La vita militare/Il campo
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IL CAMPO.
Un bel prato, piano, vasto, rettangolare, limitato ai quattro lati da un fosso e da una siepe, e folto d’erba e tempestato di margheritine. Al di là del fosso, dall’un dei lati, un fitto bosco di gelsi, di quercioli, di marruche, e più oltre, sporgente al di sopra di quella macchia, una collinetta a lento declive, bassa, verde e sparsa d’alberi e di casicciuole bianche. A mezzo della china, un gruppo di case più alte e d’aspetto più cittadino, e un campanile alto e leggero. Intorno intorno certi palazzotti azzurri e rossastri, e poggetti fioriti, e lunghi filari di pini, e gruppi di salici, e viali sabbiosi, serpeggianti, intersecati; e qua e là statuette candide e zampilli d’acqua mezzo nascosi fra gli alberi e i cespugli. Dinanzi a quel prato, lungo il lato opposto al bosco, corre una strada larga e rilevata, e gira intorno al folto degli alberi, e ascende, su per la collina, al villaggio. In quel prato ha posto le tende un reggimento.
Poniamoci su quella strada e guardiamo quel campo. Cominciando a venti passi dal fosso, fino all’opposto limite del prato, otto lunghi ordini di tende, gli uni agli altri paralleli, e divisi da uno spazio di una diecina di passi. Per ogni ordine un cento di tende; tre soldati per tenda, trecento soldati per serie, due mila quattro cento, o poco meno, fra tutti; un reggimento. Le tele nette, tese; le cordicelle fisse nel suolo sur una linea retta; gli intervalli uguali; tutto in ordine, tutto appuntino; un campo fatto a pennello. Di rimpetto all’apertura delle tende, e sul di dietro, e sui lati, capannucci e tettarelli di frasche, — le hanno rubate agli alberi di quella povera campagna circostante, e il colonnello è andato in collera! — e legate ai rami, come ad archi di trionfo, ghirlande penzolanti di rosolacci e di pannocchiette intrecciate. Qua e là, in cima a una canna confitta nel suolo, sventola qualche cencio di bandiera, fatta d’una cravatta rossa, d’un lembo di camicia e d’un fazzoletto turchino, che si dà l’aria di verde. Dentro le tende, una confusione di paglia, di panni, di zaini, di cencerelli, di giberne, di canne di fucile e di baionette. Tra tenda e tenda funicelle tese, su cui sono sciorinate quelle certe mezze mutande, che dovrebbero giungere fino alla noce del piede sulle gambe supposte dal governo; ma giungono solamente fino al ginocchio sulle gambe dei soldati come li ha fatti la mamma.
A destra di tutte codeste tende, in senso parallelo al lato più corto del campo, una serie d’altre tende, ma di forma conica, e più alte, più capaci, più tese, fatte più ammodo, le tende degli uffiziali; da quella del colonnello, che è la più vicina alla via, giù giù fino a quella degli uffiziali della compagnia estrema. Più a destra, in senso parallelo a codeste tende, lungo il fosso divisorio, una lunga fila di carri sopraccarichi di casse, cassette e bauli e involti e cento oggetti svariati; dietro l’ultimo carro, nell’ultimo angolo del prato, una schiera di cavalli e di muli legati ai tronchi degli alberi. Lungo il lato opposto, — il lato sinistro, — una sterminata sequela di marmitte nere, disposte in gruppi ad intervalli uguali, e tra gruppo e gruppo fornelletti di sassi e di mattoni accatastati, e mucchi di cenere, e rimasugli di tizzoni spenti, di stipe e di fuscelli sparpagliati. Al di là del fosso, alberetti distesi a terra, schiantati e scapezzati; siepi sforacchiate; solchi calpestati e disfatti; tutti i segni d’un vasto saccheggio. Uh il colonnello! com’è andato in collera!
Un ponticello di legno, fatto lì per lì, con due tronchi d’albero e poche assicelle, unisce il campo alla via. Accanto al ponte, dentro il campo, lungo la sponda del fosso, dieci o dodici tende isolate; in esse i prigionieri coi ferri. Sul ponte una sentinella; un’altra dinanzi a quelle tende; una serie d’altre intorno al campo nei punti d’uscita.
Tal’è il campo.
Cadeva il sole; era una bellissima sera di luglio; il cielo mirabilmente limpido, la campagna ancor umida e fresca d’una pioggia recente, e quel boschetto oscuro, quella bella collina verde, quelle ville, quel paesello ancora dorato da uno sprazzo di sole....; stupendo il luogo, stupenda l’ora.
