La poesia cavalleresca e scritti vari/Scritti vari/I. Frammenti letterari/III. Pietro Metastasio
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III
PIETRO METASTASIO
L’uomo che rappresenta lo stato di transizione fra la vecchia e la nuova letteratura italiana, è Metastasio. L’antica letteratura non essendo oramai piú che forma cantabile e musicabile, ha come sua ultima espressione il dramma in musica, dove non è piú fine, ma mezzo, è melodia e serve alla musica. Ma non vi si rassegna e vuol conservare la sua importanza, rimanere letteratura. Quest’ultima forma della vecchia letteratura è Metastasio.
Dal Tasso al Metastasio ci era giá in Italia il sentimento vago che la letteratura era invecchiata, e che una riforma fosse necessaria. Alcuni cercarono novitá negli argomenti, altri negli intrecci delle strofe, altri in modi piú variati di versificazione, lutti, avendo alle mani un repertorio giá vecchio di concetti e d’immagini, si studiavano di darci almeno novitá di espressione, raffinando e aguzzando. Da quest’ultimo sforzo letterario del cervello italiano usci l’Aminta, il Pastor Fido e l’Adone. Qui la forma si fa valere infinitamente piú che il suo contenuto, essendo tutto l’interesse non nel che, ma nel come, nel valore dell’espressione. Appunto perché l’espressione fa stacco, ha un valore per se stessa; non è piú forma, non è piú fusione, non è espressione che riceva il suo significato e la sua importanza dalla cosa espressa, ma è un semplice mezzo meccanico, divenuto fine a se stesso. Il contenuto ci sta non per sé, ma per la parola; non è scopo, è un’occasione a mettere in mostra la parola. Fenomeno che accompagna sempre ogni decadenza letteraria, quando il contenuto è esaurito, ma non è esaurito ancora lo spirito che ci lavora attorno, il quale nella piena indifferenza del contenuto adopera la sua forza intorno all’espressione. Abbondano i concetti, le descrizioni, le amplificazioni, le cadenze e le cantilene. La parola, lavorata non come espressione, ma come parola, sviluppa i suoi mezzi cantabili e musicali, è vuota sonoritá, un bel suono. Questo che parve allora una riforma, fu stimata piú tardi una corruzione, rimasta proverbiale sotto nome di seicentismo.
Metastasio visse dal 1698 al 1782. La sua vita riempie quasi tutto il secolo XVIII, il secolo di Voltaire e di Rousseau, di Parini e di Alfieri, di Vico e di Beccaria. In questo secolo immortale fu la crisi del pensiero moderno, che condensato e formulato giunse allora al suo massimo grado di energia e di diffusione. Uno spirito nuovo penetrava in tutte le forme dell’attivitá umana, religione, filosofia, politica, morale, economia, legislazione, letteratura. Il motto del secolo era: riforma. E l’impulso fu cosí potente che i principi stessi si fecero capi delle riforme, Federico II, Maria Teresa, Giuseppe II, Caterina di Russia, Carlo Emanuele di Savoia, Leopoldo di Toscana, Carlo III e Ferdinando di Napoli, e fino papa Ganganelli, che al nuovo Iddio offerse in olocausto i gesuiti. Beccaria, Verri, Vico, Giannone, Genovesi, Filangieri, Galiani, Gioia, erano riformatori, o come si dicea, novatori. In quel rapido movimento d’idee fu tratta anche la letteratura, e i piú celebri scrittori si atteggiarono a riformatori. Carlo Goldoni tentava una riforma della commedia, e una riforma della farsa popolare tentava Carlo Gozzi. Vincenzo Gravina voleva riformare la tragedia, come piú tardi tentarono Scipione Maffei e Alfieri; Parini tentò una riforma della lirica. L’Arcadia non era ella medesima che una riforma letteraria, una lega degli uomini di buon senso contro le stravaganze del seicentismo. La critica fu penetrata dello stesso spirito. Il Gravina nella Ragion poetica poneva in quistione tutti i principi dell’arte generalmente ammessi; il Bettinelli nelle Lettere virgiliane metteva in discussione Dante in persona; e il Baretti, venuto fresco d’Inghilterra, e pieno il capo di Shakespeare e di Milton, menava attorno la frusta su’ seicentisti, sugli arcadi e su’ riformatori.
