La monadologia/Parte prima/III. Forza e movimento
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III.
FORZA E MOVIMENTO
Un altro campo dell'attività di pensiero leibniziana è la filosofia della natura; campo ben distinto da quello che si è visto fin ora, e trattato con strumenti e metodi di tutt'altro genere. I problemi qui analizzati hanno particolare affinità con quelli dello scienze fisiche: costituzione della materia, esistenza o meno degli atomi, del vuoto, origine e funzione del movimento, dell'energia, etc. Leibniz non fa discendere la soluzione di questi problemi dai principi generali della sua filosofia metafisica: li tratta per sé stessi, secondo una tecnica ad essi propria, seguendo in questo il suo uso di entrare sempre nel vivo di ogni ricerca e di appropriarsi le caratteristiche particolari di ogni scienza. In seguito poi, una volta giunto a determinate soluzioni e ad atteggiamenti definitivi, li metterà in rapporto con le soluzioni ottenute negli altri campi, giungendo così a sintesi sempre più ricche e comprensive.
La continuità e la materia. - Le idee di Leibniz nella filosofia fisica subiscono una profonda evoluzione, dalla giovanile Hypothesis physica nova, alle concezioni più mature. E nel corso di questa evoluzione si formano i suoi concetti fondamentali in questo campo. Egli comincia come atomista, al seguito del Gassendi (1592-1665), il quale rinnovava le dottrine di Epicuro e di Democrito, e concepiva la materia in tutti i suoi aspetti come formata dalla varia combinazione degli atomi nel vuoto. Ben presto però Leibniz abbandona questa teoria, la quale è inconciliabile col suo principio di continuità.È questo uno dei fondamenti del suo pensiero, e si applica non solo alla considerazione della materia, ma anche a molti altri aspetti della sua speculazione. Per esso non esistono arresti, interruzioni, distacchi nello sviluppo delle cose. Per esso natura non facil saltus. Applicato alla considerazione logica del mondo sensibile, questo principio è il fondamento del passaggio ininterrotto dalla causa all'effetto e dall'effetto alla causa, senza ammettere posto una volta il miracolo iniziale della creazione nuove creazioni ex novo, nuovi miracoli. Per questo principio tutto il mondo è connesso in tutte le sue parti; sì che dall'una si può, attraverso un procedimento ininterrotto, passare a qualsiasi altra.
Nulla avviene ad un tratto. Una delle mie grandi massime, e delle più ricche di applicazioni, è che la natura non fa mai salti: l'ho chiamata legge della continuità;.... e l'uso di questa legge è molto importante nella fisica: essa stabilisce che si passi sempre dal piccolo al grande e viceversa, attraverso il medio, nei gradi come nelle parti, e che mai mi movimento nasca immediatamente dal riposo, né vi giunga se non attraverso un movimento più piccolo; che non si possa mai finire di percorrere alcuna linea o lunghezza prima d'aver percorso una linea più piccola; quantunque coloro che hanno formulato finora le leggi del movimento, non abbiano affatto osservato questa legge, credendo che un corpo possa ricevere in mi istante un movimento contrario al precedente. Tutto ciò permette di stabilire che anche le percezioni evidenti derivano per gradi da quelle che sono troppo piccole per essere osservate. Giudicare altrimenti significa non conoscere a sufficienza l'immensa sottigliezza delle cose, che implica sempre e ovunque un infinito attuale.
(Nuovi Saggi, 1701 segg., Prefazione. G. V, 49).
Applicato alla considerazione del mondo materiale, il principio di continuità stabilisce che la materia è divisibile all'infinito, e che non è possibile concepire un arresto in questa divisibilità, o pensare un elemento che sia indivisibile e possa rappresentare un punto di partenza per la costituzione dei corpi. Viene così a cadere la dottrina dell'atomo1 come elemento primo e semplice, dalla cui composizione derivino i diversi aspetti della materia. Qualsiasi elemento materiale, sia pur piccolissimo, è concepito come composto di parti.