Pel reggimento era un’ora di riposo, di svago e di festa. Tutti erano in moto. La più parte, in maniche di camicia e in calzoni di tela, girandolavano per tutte le parti del campo, scompagnati, a coppie, a brigatelle; alcuni giacevan seduti o sdraiati in gruppi, o correvano in giro inseguendosi l’un l’altro come gli scolaretti nel cortile del collegio; altri giocavano alle murielle co’ sassi; altri tiravano di scherma co’ bastoni in mezzo ad un cerchio di spettatori; altri, teso uno spago fra due tende, saltavano a scommessa fra due ali di ammiratori affollati; altri, seduti sulla sponda del fosso, attorno a un cencio di tovagliolo steso sull’erba, divoravano quattro foglie di lattuga fra amici, sbocconcellando un po’ di pan bianco (di quello che mangiano gli ufficiali, capite); altri stavan seduti a cavalcioni delle sbarre dei carri a fumarsela in santa pace; altri, vestiti di certe giubbe di tela cadenti a brani, a cui non restava di bianco altro che il passato, si affaccendavano attorno ai fornelli e alle marmitte spezzando col ginocchio e ammonticchiando rami, stoppie e fuscelli per la cucina; e in ogni parte si levava un gridìo, un frastuono misto d’urli e di canti e, un mormorìo continuo e diffuso.
Quanti bei quadri, chi li sapesse ritrarre con pennello fedele!
Là in fondo al campo, nel mezzo del lato opposto alla via, il vivandiere ha disposto i suoi tre carri a foggia di tre lati d’un trapezio, l’apertura volta verso il campo; ha disteso una tenda rappezzata e lacera fra i due carri laterali, ha rizzato in piè due o tre tavole, e due o tre pancaccie nere e squilibrate; ha posata un’imposta d’armadio sopra le due botti più alte, e n’ha fatto un banco; gli ha messo dietro la botte più larga e v’ha allogata sopra la moglie; ha teso fra due raggi di ruota una cordicella unta e bisunta e ci ha appesi certi così lunghi, neri, crostosi, che vorrebbero dare ad intendere d’essere salami masticabili e ingoiabili senza pericolo di morte; ha messo in vista, per eccitare la ghiottoneria dei soldati, un paio di cestelle degli erbaggi migliori, un gran piatto di polli spennacchiati e macilenti, un gran pezzo di carnaccia cruda, e una filatessa di fiaschi, di bottiglie e bicchieri, e sigari pregni d’olio e fogli di carta da lettera odorati di chi sa che, e poi: — Avanti, ragazzi! Qui si mangia da crepare — Può darsi.
Le panche son tutte ingombre; le tavole coperte di bottiglie e di bicchieri; si gioca alla mora, si canta, si grida, si zufola, si strepita; i bicchieri di tratto in tratto danno un gran tentennio e cozzano l’un contro l’altro, e il vivandiere si volge: — Che facciamo laggiù? — Comparisce un uffiziale, silenzio profondo; sparisce, daccapo il baccano. Intanto, nel passaggio aperto fra le tavole si forma una calca di due processioni opposte, di chi viene col gamellino a tor del vino, e di chi se ne va col gamellino ricolmo gridando: — Largo! — e bestemmiando e imprecando il malanno a chi non cede il passo e glie ne fa traboccare una stilla. Attorno alla vivandiera s’è già formato un cerchiolino di caporalotti; quello della terza compagnia, fra gli altri, che è così bellino e così sfacciatello; e il marito lo sa, e non tralascia di lanciargli certe occhiate di sotto in su che paiono sassate; e la vivandiera non manca di far gli occhiolini soavi ai suoi prediletti; e il marito vorrebbe protestare; ma gli affari della bottega vanno bene, e -questo si deve anche un po’ alle moine di quella briccona. — Chiudiamo un occhio, egli pensa, finchè vengono i quattrini. — Un soldato s’avvicina al banco. — Che cosa vuoi? — Un bicchierino di rum. — Eccolo, paga. — To’, e porge un biglietto. — Non cambio io; non ho quattrini. — E io come faccio? — Oh bella, ingegnati. — E il povero soldato se ne riman lì, grullo, confuso, a stropicciare il biglietto colle dita, a sogguardare il bicchierino con un visaccio imbronciato. Poi s’allontana lentamente: — Noi ci pagano colla carta, noi; e dire che la moneta c’è! Ma se la intascano tutta quelli che vanno a cavallo. —
Cinquanta passi più in qua, un altro quadro. È un capitano che radunò una cinquantina di soldati della sua compagnia, quanti gli venne fatto di trovarne là attorno, li ha disposti in circolo, e, dopo detto che il dì vegnente s’avrà da camminar di molto e che il primo che rimarrà a mezza via ei lo farà mettere ai ferri corti, fece recare in mezzo una botticella di vino, e, adocchiato un de’ soldati più lesti: — A te, gli disse, via lo zipolo e mesci. — Tutti gli si fanno addosso tendendo gamellini, borraccie e bicchieri. — Un momento, per Dio; levatevi di lì, fatevi indietro, aspettate. — Tutti si ritraggono indietro. E mentre il soldato s’adopra a sturare la botticella ingegnandosi coll’ugne e colla punta della baionetta, e il capitano sta là curvo colle mani appoggiate sulle ginocchia a sorvegliare l’operazione, tutti gli