Tra questa fermentazione letteraria, filosofica, politica, visse Metastasio. Vincenzo Gravina che lo raccolse di strada e lo educò con amore di padre, era un riformatore come giureconsulto e come letterato. Voleva richiamare lo studio delle leggi alle fonti romane, e tentò una filosofia del dritto. E parimente voleva ritirare l’arte alla greca semplicitá, purgandola della corruzione seicentistica, e scrisse una teoria dell’arte che chiamò Ragion poetica. Accompagnando il precetto con l’esempio, scrisse tragedie a modo di Sofocle, studiando brevitá e semplicitá. Il buon uomo vedea il male, ma non le sue cause e non i suoi rimedii. La semplicitá è la forma della vera grandezza, di una grandezza inconscia e divenuta natura. Niente era piú contrario al secolo manierato e pretensioso al di fuori, vacuo al di dentro. Per combattere il manierismo Gravina soppresse il colorito, e vi supplí con la copia delle sentenze morali e filosofiche. L’intenzione era buona: parea volesse dire: cose e non parole. Né altra è la tendenza della sua Ragion poetica, dove il vero è rappresentato come sostanza dell’arte, e il vero ignudo, non condito in molli versi. Cosi, volendo esser semplice, riuscí arido. La teoria non era nuova, anzi era la vecchia teoria di Dante ringiovanita dal Tasso; ma parve nuova in un tempo che lo sforzo dell’ingegno era tutto intorno alla frase. La prima e naturale idea che sorge ne’ tempi corrotti è la ristorazione dell’antico, parendo quella corruzione non essere altro che una deviazione. Un certo rilassamento ci era negli studi e li pareva essere la radice del male. Ristaurare i buoni studii e le buone dottrine e i buoni esempi, castigare l’immaginazione, disciplinare l’affetto, questi erano i rimedii proposti dal nostro giureconsulto, da’ quali usci la grande riforma che ebbe nome dall’Arcadia. Metastasio fu educato secondo queste idee. Il severo pedagogo gli proibi la lettura del Tasso e de’ poeti posteriori, lo ammaestrò di buon’ora nel greco e nel latino, e lo volse allo studio delle leggi, vagheggiando se stesso redivivo in un Metastasio giureconsulto e letterato. Questa educazione classica non gli fu inutile, perché lo avvezzò alla naturalezza e alla semplicitá, e lo nutrí di buoni esempi e di soda dottrina. Ma morto il Gravina e abbandonato a se stesso, si sviluppò in lui, come in tutti quelli che hanno ingegno, il senso della vita contemporanea. E si gittò avidamente sul frutto proibito, e la Gerusalemme Liberata, l’Aminta, il Pastor Fido, soprattutto l’Adone furono il suo cibo. Il maestro volea farne un poeta tragico a uso greco, o piuttosto a uso suo. Ma la tragedia non era la sua vocazione, e l’autore del Giustino preferí Ovidio a Sofocle, e come era moda, cominciò la sua vita poetica in Arcadia con sonetti, canzonette, idilli, i cui eroi d’obbligo erano Cloe, Nice, Fille, Tirsi, Irene e Titiro. Il Sogno della Gloria è l’ultimo suo lavoro a uso Gravina, ammassato di sentenze che sono luoghi comuni, e pieno di reminiscenze classiche e dantesche. Ma nel Ritorno della Primavera, scritto l’anno appresso, il 1719, scorgi giá vestigi dell’Adone e dell’Aminta, facilmente impressi in anima ricca di armonie e d’immagini. L’ideale del tempo era 1 ’ idillio, il riposo e l’innocenza della vita campestre, in antitesi alla vita sociale, cosí come l’avevano sviluppato il Tasso, il Guarini e il Marino. L’idillio era un certo equilibrio interiore, uno stato di pace e di soddisfazione, a cui era salsa il dolore. L’Arcadia, volendo riformare il gusto, avea tolto all’idillio quella tensione intellettuale, che si chiamava il seicentismo, sí che la forma era rimasta una pura effusione musicale dell’anima beatamente oziosa, cullata da molli cadenze fra l’elegiaco e il voluttuoso: ciò che dicevasi melodia. La musica penetrava giá in questa forma cosí apparecchiata a riceverla, e la canzone diveniva la canzonetta, la cantata e l’arietta, e il dramma pastorale diveniva il dramma in musica. Le canzonette del Rolli erano in molta voga, ma giá si disputava quali ne facesse di migliori, o il Metastasio o il Rolli. Sciupata l’ereditá del Gravina, il nostro Metastasio, visto che l’Arcadia non gli dava pane, ricordò i consigli del maestro e andò a Napoli col proposito di far l’avvocato. Ma Napoli era giá il paese della musica e del canto. E le sue arringhe furono cantate ed epitalamii, e l’avvocato divenne un poeta di nozze, molto vantato, e spesso invitato nelle case signorili. Restano di lui tre epitalamii, e sono storie mitologiche e idilliche, dov’è visibile l’imitazione del Tasso e del Marino. Uno è per le nozze di Antonio Pignatelli e Anna de’ Sangro, e vi si raccontano gli amori di Venere e Marte, a’ quali s’intrecciano gli amori degli sposi, e naturalmente Anna è Venere, e Antonio è Marte. Vi trovi il monte dell’Amore che ricorda il giardino di Armida, e tutto il vecchio repertorio mitologico, immagini e concetti. Ecco come Anna è descritta:
Se in giro in liete danze il passo mena, Se tace o ride, o se favella o canta. Porta in ogni suo moto Amore accolto, Pallade in seno e Citerea nel volto. Vicino al lato suo siedono al paro Con la dolce consorte il genitore, Coppia gentil d’illustre sangue e chiaro. Vivi esempli di senno e di valore; Alme che prima in ciel si vagheggiaro, E poi quaggiú le ricongiunse Amore; E dier tal frutto che non vede il sole Piú nobil pianta e piú leggiadra prole. |
La voce pria nel molle petto accolta Con maestra ragion spigne o sospende; Ora in rapide fughe e in groppi avvolta Velocissimamente in alto ascende; Ora in placido corso e piú disciolta Soavissimamente in giú discende; I momenti misura, annoda e parte, E talor sembra fallo ed è tutt’arte. |
Torna, torna ad amarmi e ti perdono. Aurette leggiere. Che intorno volate, Tacete, fermate, Che torna il mio ben. |
Io dico all’antro: addio. Ma quello al pianto mio Sento che mormorando Addio, risponde. Sospiro e i miei sospiri, Ne’ replicati giri, Zeffiro rende a me Da quelle fronde. |
Ombre amene, Amiche piante, Il mio bene. Il caro amante. Chi mi dice ove ne andò? |
Zeffiretto lusinghiero, A lui vola messaggiero. Di che torni, e che mi renda Quella pace che non ho. |
La mia bella Pastorella Chi mi dice ove ne andò? |
Fin qui Metastasio non è che un Arcade, ma superiore a tutt’i suoi confratelli per fluiditá e brio di esecuzione. Il discepolo di Gravina non v’è piú. Dante e Sofocle non sono piú i suoi modelli. Trovi in lui la mollezza e facilitá del Marino, e un artificio di stile che ricorda il Tasso. Vuol piacere al pubblico, e la vita contemporanea lo trascina seco. Se non che quegli effetti che il Tasso, il Guarini, il Marino cercavano ne’ concètti, nel raffinamento dell’idea, egli li cerca nel raffinamento musicale della forma. Le sue idee le sue immagini sono naturalissime, spesso comuni; tutta la sua attenzione è in ammollire la parola e la frase, cavarne effetti musicali. Qui era il suo genio, e qui gli bisognava nuova educazione.