Poiché il continuo è divisibile all'infinito, qualsiasi atomo sarà, in certo modo, come un mondo di infinite specie, e vi saramnno mundi in mundis in infinitum.
(Hypothesis physica nova, Theoria motus e concreti, 1671, G. IV, 201).
Tutta la natura è piena di corpi organizzati, cioè animali e piante o altre specie ancora, e non vi è atomo che non contenga un mondo di creatine, poiché tutto è diviso attualmente all'infinito.
(Lettera al Burnett, 1699, G. III, 250).
Il movimento. La materia, dunque, non è formata di atomi: è divisibile all'infinito, continua, omogenea, tale che mai si potrà arrivare all'elemento più piccolo di essa. D'altro lato, essa non è riducibile a pura estensione, come voleva Cartesio2. Tale concezione, che terrebbe conto nella materia dei soli elementi geometrici e la considererebbe solo in funzione dello spazio che occupa, non è sufficiente per Leibniz. La materia è per lui qualche cosa di più: è anzitutto compattezza, movimento, inerzia. È ciò che oppone resistenza.
Che la natura normale della sostanza corporea sia costituita dall'estensione, mi pare sia affermato da molti con grande sicurezza, ma da nessuno dimostrato; certamente, non derivano dal l'estensione né il movimento o azione, né la resistenza o passione; e neppure le leggi della natura che regolano il movimento e l'urto dei corpi. E veramente il concetto dell’estensione non è primitivo, ma risolubile in altri. Infatti, da ciò che è esteso si richiede che sia un tutto continuo in cui coesistano vari elementi. E, per dir tutto, all'estensione, il cui concetto è relativo, è necessario qualche cosa che si estenda o sia continuo, così come nel latte la bianchezza, nel corpo ciò stesso che ne costituisce l'essenza. La ripetizione di questo quid (qualunque esso sia) è l'estensione. E io sono pienamente d'accordo con lo Huygens3 (del quale ho grande stima in questioni naturali e matematiche), che spazio vuoto e pura estensione siano un solo e medesimo concetto: né, a mio giudizio, la mobilità o la άντιτυπία4 possono spiegarsi con la pura estensione, ma solo con un soggetto dell'estensione il quale non solo determini, ma riempia anche uno spazio.
(Animadversiones in partem generalem Principiorum cartesianorum, prima del 1692, G. IV, 364-5.)
Da che cosa derivano, ora, queste qualità della materia? Questa azione, questa resistenza etc., in cui consiste l'essenziale di essa? Nei suoi primi studi, Leibniz fa derivare tutte le qualità della materia dal movimento.
La materia prima è la massa stessa, nella quale non è null'altro che estensione e άντιτυπία, ovvero impenetrabilità: l'estensione le deriva dallo spazio che riempie; ma la vera natura della materia consiste nell'essere alcunché di denso (crassum) e impenetrabile, e in conseguenza tale che, incontrandosi con qualche cosa d'altro, si muova (dato che l'uno dei due deve cedere). Questa massa continua che riempie il mondo mentre tutte le sue parti rimangono in quiete, è la materia prima, dalla quale ogni cosa deriva attraverso il movimento, e nella quale tutto si dissolve attraverso la quiete. In essa non vi sarebbe infatti nessuna diversità, ma una pura omogeneità, se non vi fosse il movimento....