altri, ritrattisi indietro, smozzicano fra’ denti delle risate di gusto, e si stropicciano le mani piegando e stringendo le ginocchia e inarcando la schiena, e si fan l’un l’altro certi segni taciti, certi visi, certe smorfie buffonesche, e si toccano l’un l’altro col gomito accennandosi col capo e con un chiuder di occhi furbesco quell’insolito apparato, e si passano il rovescio della mano sulla bocca come per prepararla a gustare intera la voluttà di quel nettare senz’altro umore profano sul labbro, e si scambiano dei pizzicotti furtivi, e si fregano l’un l’altro spalla contro spalla, e ad un tratto — il capitano s’è vôlto — tutti dritti, fermi, duri, seri, tanto per non parere che van pazzi per due goccie di vino. Il capitano fa cenno che si accostino; essi s’accalcano; lo zipolo è tolto; una grossa vena porporina, gorgogliando, prorompe; dieci gamellini stan sotto a raccoglierla; dopo questi dieci altri, e poi altri dieci, e via così. E giù, in corpo, a ondate. — Tocchiamo? domanda una voce. Tocchiamo! rispondono venti altre. I gamellini si levano al di sopra delle teste, si movono, girano e rigirano, si urtano, il vino trabocca e si sparge sulle teste, sulle faccie, sulle mani e colora giubbe e farsetti, e sgocciola dappertutto; ma che monta? Viva l’allegria, viva il sor capitano! esclama a mezza voce uno dei più arditi già mezzo convinto di aver fatto una corbelleria. — Viva! rispondono gli altri in coro. — Tacete, per Dio! grida impetuosamente il capitano, non riuscendo però a celare sotto quella collera affettata tutto l’intimo compiacimento; — avete perduta la testa? Scioglietevi! — La brigata si sparpaglia di corsa in tutte le direzioni. Ma altri soldati, che hanno avuto sentore di quel po’ di festicciola accorrono. Tardi però; la botticella è vuota, e la borsa del capitano è chiusa. E i nuovi accorsi gironzano là attorno, sogguardano alla sfuggita, fanno, come suol dirsi, gli indiani, e voltano gli occhi in su a contemplare le nuvole, e dan della punta del piede ne’ sassolini, e sbadigliano sforzatamente; invano; il capitano non li vede, si allontana; ogni speranza è morta. Dunque, tanto vale far gli allegri; i nuovi venuti tornano là donde partirono, canterellando con quella voce agra e stentata, che pare ci voglia morire a mezza gola, quando abbiamo in cuore la stizza, e la vogliamo e non la possiamo dissimulare.
Ora guardiamo in un altro punto, laggiù, nell’angolo estremo. Lunghesso quel tratto del campo corre un canaletto largo un tre o quattro metri o giù di lì, e in esso un’acquarella fonda un par di palmi, tra due sponde molli e sdrucciolevoli. Sur una di quelle sponde parte giacciono e parte vagano a diporto i soldati della compagnia attendata là presso. All’improvviso da un crocchio d’uffiziali ritti sulla sponda opposta s’alza una voce: — Una lira da guadagnare! Chi salta questo fosso, eccola qua. — E di mezzo al crocchio si leva un braccia con una moneta in mano. Tutti si volgono, e corrono da quella parte. Io — Io — Io — Anch’io — Anche noi — Anche noi altri. Un ufficiale: — Vediamo. Schieratevi là. — E fa cenno colla mano. La folla gli volge le spalle, accorre confusamente a venti passi dalla sponda, si arresta, si volge indietro, si schiera, si dispone in semicerchio, i più animosi al centro, i più poltroni alle ali; tre o quattro del mezzo si disputano coi gomiti la precedenza del posto, uno finalmente la vince, pianta il piè sinistro innanzi, inclina la persona addietro, misura coll’occhio il terreno, si alza in punta de’ piedi a guardare il fosso, pensa, esita, si volge al vicino: — Salta prima tu. — Un uh! di vergogna si alza da tutte le parti. — Il vicino esita anch’esso, due o tre altri si ricusano. — Largo, largo, che salterò io, sclama un nuovo arrivato aprendosi un varco a furia di spintoni e di pugni. Gli si fa largo, viene avanti, si mette in pronto, si dondola avanti e indietro, avanti e indietro, adocchia il fosso, adocchia il terreno.... è partito. Divora lo spazio interposto, e sull’orlo — forza — bravo, è al di là, piantato sul piede destro, col sinistro in aria e le braccia alzate. La lira è sua; via subito a tracannarne un sorso. La gara è accesa; un altro saltatore s’è slanciato; un’altra lira è vinta. Un terzo parte: oh com’è fiacco! Giunge sull’orlo, spicca il salto, ahi! giù, dentro, lungo e disteso; acqua in faccia a tutti. Un urlo prolungato, sgangherato, erompe da tutte le bocche e finisce in una risata dai precordi, accompagnata da un fragoroso batter di mani. Il poveretto è salito a stento sulla sponda, tutto fradicio, tutto stillante, coi capelli sparsi e attaccati a ciocche sulle orecchie e sul viso, coi calzoni raggrinzati sulle gambe, colle braccia penzoloni... Ma gli uffiziali si muovono a pietà. — Un bicchier di vino a questo povero diavolo! — esclama l’un d’essi. E la faccia del povero diavolo si rasserena.