La Bulgarelli, celebre cantante, che negli Orti esperidi aveva rappresentata la parte di Venere, prese interesse al giovine autore e lo addestrò in tutti i misteri del teatro. Il maestro Porpora gl’insegnò la musica. Questa fu la seconda educazione di Metastasio, corrispondente alla sua vocazione. Roma ne avea fatto un arcade, Napoli ne fece un poeta. La Didone abbandonata scritta sotto l’ispirazione e la guida della Bulgarelli, fissò l’opinione, e Metastasio prese posto d’un tratto accanto ad Apostolo Zeno, che tenea il primato, poeta cesareo alla Corte di Vienna. Piú tardi, a proposta dello stesso Zeno, occupò egli quell’ufficio, e menò a Vienna vita pacifica e agiata, universalmente stimato e tenuto senza contrasto principe della poesia melodrammatica. La sua vita fu un idillio, e se questo è felicitá, visse felicissimo sino alla tarda etá di ottantaquattro anni. Vivo ancora, fu divinizzato. Lo chiamavano il divino Metastasio, e molti lo ponevano innanzi a Dante.
Se guardiamo al meccanismo, il suo dramma è congegnato a quel modo che avea giá mostrato Apostolo Zeno. Ma il meccanismo non è che la semplice ossatura. Metastasio spirò in quello scheletro le grazie e le veneri di una vita lieta e armoniosa. E fu il poeta del melodramma, di cui lo Zeno era stato l’architetto.
La sua idea fissa fu di costruire il melodramma come fosse una tragedia, tale cioè che avesse un valore letterario, e anche senz’accompagnamento della musica producesse il suo effetto. Lasciò le basse regioni dell’idillio e del buffo, e tentò i piú nobili argomenti del genere tragico, come se la nobiltá fosse nell’argomento. Questo giá si vede nella Didone e nel Catone. Piú tardi volle gareggiare co’ grandi poeti francesi, e il Cinna di Corneille ebbe il suo riscontro nella Clemenza di Tito, e l’Atalia di Racine nel suo Gioas. Su questa via porse il fianco alla critica, e sorsero dispute, se e fino a qual punto i suoi drammi fossero tragedie. Ed ecco in mezzo l’inevitabile Aristotile e le famose quistioni delle unitá drammatiche. Metastasio si mescolò nella contesa, e nell’Estratto della Poetica d’Aristotile addusse indirettamente argomenti in suo favore. La critica era ancora cosí impastoiata nell’esterno meccanismo, che molti seriamente domandarono, come potesse esser tragedia un dramma che aveva soli tre atti. Metastasio ci teneva a esser chiamato poeta tragico, parendogli quasi una degradazione a esser relegato fra’ melodrammatici. Pregiudizio istillatogli dal Gravina, che non vedea piú lá della tragedia classica. La Merope del Maffei, che allora levava molto rumore, destava la sua emulazione, e noi lasciava dormire la gloria di Corneille e di Racine. Amava meglio essere a paro con quei sommi, che essere unico nel suo genere. E fu appagato. Ranieri de’ Calsabigi, celebre per la polemica ch’ebbe poi con Alfieri intorno al Filippo, sosteneva che quei drammi fossero proprie e vere tragedie. E nella medaglia che dopo la sua morte i Martinez fecero incidere in suo onore, si leggeva questo motto: Sophocli Italo. Ma il pubblico che lo idolatrava, ci capiva poco in queste discussioni, e si ostinò a chiamare le sue opere teatrali non tragedie, e neppur melodrammi, ma drammi, nome nuovo e generico che esprimeva le sue nuove impressioni ed aveva la sua importanza anche fuori della musica. E il pubblico non aveva torto, a voler giudicare dalla essenza stessa di questa poesia giá penetrata e trasformata dalla musica, ma che si fa ancora valere come poesia. Stato di transizione, che dá una fisonomia tutta sua al nostro Sofocle. Piú tardi, quei drammi, come letteratura, paiono troppo musicali, e ne nasce la reazione di Alfieri, e come musica, paiono troppo letterarii, e ne nasce la reazione del melodramma in due atti. Si potrebbe conchiudere che perciò appunto quei drammi non sono cosa perfetta, troppo musicali come poesia, e troppo poetici come musica, perciò abbandonati dalla musica e dalla letteratura. Il che avviene facilmente ne’ tempi di transizione a chi sta tra due, e non ha chiara coscienza di quello che vuol fare.
