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il campo. 247

e tracannandone il vinaccio a lunghi sorsi; e poi un agitar di berretti a dimostrazione di gioia, e un battersi reciproco delle palme sul dorso, e un gridare acuto e ringhioso: Evviva la biondaaa! con certi ghigni, con un cerio scimiesco raggrinzar di naso, con certi atteggiamenti di satiri. Intorno ai cori dalle voci più armoniose e concordi, un piccolo circolo di spettatori, e in mezzo a que’ cori un direttore che segna la cadenza col dito, e fa vergogna a chi stona, e piglia la sua parte sul serio e fa un viso tutto modesto girando l’occhio intorno all’uditorio che si va ingrossando.

Ma vi son pure i solitari, i malinconici, che vanno lungi da quel baccano, da quella festa, e a cui la musica e le grida, anche udite fiocamente da lontano, fanno tristezza e dispetto. Essi vagano nelle parti deserte del campo, o stan seduti sull’orlo dei fossi, coi piedi a fior d’acqua, turbando con una verghetta di salice le sabbie e i sassolini del fondo; o se ne stanno sdraiati traversalmente dinanzi all’apertura della tenda, colla pipa spenta fra le dita, un gomito appoggiato a terra, la faccia nella palma della mano e lo sguardo estatico su quei bei nuvolotti colorati di fiamma viva dal sole caduto. Corrono cogli occhi la cresta di que’ monti e pensano a che ci abbia ad essere al di dietro: pianura; e poi? altri monti; e dietro a questi? un’altra volta piano; e avanti, avanti, per monti, per valli e per piani sconosciuti, immaginando, immaginando, finchè avvertono d’improvviso le note e care vette del proprio paese, e contemplano con un misto di tenerezza e di accoramento quel tramonto di sole che non han più veduto da tanto tempo. Poi, ad un tratto si scuotono, girano gli occhi all’intorno, par che s’accorgano in quel punto per la prima volta dove sono e in mezzo a chi sono, mandano un sospirone, dànno una