E i crocchi de’ cantatori? Oh quanti! Uno qui, uno là, un altro più in giù. Attorno alle tende, sotto gli alberi, a cinque, a dieci, a venti assieme. Questi gorgheggiano una romanza patetica con tanto di muso duro; quegli altri brilli a mezzo, con cert’occhi lustri e certe cere imbambolate, schiamazzano una canzonaccia da baccanale, sollevando con tutt’e due le mani un gamellino ad ogni ripresa di strofa, e cacciandovi la testa dentro e tracannandone il vinaccio a lunghi sorsi; e poi un agitar di berretti a dimostrazione di gioia, e un battersi reciproco delle palme sul dorso, e un gridare acuto e ringhioso: Evviva la biondaaa! con certi ghigni, con un cerio scimiesco raggrinzar di naso, con certi atteggiamenti di satiri. Intorno ai cori dalle voci più armoniose e concordi, un piccolo circolo di spettatori, e in mezzo a que’ cori un direttore che segna la cadenza col dito, e fa vergogna a chi stona, e piglia la sua parte sul serio e fa un viso tutto modesto girando l’occhio intorno all’uditorio che si va ingrossando.
Ma vi son pure i solitari, i malinconici, che vanno lungi da quel baccano, da quella festa, e a cui la musica e le grida, anche udite fiocamente da lontano, fanno tristezza e dispetto. Essi vagano nelle parti deserte del campo, o stan seduti sull’orlo dei fossi, coi piedi a fior d’acqua, turbando con una verghetta di salice le sabbie e i sassolini del fondo; o se ne stanno sdraiati traversalmente dinanzi all’apertura della tenda, colla pipa spenta fra le dita, un gomito appoggiato a terra, la faccia nella palma della mano e lo sguardo estatico su quei bei nuvolotti colorati di fiamma viva dal sole caduto. Corrono cogli occhi la cresta di que’ monti e pensano a che ci abbia ad essere al di dietro: pianura; e poi? altri monti; e dietro a questi? un’altra volta piano; e avanti, avanti, per monti, per valli e per piani sconosciuti, immaginando, immaginando, finchè avvertono d’improvviso le note e care vette del proprio paese, e contemplano con un misto di tenerezza e di accoramento quel tramonto di sole che non han più veduto da tanto tempo. Poi, ad un tratto si scuotono, girano gli occhi all’intorno, par che s’accorgano in quel punto per la prima volta dove sono e in mezzo a chi sono, mandano un sospirone, dànno una crollatina di capo come per cacciare quel po’ di malinconia che comincia a farsi posto nel cuore, si rizzano in piedi, e via, di corsa, a imbrancarsi cogli altri, a fare il chiasso, che tanto struggersi il cuore per cose che non han rimedio non mette conto.