Certo è che quei drammi ebbero al lor tempo un successo maraviglioso, e che anche oggi, in una societá cosí profondamente mutata, producono il loro effetto. È noto l’entusiasmo di Rousseau e l’ammirazione di Voltaire per questo poeta. In Italia i critici, dopo un breve armeggiare, tratti dall’onda popolare, gli s’inchinarono. Certi luoghi che fanno sorridere il critico, movono oggi ancora il popolo, gli tirano applausi. Nessun poeta è stato cosí popolare, nessuno è penetrato cosí intimamente nello spirito delle moltitudini. Le sue strofe le senti ne’ piú piccoli villaggi in bocca alla gente piú inculta. E le quistioni spesso si sciolgono con una sua arietta sputata come vangelo. C’è dunque ne’ suoi drammi un valore assoluto, superiore alle occasioni e resistente alla stessa critica dissolvente e malevola del nostro secolo.
Gli è che quella sua oscura coscienza, quel distacco tra quello che vuol fare e quello che fa, quella poesia che non è ancora musica e non è piú poesia, è non capriccio, pregiudizio o pedanteria individuale, ma la forma stessa del suo genio e del suo tempo. Perciò non è costruzione artificiosa, come la tragedia del Gravina o il poema del Trissino, ma è composizione piena di vita, che nella sua spontaneitá produce risultati superiori all’intenzione dell’artista. Ciò che egli vi mette con intenzione e con coscienza, non è il pregio, è il difetto del lavoro, non è la sostanza, è l’accidente. E intorno a questo difetto e a questo accidente battagliavano lui e i critici.
Se vogliamo gustarlo, facciamo come il popolo. Non domandiamo cosa ha voluto fare, ma cosa ha fatto, e abbandoniamoci alla schiettezza delle nostre impressioni. Anche il critico, se vuol ben giudicare, dee abbandonarsi alla sua spontaneitá, come l’artista. E la schietta impressione di un lavoro d’arte nasce non dal suo meccanismo, e nemmeno dai concetti logici, come sarebbero la coerenza, la verisimiglianza e la ragionevolezza di un mondo poetico, ma dall’intima fusione e vivacitá de’ suoi elementi organici. In questo è la sostanzialitá di un mondo poetico; tutto l’altro è accidente, e può esser degno di lode o di biasimo, senza che ciò importi al giudizio definitivo del lavoro.
Prendiamo il primo suo dramma, la Didone abbandonata. Volea fare una tragedia. Studiò l’argomento in Virgilio e piú in Ovidio. Metastasio immaginava che fare una tragedia fosse cosa meccanica, una certa costruzione secondo certe regole, e non pensava che alla sua societá e a lui stesso mancava la stoffa, da cui può uscire una tragedia. Fare una tragedia con la Bulgarelli consigliera, con maestro Porpora direttore, con quel Sarro compositore, e col pubblico dell’Angelica e degli Orti esperidi, e in presenza della sua anima, elegiaca, idillica, melodica, impressionabile e superficiale, come il suo pubblico! Ne usci non una tragedia, che sarebbe stata una pedanteria nata-morta, ma un capolavoro, tutto caldo della vita ch’era in lui e intorno a lui, e che anche oggi si legge con aviditá, si divora da un capo all’altro. La Didone virgiliana è sfumata. Le reminiscenze classiche sono soverchiate da impressioni fresche e contemporanee. Sotto nome di Didone qui trovi l’Armida del Tasso, messa in musica. La donna olimpica o paradisiaca qui cede il posto alla donna terrena come l’ha abbozzata il Tasso in questa delle sue creazioni la piú popolare, una vera orchestra da cui scappan fuori i piú varii e concitati suoni della passione femminile, tenerezze, malizie, smanie, furori. Ma è un’Armida col comento della Bulgarelli, alla cui ispirazione appartengono i momenti comici, penetrati in questa natura appassionata, com’è nella scena della gelosia, applauditissima alla rappresentazione. Una Didone cosí fatta non ha niente di classico; qui non ci è Virgilio e non ci è Sofocle; tutto è vivo, tutto è contemporaneo. La passione dell’Armida cartaginese non ha semplicitá e non ha misura, e nella sua violenza rompe ogni freno, ogni decoro. Se in Didone fosse eminente