Dalla materia passiamo ora alla forma. Se supponiamo che la forma non sia altro che figura, troveremo di nuovo una mirabile concordanza. Infatti, poiché la figura è il limite (terminus) del corpo, per formare le figure della materia sarà necessario un limite. E per far sorgere vari limiti nella materia, bisogna ricorrere alla discontinuità delle parti, dato che quando le parti sono discontinue, ciascuna di esse ha termini separati (infatti Aristotele definisce i continui come quelli il cui limite è uno5); ma la discontinuitá, in quella massa inizialmente continua, può essere prodotta in duplice modo: o togliendole insieme anche la contiguità, il che ha luogo quando avviene una separazione fra le parti, in modo che si produca un vuoto; oppure conservando la contiguità, come quando le parti, pur rimanendo accoste, si muovono tuttavia in direzioni diverse: così per esempio due sfere, comprese l'una nell'altra, possono muoversi in direzioni diverse e tuttavia rimanere contigue cessando di essere continue. Di qui è chiaro che se la massa è stata creata inizialmente discontinua o interrotta da vuoti, alcune forme devono esser state create contemporaneamente alla materia; se invece la massa è inizialmente continua, è necessario che le forme sorgano dal movimento...., perché dal movimento deriva la divisione, dalla divisione il limite delle parti, dai limiti delle parti le loro figure, dalle figure le forme, quindi dal movimento derivano le forme. È chiaro da ciò che ogni tendenza alla forma è movimento: e questa è la soluzione della contrastata questione sull'origine delle forme...Ci resta da occuparci dei mutamenti. Come mutamenti si enumerano volgarmente (e giustamente) i seguenti: generazione, corruzione, aumento, diminuzione, alterazione, e mutamento di luogo o movimento. I moderni ritengono che tutti questi mutamenti si possano spiegare attraverso il solo mutamento di luogo. E la cosa è chiara quanto all'aumento e alla diminuzione: infatti mutamento di quantità avviene, in un tutto, quando una parte muta di luogo e si aggiunge o viene tolta. Resta da spiegare attraverso il movimento la generazione e la corruzione e l'alterazione.... E tanto la generazione e la corruzione quanto l'alterazione possono spiegarsi attraverso mi sottile movimento delle parti: per esempio, poiché è bianco ciò che riflette molta luce e nero ciò che ne riflette poca, saranno bianche le cose le cui superficie contengono molti piccoli specchi; e questa è la ragione per cui la spuma dell'acqua è bianca, constando di innumerevoli bollicine che sono altrettanti specchi.... E chiaro da ciò che i colori derivano dal semplice mutamento di figura e di situazione nella superficie; altrettanto potremmo facilmente spiegare, se ne avessimo lo spazio, della luce, del calore e di tutte le qualità. E invero, se le qualità mutano a causa del solo movimento, per ciò stesso muterà anche la sostanza: mutati infatti tutti gli elementi (perciò anche alcuni di essi) si elimina la cosa stessa; per esempio, se elimini o la luce o il calore, avrai eliminato il fuoco.
(Lettera al Thomasius, 1669, G. J, 17-19).
Tutto dunque deriva, nella materia, dal movimento; e senza il movimento, quando cioè sia in quiete, essa perde ogni sua solidità e consistenza, quindi ogni sua caratteristica di materia. Leibniz afferma ripetutamente «nullam esse cohaesionem seu consistentiam quiescentis».
Devo dire che Cartesio ha tutt'altra opinione, sembrando a lui che alla stabilità della coesione nei corpi non necessiti altro elemento collegante (gluten) che la quiete. Io sono di opinione contraria: questo glutine è il movimento..... Ciò che è in quiete è spazio vuoto.
(Lettera all'Oldenburg, 1671, Ak. II, I, 166-7).