Ma non tutti quei solitari mutano pensiero; molti dei soldati più giovani, taluni dei più vecchi restan là tutta la sera, a pensare, a pensare, strappando ad uno ad uno i fili d’erba d’intorno. Alcuni, seduti colle gambe incrocicchiate a mo’ di turchi, vanno strofinando con un cencio la baionetta, o rammendano i panni, o attendono a qualche altra faccenduola, accompagnando il lavoro con un canterellar lento, monotono, mesto il più delle volte ne’ pensieri e nelle note. Altri dan di piglio allo zaino, vi spiegan sopra un foglio di carta con suvvi dipinto un soldatino in atto di partire per la guerra, o un gran core passato d’una gran freccia; si stendono a terra bocconi, e tirano fuori un mozzicone di penna rugginosa, e pigiano e rimestano la spugnetta filosa d’un calamaro risecchito, e, dopo aver guardato più volte la punta di ricontro alla luce e averla premuta più volte sull’ugna e aver passato e ripassato sul foglio la palma della mano e soffiatovi su ritraendo e allungando il collo a più riprese, scarabocchiano di gran paroloni storti e tiran giù di grandi aste serpeggianti, volgendo a volta a volta la faccia in su come per domandar al cielo l’ispirazione di quella tal parola, di quella tal frase che non ricordano più, ma che hanno letta di sicuro, lo giurerebbero, l’hanno letta in un libro stampato, non san più quale. Come i soldati così v’hanno gli uffiziali dall’umor triste e dall’animo repugnante alle gioie chiassose, i quali, o stanno seduti a cavalcioni delle loro cassette, dinanzi alla tenda, con un libro in mano, od errano negli angoli romiti del campo, in mezzo a quei soldati. — A chi scrivi? domanda un uffiziale, soffermandosi dietro a un soldato che scrive. A casa scrivi? — Sissignore, risponde questi puntando in terra il ginocchio per rizzarsi in piedi. — No, no, sta pure; tira innanzi. È tanto tempo che impari? — Quattro mesi. — Fa’ vedere. Non c’è male. Bravo. — E va oltre. Si sofferma dietro a un altro: — E tu a chi scrivi, a tuo padre? — Il soldato accenna di no, sorridendo. — A chi dunque, alla mamma? — Neppure. — A chi?... — Il soldato segue a ridere, piega la testa contro la spalla e con una mano aperta finge di giocherellare attorno al foglio per celarne la prima parola. — ...Ho capito, briccone. — E quei due soldati sono contenti; una parola bastò a metterli di buon umore; forse, più tardi, s’imbrancheranno a ballare anch’essi; e costa così poco una parola!
Guardate un po’ sulla via, guardate chi giunge. Be’, mi direte, un furiere che reca una borsa a tracolla, e con ciò? Aspettate. Aspettate che quell’uomo abbia posto piede nel campo, che qualcuno l’abbia scorto, che sia passata la voce della sua venuta, e vedrete, nel campo, che rimescolamento, che scompiglio, che clamori. Eccolo, egli entra, e si dirige a passi celeri e furtivi, guardando attorno sospettosamente, verso la tenda; cerca di passare inosservato per cacciarsi un momento là sotto a porre un po’ di sesto in quel guazzabuglio di carte, chè se no sarà un vero rompitesta a distribuirle. Ma invano. Un soldato lo scorge, si volge ai compagni e dà un grido di gioia: Lettere! — Lettere? si domanda all’intorno accorrendo e cercando cogli occhi qua e là. Dov’è? Dov’è? — È andato per di qua — No, per di lì — Ah, eccolo là. — Tutti si slanciano là. Intanto la novella è volata fino ai limiti estremi dei campo; da tutti i crocchi dei soldati se ne staccano ad un punto due, tre, quattro, e via di corsa, e corri, e corri, su, su, a chi giunge il primo, a chi carpisce il primo la lettera sperata..... Ma sì! il povero porta-lettere è già circondato, avvolto, pigiato, soffocato da una folla irrequieta e impaziente che agita in alto le braccia e tende le mani, e lo assorda con un ronzìo di voci supplichevoli, insistenti, e fluttuando fluttuando lo trasporta qua e là alla ventura; finchè da quella densa folla di braccia levate colle palme aperte si vanno staccando volta per volta due, tre, quattro mani stringenti convulsamente una lettera sgualcita, e via, sotto la tenda, a leggere in santa pace. E a poco a poco il serra-serra si dirada, la folla si riduce ad un gruppo, qualche testardo deluso resta ancora a insistere con voce lamentosa: — Ma per me, non c’è proprio niente per me? È impossibile; oh Dio mio, guardi meglio; mi faccia questo piacere. — Ma se dico che non c’è niente! Oh in nome del cielo, lasciatemi respirare una volta. — I pochi rimasti si sparpagliano lentamente col mento sul petto e le braccia spenzolate, e il porta-lettere, poveretto, respira, mette un gran soffio, e asciugandosi la fronte colla mano: — Sia lodato il cielo, è finita.