il patriottismo, il pudore, la dignitá di regina, l’amore de’ suoi, la pietá verso gl’Iddii, se in lei fosse piú accentuata l’eroina, il contrasto sarebbe drammatico, altamente tragico. Ma l’eroina c’è a parole, e la donna è il tutto: la passione, unica dominatrice, diviene come una pazzia del cuore, cinica e sfrontata sino al grottesco, e scende tutte le scale della vita sino alle piú basse regioni della commedia. Al buon Pindemonte dánno fastidio alcuni tratti comici, e non vede che sotto forme tragiche la situazione è comica, sicché se in ultimo Enea si potesse rappattumare con l’amata, sarebbe il dramma con lievi mutazioni una commedia. E non giá una commedia costruita artificialmente, ma colta dal vero, perché è in fondo la donna, come poteva esser concepita in quel tempo, ispirata dalla Bulgarelli e da quel pubblico nell’anima conforme del poeta, e contro le sue intenzioni e senza sua coscienza. A Metastasio che voleva fare una tragedia, dire che aveva partorito una commedia, gli sarebbe parsa una bestemmia. Il comico è in quei si e no della passione, in quei movimenti subitanei, irrefrenabili che scoppiano improvvisi e contro l’aspettazione, nell’irragionevole spinto sino all’assurdo, negl’intrighi e nelle scaltrezze di bassa lega, piú da donnetta che da regina, e tutto cosí a proposito, cosí naturale, con tanta vivacitá, che il pubblico ride e applaude, come volesse dire: è vero. Le prime rappresentazioni furono per il poeta un trionfo. Alcuni motti rimasero proverbiali, come: Temerario, ch’ei venga!, quando allora allora avea detto: Mai piú non mi vedrá quell’alma rea, o come: Passato è il tempo. Enea, che Dido a te pensò. La sua sortita contro Arbace, quasi nello stesso punto che gli aveva promesso la sua mano, quel cacciar via da sé Osmida e Selene nella cecitá del suo furore, le sue credulitá, le sue dissimulazioni, le sue astuzie, tutto ciò è tanto piú comico, quanto è meno intenzionale, contemperato co’ moti piú variati di un’anima impressionabile e subitanea, sdegni che sono tenerezze, e minacce che sono carezze. Ci è della Lisetta e della Colombina sotto a quel regio manto. E tutto il quadro è conforme. Iarba con le sue vanterie e le sue pose rasenta il bravo della commedia popolare; Selene ch’è l’Anna soror mea, rappresenta la parte della patita, con molta insipidezza, e il pio Enea nella sua parte di amoroso attinge il piú alto comico, massime quando Didone lo costringe a tenerle la candela. Il nodo stesso dell’azione ha l’aria di un intrigo di bassa commedia, co’ suoi equivoci e i suoi incontri fortuiti.
La Didone fece il giro de’ teatri italiani. E dappertutto piacque. Metastasio indovinava il suo pubblico e trovava se stesso. Quel suo dramma a superficie tragica, a fondo comico, coglieva la vita italiana nel piú intimo, in quel suo contrasto tra il grandioso del di fuori e la vacuitá del di dentro. Il tragico non era elevazione dell’anima, ma una semplice fonte del maraviglioso, cosí piacevole alla plebe, come incendii, duelli, suicidii, assassinii. Il comico riconduceva quelle magnifiche apparenze di una vita fantastica nella prosaica e volgare realtá, piccoli intrighi, amori pettegoli, stizze, braverie. Concordare elementi cosí disparati, fondere insieme fantastico e reale, tragico e comico sembra poco meno che impossibile; pure qui è fatto con una facilitá piena di brio e senza alcuna coscienza, com’è la vita nella sua spontaneitá. L’illusione è perfetta. Una vita cosí fatta pare un’assurditá, pure è lá, fresca, giovane, vivace, armonica, e t’investe e ti trascina. Il povero Metastasio, inconscio del grande miracolo, si difendeva con Aristotile e con Orazio, e disputava della tragedia e delle unitá e delle regole drammatiche; alle vecchie critiche si aggiunsero le nuove, e censurarono il suo mondo poetico come convenzionale ed incoerente. Ma esso è lá, nella sua giovinezza immortale, e gli basta rispondere: — Io vivo. — E se l’estetica non l’intende, tantopeggio per l’estetica.