Bisogna spiegare la causa della connessione maggiore o minore e quindi della eterogeneità nei corpi. Si domanda perché i corpi abbiano le parti più o meno coerenti: affermo che non si deve cercare altra causa di ciò se non nel fatto che queste parti stanno o si muovono insieme. Si muovono insieme perché in una così grande varietà di movimenti generali in tutta la massa complessiva era in ogni modo necessario che alcune parti si allontanassero di molto dalle loro vicine, altre poco in paragone. E la medesima causa che ha fatto sì che queste parti poco o nulla si allontanassero dalle loro vicine, fa anche sì che esse tendano a perseverare nel medesimo stato, perché la causa permane. La causa è la combinazione stessa dei movimenti generali: e i movimenti generali permangono sempre. Li turba dunque chi muti improvvisamente un qualsiasi effetto da essi prodotto e stabilito, e nel quale tutta la natura consente. Ne deriva chiaramente che la pressione esterna è la causa prima della solidità, e che la quiete o il movimento cospirante delle parti ne è la causa prossima, ma soltanto quando deriva da una causa esterna permanente. Così dunque come la concomitanza, cioè la quiete o il movimento cospirante costituiscono il corpo solido, analogamente il movimento vario delle parti costituisce il liquido. E questo è il principio della diversità specifica nei corpi, e del fatto che alcuni sono più densi degli altri, cioè più solidi o composti di parti solide più grandi. Questa tesi è anche confermata dall'esperienza.
(Lettera a Onorato Fabri, 1677, G. IV, 250).
Il «conatus» — Il concetto di materia dunque si dissolve in quello di movimento. Ma come avviene, ora, tale creazione di materialità? Qual'è il punto di partenza dell'azione del movimento?E su che cosa si svolge, inizialmente, tale azione? Leibniz non può ricorrere agli atomi, come elementi primi, avendoli già negati in nome del principio di continuità. Egli modifica il suo punto di partenza, rendendolo privo di estensione: considerandolo non più come la particella più piccola di materia (la quale sarebbe pur sempre materiale, estesa), ma come un limite o un inizio, qualche cosa quindi di inesteso. In tale principio, che egli chiama, riprendendo un termine dello Hobbes, conatus, fa coincidere l'inizio della materialità e l'inizio del movimento.
Vi sono degli indivisibili o inestesi, altrimenti non sarebbe concepibile né l'inizio né la fine del movimento corporeo. Ecco la dimostrazione di ciò: Si vuol trovare l'inizio o la fine di uno spazio, di un corpo, di un movimento o di un tempo qualsiasi: sia, ciò di cui si vuol cercare l'inizio, indicato da una linea ab il cui punto mediano sia c, e il mediano fra a e c sia d, e quello fra a e d sia e, e così via. Si cerchi l'inizio della parte sinistra, verso il lato a. Dico che ac non è l'inizio, perché gli si può togliere de senza toccare l'inizio; né lo è ad, perché gli si può togliere ed, e così via; non si può mai dunque considerare come inizio ciò a cui si può togliere qualche cosa dalla parte destra. Ciò a cui non si può togliere alcuna estensione, è inesteso; dunque l'inizio del corpo, o dello spazio, o del movimento, o del tempo, (cioè il punto, il conatus, l'istante) o è nullo, il che è assurdo, oppure è inesteso, il che era da dimostrarsi. Il punto non è ciò che non ha parti, e neppure ciò di cui non si considerano le parti; ma ciò la cui estensione è nulla, cioè ciò le cui parti non hanno distanza fra di loro, la cui grandezza non è da considerarsi, è inassegnabile, è minore di qualsiasi grandezza che possa avere un rapporto non infinito con una altra grandezza sensibile; minore di una qualsiasi assegnabile: e ciò è il fondamento del metodo di 6 e dimostra in modo chiaro, la verità di quel suo principio per il quale si concepiscono dei rudimenti, per così dire, o inizi delle linee e delle figure, minori di qualsiasi assegnabile....
Il conatus sta al movimento come il punto allo spazio, cioè come l'unità all'infinito; è cioè l'inizio o la fine del movimento. Perciò tutto ciò che si muove, sia pur debolmente, sia pure urtando contro qualsiasi ostacolo, propagherà il conatus all'infinito per tutto ciò che gli si oppone nella materia, e perciò imprimerà il suo conatus a tutte le altre cose: né si può negare che, quando anche cessi di procedere, tuttavia abbia un conatus; e perciò tenda (conetur), o — che è lo stesso imprima un inizio di movimento a tutto ciò che gli si oppone, anche se venga superato da questi ostacoli. Così in ciascun corpo vi possono essere contemporaneamente più conati contrari....