Lungo la sponda dello stradale, dalla parte del campo, una lunga schiera di curiosi, la più parte villani; uomini, donne, fanciulli, accorsi dal villaggio a contemplare quello spettacolo così novo e bizzarro. I fanciulli accosciati giù per la sponda del fosso; i padri e le madri ritti sull’orlo della via; le ragazze già grandicelle un passo più indietro. E gli uni e gli altri ad accennarsi col dito gli svariati episodi di quel gran quadro, e a sghignazzare del gridìo dei cantatori, e a commiserare i prigionieri, e a prorompere in accenti di meraviglia nel veder di que’ tali salti, e a compiangere con dei: — Poveretto! si sarà fatto male — i caduti, e a far di gran commenti sulla struttura delle tende e gli scompartimenti del campo, e a spiegarsi l’un coll’altro la disparità dei gradi argomentando dai galloni dei berretti e dandosi l’un l’altro sulla voce e pigliando la stizza..... Osservate: a tutti i punti della strada dove ci sono due o tre o un gruppo di contadinelle giovani e belloccie, corrisponde, nel campo, proprio sulla sponda opposta del fosso, un insolito spesseggiar di soldati, i quali, come in tutti gli uomini è costume quando sanno d’essere guardati da una donna, si danno e nei gesti, e nel portamento, e nelle parole, e fin nei minimi moti, fin ne’ più sfuggevoli cenni, uno studio, una ricercata scioltezza, un non so che di brioso e di spavaldo, un qualche cosa d’insolito, insomma; e quelle contadinotte a ridere e a ridere, e a coprirsi il volto col braccio, o a celarlo l’una dietro le spalle dell’altra, e a sparpagliarsi ridendo, e ridendo raggrupparsi, e a bisbigliarsi misteriose parole nell’orecchio, e qualche volta a farsi delle carezze fra loro pel maledetto gusto, vedete le astute, le civettuole, di fare che altri, in mirarle, si strugga di quelle carezze e se ne roda le dita. In un punto della strada è apparsa una brigatella di signorine, venute dalla villa là accanto, con certe vesticciuole scarse, mi capite, sottili, bianche, rosee, azzurrine, leggerissime, ondeggianti al più tenue alito di auretta, e tanto da costringere di tratto in tratto una manina dispettosa a posarvisi su, e a star là ferma un po’ di tempo per tenerle a dovere. Quelle signorine hanno il capo scoperto, e quel po’ d’aura che spira agita e scompone i lucidi ricciolini, e costringe a volta a volta un bracciotto bianco a levarsi e un ditino paziente a rimetter l’ordine ne’ bei capelli riottosi. E là presso, nel campo, v’è un crocchio di uffiziali che tirano certe saette d’occhiate rasente il suolo! — Oh venisse un soffio di vento. — Eccolo, comincia, cresce, passa, investe una gonnellina bianca, la solita mano non giunge in tempo a frenarla..... Oh il bel piedino! E quegli uffiziali sanno d’esser guardati, e ne profittano e come! E infatti, vedete, quello là, per dirne uno, il primo, il più vicino al fosso, non terrebbe la sciarpa con quella sprezzata eleganza e non n’avrebbe fatto scorrere l’anello per modo che l’un fiocco gli riuscisse sul fianco e l’altro gli scendesse al ginocchio; quell’altro là non caccierebbe in aria i nuvoli di fumo levando così fieramente in alto la testa e non terrebbe le gambe e le braccia così napoleonicamente atteggiate, e codest’altro non porterebbe così di frequente le mani sulla nuca per accertarsi che quel po’ di divisa che il colonnello concede non s’è ancora disfatta.