Metastasio avea tutte le qualitá a produrre quella vita. Brav’uomo, buon cristiano, nel suo mondo interiore ci erano tutte le virtú, ma in quel modo tradizionale e abituale ch’era possibile allora, senza frode, senza energia, senza elevatezza di animo, perciò senza musica e senza poesia. Cosi erano Vico e Muratori, bonissima gente, ma privi di quella fiamma interiore, dove si scalda il genio del filosofo e del poeta. Erano personaggi idillici, veneranda immagine di una societá tranquilla e prosaica. Vico agitava i piú grandi problemi sociali con la calma di un erudito. Ci era un non so che di nuovo nel loro spirito, che metteva in moto il cervello, e finiva 11, e non penetrava nel carattere, rimasto arcadico e idillico. Si comprende come la poesia si cercasse in quel tempo fuori della societá, nell’etá dell’oro e nella vita pastorale. Ma nessuno può fuggire alla vita che lo circonda. Patria, religione, amore, onore, libertá operavano in quella vita campestre, come in quella societá pacifica e contenta, con perfetto riposo ed equilibrio dell’anima. Metastasio che cercava la tragedia con la testa, era per il carattere un arcade, tutto Nice e Tirsi, tutto sospiri e tenerezze. Da questa natura idillica poteva uscire l’elegia, non la tragedia. Aveva come il Tasso, grande sensibilitá, molta facilitá di lacrime, ma superficiale sensibilitá, che poteva increspare, non turbare il suo mondo sereno. Non si può dir che la sua sensibilitá fosse malinconia, la quale richiede una certa durata e consistenza; era emozione nata da subitanei moti interni, e che passava con la stessa facilitá che veniva. Questo difetto di analisi e di profonditá nel sentimento manteneva al suo mondo il carattere idillico; non lo trasformava, ma lo accentuava e lo coloriva nel suo movimento; perché l’idillio senza elegia è insipido. Una immaginazione non penetrata dalla serietá di un mondo interiore, appena ventilata dal sentimento, scorre leggiera su questo mondo idillico, e vi annoda e snoda una folla di accidenti, che gli dánno varietá e vivacitá. Sembrano sogni che svaniscono appena formati, ma con tale chiarezza plastica ne’ sentimenti e nelle immagini, che ci prendi la piú viva partecipazione. Il poeta vi s’intenerisce, vi si trastulla, vi si dimentica:
Sogni e favole io fingo, e pure in carte Mentre favole e sogni orno e disegno. In lor, folle ch’io son, prendo tal parte. Che del mal che inventai piango e mi sdegno. |
Si può ora comprendere il meccanismo del dramma metastasiano. Ha in cima l’eroe o l’eroina, Zenobia o Issipile, Temistocle o Tito. L’eroe ha tutte le perfezioni che la poesia ha collocate nell’etá dell’oro, e sveglia l’eroismo intorno a sé, rende eroici anche i personaggi secondarii. Piú l’etá è prosaica e piú esagerato è l’eroismo, foggiato da immaginazione libera che ingrandisce le proporzioni a arbitrio, con non altro scopo che di eccitare la maraviglia. Il maraviglioso è in questo, che l’eroe è un’antitesi accentuata e romorosa alla vita comune, offrendo in olocausto alla virtú tutti i sentimenti umani, come Abramo, pronto a uccidere il figlio. Cosi Enea abbandona Didone per seguire la gloria, Temistocle e Regolo vanno incontro a morte per amor della patria. Catone si uccide per la libertá, Megacle offre la vita per l’amico e Argene per l’amato. Questa forza di soffocare i sentimenti umani e naturali, che regolano la vita comune, era detta magnanimitá o generositá, com’è il perdono delle offese, il sacrificio dell’amore o della vita. Situazione tragica, se mai ce ne fu, anzi il fondamento della tragedia. Ma qui rimane per lo piú elegiaca, feconda di emozioni superficiali, momentanee e variate, che in ultimo sgombrano a un tratto e lasciano il cielo sereno. La generositá degli uni provoca la generositá degli altri, l’eroismo opera come corrente elettrica, guadagna tutti i personaggi, e tutto si accomoda come nel migliore de’ mondi, tutti eroi e tutti contenti. Di questa superficialitá che resta ne’ confini dell’idillio e dell’elegia e di rado si alza alla commozione tragica, la ragione è questa, che la virtú vi è rappresentata non come il sentimento di un dovere preciso e obbligatorio per tutti, corrispondente alla vita pratica, ma come un fatto maraviglioso che per la sua straordinarietá tolga il pubblico alla contemplazione della vita comune. Perciò è una virtú da teatro, un eroismo da scena, e anche oggi si dice: eroe da melodramma. Piú le combinazioni sono straordinarie, piú le proporzioni sono ingrandite, e piú cresce l’effetto. I personaggi posano, si mettono in Arista, sentenziano, si atteggiano, come volessero dire: attenti! ora viene il miracolo. Temistocle dice:
Sentimi, o Sire, Lisimaco, mi ascolta, udite o voi Popoli spettatori Di Temistocle i sensi; e ognun ne sia Testimonio e custode. |
Non è ver che sia la morte Il peggior di tutti i mali; È il sollievo de’ mortali. Che son stanchi di soffrir. |