Nel tempo di una spinta, di un urto, di un incontro, i due estremi dei corpi, o punti, si penetrano, ovvero sono nel medesimo punto dello spazio: infatti quando, di due corpi che s'incontrano, l'uno tende a penetrare nel luogo dell'altro, comincerà ad essere in esso, cioè comincerà a penetrare in esso, a unirsi con esso. Infatti il conatus è inizio, penetrazione, unione; quei due corpi sono perciò all'inizio dell'unione, cioè i loro estremi si uniscono: dunque i corpi che si premono o spingono, hanno coesione. Infatti i loro estremi sono uno, poiché le cose i cui termini sono uno7, sono continue o coerenti, anche per definizione di Aristotele; e se due cose sono in un solo luogo, l'una non può essere spinta senza l'altra.
(Hypothesis phyatea nova, Theoria motus abstracti, 1671, G. IV, 228-30).
Corpo e spirito. — Il conatus è dunque, per così dire, l'iniziale punto di contatto fra materia e movimento: l'atto in cui il movimento, applicandosi ad un punto spaziale, segna l'inizio del corpo. Ma che cos'è il movimento rispetto alla materia, se non un principio spirituale?
La fisica tratta della materia e della unica affezione risultante dalla sua combinazione con altre cause, cioè del movimento. Lo spirito (mens) infatti, per ottenere una figura e situazione delle cose buona e a lui gradita, fornisce alla materia il movimento. Infatti la materia di per sé è priva di movimento. Principio di ogni movimento è lo spirito.
(Lettera al Thomasius, G. I, 22).
Così Leibniz, in una formulazione ancora immatura: e, giunto al concetto di conatus, in esso egli fa consistere il principio dello spirito. L'estendersi e svilupparsi del conatus nello spazio, dà luogo alla materia; l'estendersi nel tempo (sotto forma di memoria) dà luogo allo spirito. Il corpo sta così allo spirito come l'istante sta al tempo; lo spirito al corpo come il punto allo spazio.
Nessun conato senza movimento dura più di un istante, se non negli spiriti (in mentibus). Infatti ciò che nell'istante è il conato, quello è nel tempo il movimento del corpo: qui si apre la porta a chi vorrà proseguire verso la vera distinzione di corpo e spirito, che non è ancora stata spiegata da alcuno: Omne enim corpus est mens momentanea, seu carena recordatione, poiché non ritiene per più di un istante insieme il proprio conato e un altro contrario; due elementi, infatti, sono necessari alla sensazione e al piacere o al dolore, senza i quali non vi è sensazione alcuna: l'azione e la reazione, cioè la comparazione e quindi l'armonia; perciò il corpo manca di memoria, manca del senso delle azioni e delle passioni, manca di pensiero (cogitatio).
(Hypothesis physica nova, Theoria motus abxtracti, 1671, G. IV, 230).
Come le azioni del corpo consistono nel movimento, così consistono le azioni dello spirito nel conatus o, per così dire, nel minimo movimento o punto; infatti anche lo spirito stesso consiste propriamente soltanto in un punto dello spazio, mentre il corpo comprende spazio, li questo, per parlare popolarmente, lo dimostro dal fatto che lo spirito dev'essere nel luogo d: incontro di tutti i movimenti che ci vengono impressi dagli oggetti dei sensi. Dato che, quando voglio stabilire che un dato corpo è oro, prendo insieme la sua lucentezza, il suo suono, il suo peso, e ne conchiudo che è oro, bisogna dunque che lo spirito sia in un luogo in cui tutte le linee della vista, dell'udito e del tatto si incontrano, cioè in un punto. Se noi dessimo allo spirito uno spazio maggiore che un punto, esso sarebbe già un corpo e sarebbe divisibile in parti; e perciò non sarebbe sempre intimamente presente a sé stesso e così non potrebbe anche riflettersi su tutti i suoi elementi e le sue azioni. Eppure in ciò consiste proprio l'essenza dello spirito. Posto dunque che lo spirito consista in un punto, è indivisibile e indistruttibile. Da questi principi e da altri ancora, ho dimostrato molte cose meravigliose riguardo alle caratteristiche dell'anima umana e in generale di tutti gli spiriti intelligenti; cose alle quali nessuno finora aveva pensato, benché da esse sgorghi in modo finora mai visto la verità della religione, della provvidenza divina, dell immortalità della nostra anima e la possibilità di molti sublimi misteri (come quello della giustizia divina, della predestinazione e della presenza nel sacramento). Ed io spero una volta di poter mostrare tutto ciò nel modo più chiaro possibile, e di acquistarmi così qualche benemerenza presso tutti gli uomini intelligenti, che odiano l'ateismo oggi invadente e si preoccupano dell'eternità.