Intanto s’avanza giù per la strada e s’arresta dinanzi all’entrata del campo una famigliola del villaggio: un papà vecchiotto, arzillo, tarchiatello, grassoccio, una di quelle faccie di una volta, con due vele da bastimento fuor della cravatta e due ciuffoni di capelli bigi sulle tempia e un par di zampe elefantine dentro due scarpe di tela greggia e un randello nodoso sotto un’ascella; un quissimile di segretario comunale che vive in buona pace con tutti, e arcicontento di sè e dello spiccato genio aritmetico che cominciano a spiegare i bimbi alla scuola; — una buona cera di mamma sotto un cappello a forma d’elmo romano; — e tre ragazzi vestiti dei panni migliori, pettinati, unti, lisciati e lustrati, e ancor pieni il capo d’una lezioncella di galateo recitata in fretta dalla mamma nell’atto d’uscir dalla porta di casa. Sono vecchi amici del colonnello. Vedete che fortunato accidente ch’ei sia venuto a piantare il campo là, proprio là, accanto a casa loro! Il papà con un faccione tutto piacevole e con un tentativo di voce soave: — Signor soldato, domanda a una sentinella toccandosi la grande ala del grande cappello, — si potrebbe riverire il signor cavaliere — colonnello — comandante il reggimento? — La sentinella gli fa segno che passi e gli accenna colla mano la tenda del colonnello. Un barbone di zappatore corre ad annunziargli la visita. La famigliuola si fa innanzi a passo lento, rispettosa, circospetta; il colonnello esce, guarda, si ferma, aggrotta le ciglia come per distinguer meglio, guarda un momento al cielo come per riannodare le sparse reminiscenze di que’ volti, li ricorda, li riguarda, li riconosce, e spianando d’un tratto la fronte, e mandando fuori un oh! prolungato di sorpresa e di contentezza, s’avanza colle braccia tese e le palme aperte.... E lì, figuratevi, accoglienze ed inchini e domande e risposte affollate, e passar di palme sotto il mento ai bimbi, che son venuti su a occhiate, proprio, e si son fatti così bellini, e poi: — Eh, signora, esclama il colonnello per avviare un discorso qualunque, l’effettivo delle compagnie è forte, sa! Cento cinquant’uomini l’una, nientemeno; è un piacere. E che bel campo, eh? Lo vogliono vedere? Vogliono fare un giretto? — La famigliuola acconsente e ringrazia; il colonnello, dopo un po’ di riflessione, si pone al lato sinistro della signora, il marito al lato destro, i ragazzi avanti; la brigatella si muove. Tutti le fanno largo. Gli uffiziali la salutano. Un bisbiglio sommesso la precede; un bisbiglio sommesso la segue. E il colonnello, da quel rozzo e buon soldatone ch’egli è, costretto all’ingrato ufficio di cavaliere servente, dice alla signora: — Ecco, le vede là? Quelle son le marmitte della terza compagnia; quell’altre della quarta; codest’altre della quinta. Ella mi dirà che sono in cattivo stato, ed è vero; ma che vuole perchè.... — E le spiega il perchè. E la signora, in mezzo a quelle due ali di soldati, non sa dissimulare un po’ d’imbarazzo, un po’ di vergognetta; ma il papà, che sa di aver a fianco un colonnello, si sente maggior di se stesso, pover’uomo, e gira intorno sui soldati uno sguardo lungo, benigno, ridente, e ripete tratto tratto in accento di compiacenza e di ammirazione: Oh che bella gioventù! — Uno dei ragazzi si accosta alla mamma, e appuntando il ditino verso il colonnello le chiede: — Ma chi è quel soldato là? — Taci, ella risponde sommessamente, è quello che comanda a tutti i soldati che son qui. — E se volesse, ripete il bimbo, potrebbe far tagliare la testa a tutti?
La musica! la musica! si grida all’improvviso in ogni parte del campo. Di fatti i musicanti sono usciti ad uno ad uno fuor delle tende, si son radunati, si son mossi verso il mezzo del campo, si sono schierati in circolo e stanno aspettando un cenno del capo-banda tenendo fra le dita gli strumenti in atto di recarli alla bocca. In meno che non si dice, s’è affollata attorno a loro una moltitudine immensa, mezzo il reggimento; s’è levato uno strepito assordante, alte grida di gioia, e scoppi di battimani e canti e fischi; i ballerini più furiosi fendono la calca a pugni e a spintoni, si cercano, si chiamano ad alte grida, si slanciano l’un contro l’altro e, puntando le palme nei petti, dando dei fianchi nelle pancie, e dei piedi sulle punte dei piedi, riescono ad aprire un circolo; le coppie si preparano, i ballerini afferrano colla destra una manata di camicia nella schiena alle danzatrici (magari che le fossero), incrocicchiano le dita della mano manca colle dita della loro destra, mettono innanzi il piè sinistro, piegan le ginocchia, volgono la faccia al capo-musica: — Sicchè, soniamo sì o no? — Le coppie s’impazientano, pestano i piedi, stringono i pugni, si scontorcono, sbuffano, strillano; il capo-musica fa un cenno col dito, gli strumenti si attaccano alle bocche, le lingue si protendono e danno una leccatina alle labbra, di sotto e di sopra; — un altro cenno — e, si suona.