Questa vita cosí assurda nella sua profonditá ha tutta l’illusione del vero nella sua superficie. Approfondire i sentimenti, sviluppare i caratteri, graduare le situazioni sarebbe una falsificazione. La superficialitá è la sua condizione di esistenza. È una vita di cui vedi le punte e ignori tutto il processo di formazione, una specie di vita a vapore, che nella rapida corsa divora spazii infiniti, e non ti mostra che i punti d’arrivo. Sbucciano sentimenti e situazioni cosí d’un tratto, e spesso ti trovi di un balzo da un estremo all’altro. Sei in un continuo flutto d’impressioni variatissime, di poca durata e consistenza, libate appena, con sentimenti vivacissimi, penetranti gli uni negli altri, come onde tempestose. Scusano questa superficialitá con la musica, quasi che la musica potesse o compiere, o sviluppare o approfondire i sentimenti; ma la musica metastasiana non era se non il prolungamento o l’eco del sentimento, il semplice trillo della poesia, il suo accompagnamento, perché quella poesia è giá in sé musica e canto. Una vita cosí superficiale non può essere che esteriore. È vita per lo piú descritta, come si vede nel Guarini e nel Marino. I personaggi nella maggior violenza de’ loro sentimenti si descrivono, s’analizzano, com’è proprio d’una societá adulta in cui la riflessione e la critica t’inseguano nel momento stesso dell’azione. Ti trovi nel piú acuto della concitazione, e quando alla fine ti aspetti quasi un delirio, ti sopraggiunge un’analisi, una sentenza, un paragone, una descrizione psicologica. Licida snuda il brando, vuole uccidere il suo nemico; poi lo volge in sé; si arresta, e fa la sua analisi:
Rabbia, vendetta, Tenerezza, amicizia, Pentimento, pietá, vergogna, amore, Mi trafiggono a gara. Ah chi mai vide Anima lacerata Da tanti affetti e si diversi? Io stesso Non so come si possa Minacciando tremare, arder gelando, Piangere in mezzo all’ire, Bramar la morte e non saper morire. |
Caro, son tua cosí. Che per virtú d’amor I moti del tuo cor Risento anch’io. Mi dolgo al tuo dolor, Gioisco al tuo gioir, Ed ogni tuo desir Diventa il mio. |
Come dell’oro il fuoco Scopre le masse impure, Scoprono le sventure De’ falsi amici il cor. |
Fiamma ignota nell’alma mi scende. Sento il Nume, m’ispira, m’accende; Di me stessa mi sento maggior. Ferri, bende, bipenni, ritorte, Pallid’ombre, compagne di morte. Giá vi guardo, ma senza terror. |
Misero pargoletto, Il tuo destin non sai: Ah non gli dite mai. Qual’era il genitori Come in un punto, o Dio, Tutto cambiò d’aspetto; Voi foste il mio diletto. Voi siete il mio terror! |
Ne’ giorni tuoi felici Ricordati di me. |
Questa vita ne’ suoi moti alterni di spontaneitá e di riflessione cosí equilibrata, essendo superficiale ed esteriore, ha per suo carattere la chiarezza, è visibile e plastica. Le gradazioni piú fine, i concetti piú difficili sono resi con un’estrema precisione di contorni; e perciò non hanno riverbero, appagano e saziano lo sguardo, lo tengono sulla superficie, non lo gittano nel profondo. Questa chiarezza metastasiana tanto vantata e cosí popolare, perché il popolo è tutto superficie, è la forma nell’ultimo stadio della sua vita, quando a forza di precisione diviene massiccia e densa come il marmo. La vecchia letteratura ci raggiunge l’ultima perfezione: l’espressione perde ogni trasparenza, e non è che se stessa e sola, e vi si appaga come un infinito. Stato di petrificazione che oggi dicesi letteratura popolare, come se la letteratura debba scendere al popolo, e non il popolo debba salire a lei. Metastasio vi spiega un talento miracoloso. Quella vecchia forma, prima di morire, manda gli ultimi splendori. La chiarezza non è in lui superficie morta, ma è la vita nella sua superficie, paga e contenta della sua esterioritá, con una facilitá e una rapiditá, con un giuoco pieno di grazia e di brio. Il periodo perde i suoi giri, la parola perde le sue sinuositá, liscia, scorrevole, misurata come una danza, accentuata come un canto, melodiosa come una musica. Le impressioni che te ne vengono, sono vivaci, ma labili, e ti lasciano contento, ma vuoto, come dopo una festa brillante che ti ha divertito e a cui non pensi piú.
Il mondo metastasiano può parere assurdo innanzi alla filosofia, come innanzi alla filosofía pareva assurda la societá da esso rappresentata. Come arte, niente è piú vero per coerenza, per armonia, per interna vivacitá. È il ritratto piú finito di una societá vicina a sciogliersi, le cui istituzioni erano ancora eroiche e feudali; materia vuota dello spirito che un tempo l’animò, e che sotto a quelle apparenze eroiche era assonnata, spensierata, infemminita, idillica, elegiaca e plebea. Guardatela. Essa è tutta profumata, incipriata, col suo codino, col suo spadino, cascante, vezzosa, sensitiva come una donna, tutta idolo mio, mio bene e vita mia. La poesia di Metastasio l’accompagna con la sua declamazione, con la sua cantilena; la parola non ha piú niente a dirle; essa è il luogo comune, che acquista valore trasformato in trillo, con le sue fughe e le sue volate, co’ suoi bassi e i suoi acuti, non è piú un’idea, è un suono, raddolcito dagli accenti, dondolato dalle rime, alternato in quei versetti, ridotto un sospiro. Una poesia che cerca i suoi mezzi fuori di sé, che cerca i suoi motivi e i suoi pensieri nella musica, abdica giá, pronunzia la sua morte. Ben presto Metastasio sembra troppo poeta al maestro di musica, né il pubblico sa piú che farsi della parola e non domanda cosa dice, ma come suona. La parola dopo di aver tanto abusato di sé, non vai piú nulla, e la stessa parola metastasiana, cosí leggiera, cosí rapida, non