La poesia cavalleresca e scritti vari/Scritti vari/I. Frammenti letterari/IV. Giovanni Prati
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IV
GIOVANNI PRATI
Giovanni Prati aveva bisogno di una riparazione in questi tempi che si dicono riparatori. Ne ha avuta una in senato, ma un’altra ne aspetta come poeta, e spero che facendogliela io egli non si trovi mal riparato.
Quando arrivai emigrato a Torino (avevo trenta anni) trovai Prati circondato da ammiratori fanatici, che sostenevano essere il Prati un poeta superiore al Leopardi, di che davano questa bella ragione: il Leopardi è il poeta della disperazione, il Prati il poeta della Speranza! Il Prati era altiero di belle poesie patriottiche, ed in mezzo al plauso degli ammiratori, volle tentare qualcosa di piú grosso. Pretendendo emulare Goethe, fece una specie di poema epico che intitolò Le Grazie e Satana. Nella prefazione chiamò i suoi critici topolini rispetto a lui.
Un bello ingegno napoletano, che avrebbe onorato queste provincie se non fosse prematuramente morto, Stefano Cusani, in un suo articolo aveva molto biasimato il Prati, il quale al mio arrivo, sapendomi napoletano, mi fece molta festa, e mi chiese di un qualche giudizio. Gli dissi di non aver letto il suo libro, e, vinto dalle sue insistenze, lo lessi e vi scrissi sopra quel mio articolo che finiva con le parole: se il Prati si piglierá collera è un uomo privo di spirito. Il Prati non si prese collera, ma non mi salutò piú; la sua freddezza creò la mia, e per piú anni ci passammo d’innanzi come non ci fossimo conosciuti. Dopo un certo tempo il Prati venne fuori con un altro lavoro, l’, intorno a cui fui pregato dagli amici a dire qualcosa. Allora io credevo in buona fede che si potesse e si dovesse dir sempre il vero, di che mi sono ricreduto dopo, ed ho giurato di non dire piú nulla sugli scrittori viventi. Una piccola eccezione la fo ora per Emilio Zola, scrittore lontano da noi e da pochi in Italia conosciuto. Sull ’Armando feci dunque una critica, e inviluppai il mio biasimo sotto un tal nembo di fiori, che anche i miei piú ingegnosi amici restarono ingannati. Il Prati mi venne d’innanzi col suo piú bel sorriso, e d’allora in poi restammo amici.
Ora, volete sapere il mio giudizio su Prati? Egli come poeta patriottico non ha né il carattere, né l’energia, né il sentimento di Berchet; come scrittore di grande poesia, non ha sentito che quando le sintesi poetiche piú ardite sono state tentate da scrittori come Goethe, Leopardi, Musset, il rifare la stessa via è un’audacia; non ha sentito che in tal caso la poesia diventa lo strascico polveroso di una bella veste finita e compiuta. Come poeta di secondo ordine, egli ha di certo una grande immaginazione, ma la sua vera grandezza è dove egli meno crede, in quei versi che scrive senza pretensione, a sfogo d’umore, e gitta qua e lá con la spensieratezza di un ricco, e lascia sperdere come le foglie della Sibilla.
Una di queste poesie io voglio leggervi: è un’epistola al Brioschi, l’eminente matematico a tutti noto, che stuzzicava e canzonava il poeta. E se l’epistola fosse un vivo gioco di frizzi e motti, sarebbe una poesia brillante ma di poco interesse. In quei versi è qualcosa di superiore e di generale. Prati e Brioschi scompaiono; la lotta è fra la poesia e la matematica, la poesia che ha il suo trono in cielo, e la matematica col suo Dio cellula e il suo trono in terra. Dall’una esce un’armonia apparentemente inutile, dall’altra alcunché di piú solido, il danaro.
Questa lotta, che è di vecchia data, non ha preso sempre l’istessa forma nella poesia; la forma cambia col cambiare dei tempi e dell’ambiente. Mettetela nei tempi eroici, in cui l’uomo credeva all’ideale, a Dio, alla patria, e la poesia si sente nel suo regno, tiene sotto di sé la matematica, ed avete le invettive del poeta contro l’utilitario: il sentimento è il disprezzo che si manifesta sotto forma d’indignazione. Ma vengono poi le necessitá della vita, la poesia perde il suo terreno, il culto di quei santi principii resta ai pazzi, come dicono i seri, ed allora la poesia comincia ad abbassare di tuono. Se la poesia continuasse allora le sue invettive, il suono della sua tromba non troverebbe eco; l’ambiente comune entra nella coscienza stessa del poeta, che riflette l’immagine dei tempi. Egli cambia di forma e ricorre all’ironia, che dapprima è guerra a sangue e a coltello, la diciamo perciò feroce; poi diventa benigna ed è accompagnata da quel sorriso che non è del nemico, ma dell’amico. Questa è la forma del Prati, il quale non va a casaccio gittando frizzi, ma conserva l’istess’ordine e lo stesso significato dalla prima all’ultima sillaba. La forma dell’ironia del Prati mi sembra cosí nuova, che credo necessario chiamarla con parola nuova, epperò la dico bonomia. Questa ha luogo quando lo scrittore non vuole offendere, parla senza malizia, senza intenzione, l’usa senza saperlo, in guisa che nell’animo suo nemmeno lampeggi il pensiero di produrre quell’effetto che veramente produce. La bonomia, ch’è una facoltá spontanea, è insieme una delle facoltá piú diffícili a rinvenirsi.
Vi citerò come esempio di tale bonomia quel quadro di famiglia creato da Omero in mezzo alla battaglia, Ettore e Andromaca. Petrarca, Virgilio, Tasso, non hanno bonomia, perché hanno soverchia finezza ed eleganza: Dante e Leopardi non possono averne, perché nel loro cuore ci è soverchio di amarezza. Manzoni neppur egli ha la bonomia, perché ha troppa acutezza d’ingegno, e mentre fa il buon uomo, dalle sue parole scintilla sempre l’intenzione maliziosa. Il vero poeta della bonomia è l’Ariosto. I contemporanei lo dissero stravagante, i posteri andavano all’eccesso opposto, vollero trovare un fine in ogni parola dell’Orlando, dissero l’Ariosto precursore di Cervantes e pretesero che egli avesse inteso far la satira della Cavalleria. Non è vero, l’Ariosto in quella congerie immensa di fatti vede un giuoco dell’immaginazione, e ci vive e ci tripudia e ci si abbandona e ci sta entro in camicia tutto a suo agio. Egli ne parla ridendo, ma assai bonariamente, senza pensare all’ironia che nasce spontanea ed incosciente dalle sue parole. I ripieghi, le barzellette, i giuochi sono la bonomia dell’Ariosto, che per questo lato è superiore al Cervantes, quantunque per altri lati gli rimanga al disotto.
Un raggio di questa bonomia traspare della poesia del Prati. Egli parla con tale aria di grullo da trarti quasi in inganno. La sua ironia è piú efficace, perché meno cosciente. All’ultimo ti senti sollevare verso ignoti orizzonti, e il poeta che ha la forza di tirarsi in quei campi inaccessibili a tutta la scienza umana, guarda l’uomo dotto con un risolino di soddisfazione.