Le coppie sono in moto, girano, rigirano, si rasentano, s’incontrano, si urtano, si sbalzano a destra, a sinistra, avanti, indietro, le schiene contro le schiene, i fianchi contro i fianchi, le calcagna sui calli, via, alla cieca, alla pazza, ove si va si va, ove si cade si cade, ci ha da esser posto per tutti, se non c’è si fa, a urtoni, a pedate, e spingi, e pigia, e barcolla, e strilla, e sghignazza; in un minuto l’erba del suolo è sparita sotto i passi pesanti, il terreno si è smosso, le coppie si sono scambiate, confuse, o rotte, o aggruppate; altre caddero bocconi a terra, e i danzatori vi passarono su, o v’inciamparono e precipitarono anch’essi; altre furono sbalzate in mezzo alla folla circostante; ma, in mezzo a quel guazzabuglio, il lombardo continua a danzare imperturbato con quel suo molleggiamento di fianchi, con quei suoi contorcimenti di capo e di spalle e quelli incrociamenti di gambe e quel piegar improvviso di ginocchia come fosse in punto di cadere e improvviso rizzarsi come per iscatto di molla; e il piemontese tira innanzi impassibile, rigido, grave, e piglia la cosa sul serio, e ci si scalda, e ci si mette d’impegno, e fa pompa anch’esso delle sue grazie robuste; e i calabresi, due a due, l’uno di faccia all’altro, col collo torto, le braccia aperte, e la faccia atteggiata a certe smorfie grottesche, ringalluzziti, ricurvi, seguitano a raspar la terra rapidamente, rapidamente.....
Che è? Che avvenne?
Nel campo s’è fatto un silenzio improvviso, profondo; tutte le faccie si son volte da una parte; chi giaceva a terra s’è alzato; chi era ai limiti estremi del campo è accorso verso il mezzo; sotto la baracca del vivandiere, gli avventori si son rizzati in piedi sulle tavole e sui banchi; altri sono saliti sui carri; tutti sono usciti dalla tenda. — Che è? Che avvenne?
Guardate sulla via. Avvolto in un nuvolo di polvere s’avanza, al galoppo, un cavaliere. È presso all’entrata; entra; si dirige verso la tenda del colonnello; s’arresta. Il colonnello esce; il cavaliere saluta, porge un foglio, volge la groppa e via di carriera.
Tutti stanno cogli occhi rivolti là, attoniti, muti; si direbbe che i respiri sono sospesi; il campo rende l’immagine d’una di quelle piazze gremite di popolo intorno a un foco d’artificio quando un bagliore improvviso di bengala illumina una superficie immensa di facce cogli occhi spalancati e le bocche aperte.
Il colonnello chiude il foglio, si volge al trombettiere, fa un cenno....
Prima ancora che eccheggi lo squillo, un prolungato, universale, altissimo grido, come uno scoppio fragoroso di tuono, si eleva al cielo da ogni parte del campo; tutta quella moltitudine sparsa si rimescola in tutti i sensi con una rapidità vertiginosa; le panche e le tavole del vivandiere, in un attimo, son deserte; il pover uomo si caccia le mani nei capelli; presto, giù la tenda, fuori le casse, dentro a furia piatti, cavoli salami, bottiglie, panni, polli, sigari, alla rinfusa, non monta; ma presto, il tempo incalza, un altro squillo di tromba è imminente; gli uffiziali girano pel campo di corsa chiamando ad alta voce le ordinanze che giungono affannate e trafelanti. Svelti, mano alle cassette; giù dentro la roba; gli stivali sulle camicie, i pettini nella tunica, non importa, pur di far presto. La cassetta non si può chiudere; giù il ginocchio sul coperchio, — forza — forza — ancora, auf! è chiusa. Presto ad arrotolare il pastrano; qua la tunica, la sciabola, la borsa; presto; siamo in ordine, meno male. — E i soldati attorno alle tende, a scioglier coll’ugne i nodi delle cordicelle, ad arrotolar le coperte e le tele, a riempir gli zaini a furia, ad abbottonar le ghette con quelle maledette dita convulse che non trovano gli occhielli, a tastar bocconi la paglia in cerca della catenella, della nappina, della baionetta, col viso rosso, colla fronte stillante di sudore, col respiro affannoso, colla febbre addosso dalla paura del secondo squillo di tromba, colla voce del sergente alle spalle che minaccia la prigione a chi tarda, con dinanzi lo spauracchio del capitano che pesta i piedi, che strilla, che strepita: presto, presto, presto! Un altro squillo di tromba. In rango! urlano cento voci concitate da tutte le parti. Tutti accorrono così come si trovano, col cheppì sul cocuzzolo, col cappotto sbottonato, col cinturino in mano, collo zaino penzoloni sur una spalla; a posto, presto, in ordine, allineati a destra; le compagnie si schierano tumultuariamente, si rompono e si allargano ad ogni nuovo sopraggiunger di soldati, poi si ristringono, fanno pancia avanti e indietro, serpeggiano dall’un capo all’altro, si scompigliano, si riordinano con rapida vicenda... Un altro squillo di tromba. Il reggimento parte. La prima compagnia è fuor del campo, — la seconda — la terza.... il campo è vuoto.
Ecco la vita del campo; dura talvolta e disagiosa; ma sempre bella, sempre cara. Chi v’ha che l’abbia fatta e non l’ami, e non la ricordi con diletto, e non la desideri con entusiasmo?