può essere sopportata. La parola è la nota, e i nuovi poeti si chiamano Pergolesi, Cimarosa, Paisiello. Cosi terminava il periodo musicale della vecchia letteratura, iniziato nel Tasso, sviluppato nel Guarini e nel Marino, giunto alla sua crisi in Pietro Metastasio. Oramai si viene a questo, che prima si fa la musica e poi Giuseppe II dice al suo nuovo poeta cesareo, all’abate Casti: — ora fatemi le parole. — Il letterato che aveva rappresentata una parte cosí importante nella societá italiana, cade in discredito, il nome e la cosa. Letterato diviene sinonimo di parolaio, il filosofo prende il suo posto, e giá non si dice piú letterato, si dice bell’ingegno e bello spirito. La parola come parola è merce scadente, ed ha valore nell’ugola e nella nota. La musica ha un’azione benefica sulla forma letteraria, costringendola ad abbreviare i suoi periodi, a sopprimere il suo cerimoniale e le sue solennitá, i suoi aggettivi, i suoi ripieni, le sue perifrasi, i suoi sinonimi, i suoi parallelismi, le sue trasposizioni, tutte le sue dotte inutilitá, e a prendere un’aria piú spedita e andante. Gli orecchi avvezzi alla rapiditá musicale, non possono piú sopportare i periodi accademici e le tirate rettoriche. E se Metastasio è chiamato divino, è per la musicalitá della sua poesia, per la chiarezza, il brio e la rapiditá dell’espressione. Il pubblico abbandonando la letteratura, la letteratura è costretta a seguire il pubblico. Cosi nella dissoluzione della forma letteraria o accademica spunta il principio di una vita nuova, di una forma piú vicina alla rapiditá e alla naturalezza del linguaggio parlato, tendente a sciogliersi da elementi tradizionali e di pura imitazione e a impregnarsi della vita contemporanea. Perciò la forma metastasiana è rimasta freschissima e popolarissima, con tanta vivacitá nella sua facilitá e nella sua morbidezza.
Gli è che in questo poeta operavano efficacemente due forze, che furono le sue Muse, il sentimento della contemporaneitá e il genio musicale. Metastasio si preoccupava pochissimo delle regole, e pensava innanzi tutto al successo, cioè a indovinare e ammaliare il suo pubblico. E il pubblico non era piú l’Accademia né la Corte, ancorché per lungo tempo le Accademie letterarie, e prima l’Arcadia, conservassero ancora una certa influenza, e alle Corti non mancassero istrioni e giullari sotto nome di poeti. Ma la coltura si era distesa, i godimenti dello spirito erano piú variati, e il pubblico si era ingrandito, e s’imponeva al poeta. La letteratura classica e convenzionale poteva durare con un pubblico ristretto, educato a quel modo, ammiratore dei bei periodi e delle belle frasi. Ma ora cominciava un visibile distacco tra’ letterati e il pubblico. Mancava ogni comunione tra quel pubblico superficiale e avido di emozioni, e quelle forme classiche e letterarie, tollerabili co’ condimenti e i raffinamenti dello spirito nel Tasso, nel Guarini, e nel Marino, allora affatto insipide e noiosissime in quella loro ariditá arcadica. A quel modo che la commedia dotta o regolata non potè sostenersi senza il sussidio delle farse e delle commedie a soggetto, la forma letteraria non potè piú reggersi senza il sussidio del canto, della musica, della decorazione, della mimica e della declamazione. Metastasio fu il poeta di questo pubblico, e formò un mondo a sua immagine. Il suo mondo greco-romano che nella sua intenzione dovea essere eroico-tragico, gli si trasformò nelle mani, e divenne un mondo maraviglioso-elegiaco, penetrato di elementi idillici e comici, pieno di sorprese e di emozioni, di movimenti drammatici, e fissato in una forma sensibile e impressionabile, o come dice Dante, trasmutabile in, tutte guise, luce, colore e melodia. Questa flessibilitá della forma è ciò che dicesi dolcezza metastasiana, che si collega cosí bene con la sua tenera sensibilitá, con la sua ingenuitá idillica e col suo brio comico. In questa forma vive perpetuamente un mondo poetico, che si decompose subito, come la societá che l’aveva prodotto.
Metastasio sopravvisse a se stesso. Negli ultimi tempi era come uno straniero accampato in mezzo ad una societá che si rinnovava rapidamente. Assistette vivo alla sua demolizione. Vide Goldoni attaccare tutta quella sua fantasmagoria eroica, e cercare un’altra base nella natura. Vide Parini dar della scure su quella societá ch’egli aveva resa immortale. Vide Alfieri romperglile sue melodie. E giá, morto appena, la societá di cui era stato il poeta e l’idolo, crollava da tutte le parti con tanta rovina, che la nuova generazione non la comprese piú, e parve lontana di un secolo. Nuove idee, nuovi bisogni, nuove condizioni sociali. La collera contro la vecchia societá colse pure Metastasio, accusato di avere infemminito gl’italiani co’ suoi molli versi. La grande ombra di Alfieri calò sopra di lui. Pure una certa voce si facea via, ma non si osava alzarla troppo. Si dicea, cosí in pochi e quasi all’orecchio, che Metastasio era poeta nato, e Alfieri volle esser poeta, e non fu. Il segreto oggi è pubblico, e mi pare che senza taccia d’indiscrezione si possa divulgarlo. E mi pare che volendo esser giusti con Metastasio, noi possiamo rimetterlo sul suo piedistallo, e salutare in lui l’ultimo grande poeta della vecchia letteratura.