliere, colle lagrime agli occhi, di permettermi di restar ancora tre giorni in quell’abitazione, egli me li accordò.

«— Aimè!» sclamai; «quale disgrazia e qual affronto! Come oserò tornare a Mussul? Tutto quello che potrò dire a mio padre, sarà bastante a persuaderlo della mia innocenza?»

Scheherazade si fermò a questo passo, vedendo comparire il giorno, e l’indomani continuò in questi termini il racconto: [p. 79 modifica]

NOTTE CLVI


— «Il terzo giorno dopo quella disgrazia,» disse il giovane di Mussul; «vidi con maraviglia entrare una squadra di gente di polizia, col padrone della casa ed il mercante che mi aveva falsamente accusato d’avergli rubata la collana di perle. Domandai qual cosa li conducesse; ma, invece di rispondere, impadronitisi di me, mi legarono, ingiuriandomi, e dicendo che la collana apparteneva al governatore di Damasco, il quale l’aveva perduta da più di tre anni, e che nel medesimo tempo una delle sue figlie era sparita. Giudicate della mia sorpresa a simili parole! Presa però la mia risoluzione: — Dirò la verità al governatore,» dissi fra me; «starà in lui il perdonarmi o farmi morire. —

«Quando fui alla sua presenza, notai che mi guardava con occhio compassionevole, e n’ebbi buon augurio. Mi fece slegare, poi, voltosi al gioielliere, mio accusatore, ed al padrone della mia casa: — È questo,» chiese loro, «l’uomo che voleva vendere la collana di perle?» Non ebbero appena risposto affermativamente, ch’egli disse: — So da fonte certa che costui non ha rubata la collana, e mi maraviglio che gli sia stata fatta sì grande ingiustizia.» Rassicurato da tali parole: — Signore» sclamai, «vi giuro che sono in fatti innocente. Son persuaso inoltre che la collana non appartenne mai al mio accusatore, ch’io non ho mai veduto, e la cui orribile perfidia è cagione dell‘infame trattamento a me usato. E se confessai il furto, lo feci contro coscienza, costretto dai tormenti, e per una ragione, cui son pronto, [p. 80 modifica]a palesare se avrete la bontà d’ascoltarmi. — Ne so già abbastanza,» replicò il governatore, «per rendervi tosto parte della giustizia che v’è dovuta. Sia condotto via di qui,» continuò egli, «il falso accusatore, e patisca il medesimo supplizio ch’egli fece infliggere a questo giovane, la cui innocenza m’è nota. —

«L’ordine del governatore fu sul momento eseguito, ed il gioielliere castigato come meritava. Indi, il governatore, congedati tutti gli altri, mi disse: — Figliuolo, raccontatemi senza timore in qual guisa quella collana sia caduta nelle vostre mani, e non mi celate nulla.» Allora gli svelai tutto, e confessai di aver voluto passare piuttosto per ladro che palesare la tragica avventura. — Gran Dio!» sclamò il governatore quand’ebbi finito di parlare; «i tuoi giudicii sono incomprensibili; noi dobbiamo sottomettervici senza mormorare! Ricevo con tutta rassegnazione il colpo, onde ti piace percuotermi.» Poscia, volgendosi a me: «Figliuolo,» disse, «ora che ho udita la cagione della vostra disgrazia, della quale sono afflittissimo, vi farò anch’io il racconto della mia. Sappiate che sono il padre delle due dame delle quali mi parlaste...»

A quest’ultime parole, Scheherazade, veduto comparire il giorno, interruppe la narrazione; e sulla fine della notte seguente la continuò di tal modo:


NOTTE CLVII


— Sire,» diss’ella, «ecco il discorso che il governatore di Damasco fece al giovane di Mussul: — Figliuolo,» diss’egli, «sappiate dunque che la prima [p. 81 modifica]dama, la quale ebbe la sfrontatezza di venirvi a cercare fino in casa vostra, era la primogenita di tutte le mie figlie. Io l’aveva maritata al Cairo con un suo cugino, figlio di mio fratello. Mortole il marito, tornò presso di me, corrotta da mille vizi imparati in Egitto. Prima del suo arrivo, la minore, quella ch’è morta, in sì lagrimevol guisa fra le vostre braccia, era savissima, e non mi aveva mai dato alcun motivo di lagnarmi de’ suoi costumi. La maggiore se le strinse in intima amicizia, e la rese a poco a poco non meno malvagia di lei. Il giorno che seguì la morte dell’altra, non avendola veduta nel mettermi a tavola, ne chiesi notizia alla primogenita, ch’era già tornata a casa; ma invece di rispondermi, si mise a piangere sì amaramente, che ne concepii un presagio funesto; la incalzai ad istruirmi di ciò che voleva sapere. — Padre,» mi rispose singhiozzando, «non posso dirvi altro se non che mia sorella, vestitasi ieri del suo più bell’abito e presa la sua bella collana di perle, uscì, e non è più ricomparsa.» Feci cercare mia figlia per tutta la città, ma nulla potei sapere del suo infelice destino. Intanto, la maggiore, la quale senza dubbio pentivasi del suo geloso furore, non cessò d’affliggersi e piangere la morte della sorella; rifiutò anzi ogni nutrimento, e mise così termine agli sciagurati suoi giorni. Ecco,» proseguì il governatore, «quale è la condizione degli uomini; tali sono le disgrazie cui siamo esposti! Ma, figliuolo,» soggiunse, «siccome siamo ambedue egualmente sfortunati, uniamo i nostri affanni, nè ci abbandoniamo più l’un l’altro. Vi darò in isposa una terza mia figlia; è più giovane delle sue sorelle, e lor non somiglia guari per la condotta. E inoltre molto più avvenente, e posso assicurarvi ch’ella vi farà felice. Non avrete altra casa fuor della mia, e dopo la mia morte, voi sarete con lei gli unici miei eredi. [p. 82 modifica]«— Signore,» risposi, «sono confuso di tutte le vostre bontà, e non potrò mai dimostrarmene abbastanza riconoscente. — Orsù,» interrupp’egli, «non perdiamo il tempo in vani discorsi.» Sì dicendo, fece chiamare alcuni testimoni, e sposai sua figliuola senza cerimonie.

«Non si contentò egli d’aver fatto punire il gioielliere, mio falso accusatore, ma ne fece confiscare a mio pro tutte le sostanze. Infine, dacchè venite in casa del governatore, avrete potuto vedere di qual considerazione io goda appo di lui. Vi dirò inoltre, che un messo da’ miei zii espressamente spedito in Egitto per cercarmi, avendo, nel passare, scoperto che mi trovava in questa città, mi consegnò ieri una lettera, nella quale essi mi partecipano la morte di mio padre, e m’invitano ad andar a raccogliere, la sua eredità a Mussul; ma siccome la parentela e l’amicizia del governatore mi tengono a lui legato, e non mi permettono d’allontanarmi, rimandai il messo con una procura per farmi consegnare quanto mi appartiene. Ora, spero vorrete perdonarmi l’inciviltà che uscii, durante il corso della mia malattia, presentandovi la mano sinistra invece della destra. —

«Ecco,» disse il medico ebreo al sultano di Casgar, «cosa mi raccontò il giovane di Mussul. Io rimasi a Damasco finchè visse il governatore; morto che fu, trovandomi sul fior degli anni, ebbi la curiosità di viaggiare. Percorsi tutta la Persia, andai alle Indie, e finalmente venni a stabilirmi nella vostra capitale, ove esercito con onore la professione di medico. —

«Il sultano di Casgar trovò dilettevole quest’ultima storia. — Confesso, » disse all’ebreo, «che il tuo racconto è straordinario, ma, per dir la verità, la storia del gobbo lo è vie maggiormente; non isperare dunque che doni la vita a te più che agli altri; ora [p. 83 modifica]vi farò impiccare tutti e quattro. — Aspettate di grazia, o, sire,» gridò il sartore, avanzandosi e prosternandosi a’ piedi del sultano; «giacchè vostra maestà ama le storielle piacevoli, quella che sono per narrarvi non vi spiacerà. — Ed io ascolterò te pure,» gli disse il sultano, «ma non lusingarti che ti lasci vivere, a meno che non mi racconti qualche avventura più dilettevole di quella del gobbo.» Allora il sarto, quasi fosse sicuro del fatto suo, prese la parola con fiducia, e cominciò in questi termini:


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La Valle del Nilo.                    Disp. V.


Note

  1. Lo scerifo vale uno zecchino