chiato un de’ soldati più lesti: — A te, gli disse, via lo
zipolo e mesci. — Tutti gli si fanno addosso tendendo
gamellini, borraccie e bicchieri. — Un momento, per Dio;
levatevi di lì, fatevi indietro, aspettate. — Tutti si ritraggono
indietro. E mentre il soldato s’adopra a sturare
la botticella ingegnandosi coll’ugne e colla punta
della baionetta, e il capitano sta là curvo colle mani
appoggiate sulle ginocchia a sorvegliare l’operazione,
tutti gli altri, ritrattisi indietro, smozzicano fra’ denti
delle risate di gusto, e si stropicciano le mani piegando
e stringendo le ginocchia e inarcando la schiena, e si
fan l’un l’altro certi segni taciti, certi visi, certe smorfie
buffonesche, e si toccano l’un l’altro col gomito accennandosi
col capo e con un chiuder di occhi furbesco
quell’insolito apparato, e si passano il rovescio della
mano sulla bocca come per prepararla a gustare intera
la voluttà di quel nettare senz’altro umore profano sul
labbro, e si scambiano dei pizzicotti furtivi, e si fregano
l’un l’altro spalla contro spalla, e ad un tratto — il capitano
s’è vôlto — tutti dritti, fermi, duri, seri, tanto per
non parere che van pazzi per due goccie di vino. Il capitano
fa cenno che si accostino; essi s’accalcano; lo zipolo
è tolto; una grossa vena porporina, gorgogliando,
prorompe; dieci gamellini stan sotto a raccoglierla; dopo
questi dieci altri, e poi altri dieci, e via così. E giù, in
corpo, a ondate. — Tocchiamo? domanda una voce.
Tocchiamo! rispondono venti altre. I gamellini si levano
al di sopra delle teste, si movono, girano e rigirano, si
urtano, il vino trabocca e si sparge sulle teste, sulle
faccie, sulle mani e colora giubbe e farsetti, e sgocciola
dappertutto; ma che monta? Viva l’allegria, viva il sor
capitano! esclama a mezza voce uno dei più arditi già
mezzo convinto di aver fatto una corbelleria. — Viva!
rispondono gli altri in coro. — Tacete, per Dio! grida