(Lettera al duca di Hannover, 1671, G. I, 52-53).
Da questo contatto fra sostanza spirituale e materiale nel conatus, Leibniz trae le sue prime conclusioni verso la funzione della spiritualità nel mondo fisico, e l'importanza dello spirito in rapporto a qualsiasi elemento corporeo e materiale.
Sono capace di dimostrare dalla natura del movimento nel campo fisico, da me scoperta, che il movimento non può esistere nei corpi presi per sé, se non vi si aggiunga lo spirito;.... che lo spirito è incorporeo; che lo spirito agisce su sé stesso, che nessuna azione su sé stesso può essere movimento, che l'azione del corpo non è se non il movimento, e che quindi lo spirito non è corpo. Che lo spirito consiste in un punto o centro, e che perciò è indivisibile, incorruttibile, immortale. Come nel centro concorrono tutti i raggi, così concorrono insieme nello spirito tutte le impressioni sensibili attraverso i nervi; e dunque lo spirito è un piccolo mondo concepito in un punto, il quale consiste delle proprie idee così come il centro consiste degli angoli, poiché l'angolo è mia parte del centro, nonostante che il centro sia indivisibile. Così può essere spiegata geometricamente tutta la natura dello spirito.
(Lettera al duca di Hannover, 1071, G. I, 61.
La conservazione della forza. — Queste sono le teorie fisiche del giovane Leibniz. Ma una nuova scoperta fa sì che egli abbandoni il suo concetto del movimento come essenza dei corpi, e lo sostituisca con quello di forza.
Cartesio aveva affermato la immutabilità e costanza della quantità di movimento nell'universo; cioè, che quanto movimento viene perduto da un corpo, tanto viene acquistato da un altro, sì che la somma complessiva nell'universo sia sempre costante: intendendo per quantità di movimento il prodotto della massa per la velocità. Leibniz dimostra che tale principio non è esatto, e che ciò la cui somma rimane costante non è la quantità di movimento, ma la quantità di forza viva o l'azione motrice, che è eguale al prodotto della massa per il quadrato della velocità.
Quale sia la portata di questa scoperta nel campo fisico, non è il caso qui di notare. Per intendere l'uso che Leibniz ne farà in questioni filosofiche e metafisiche bisogna osservare che l'azione motrice non rappresenta più — come la quantità di movimento — la semplice traslazione di un corpo da un luogo ad un altro, ma la possibilità di produrre un determinato effetto, per esempio, di sollevare un corpo ad una determinata altezza. Questa azione motrice di Leibniz è quella che oggi si chiama energia.
In generale la forza assoluta deve essere stimata per l'effetto violento che essa può produrre. Chiamo effetto violento ciò che consuma la forza dell'agente, come, per esempio, imprimere una certa velocità ad un corpo dato, elevare un corpo determinato ad una determinata altezza, etc. E si può giudicare comodamente la forza di un corpo pesante, attraverso il prodotto della massa o della pesantezza per l'altezza alla quale il corpo potrebbe salire in virtù del suo movimento.... Quando un corpo pesante ha progredito discendendo liberamente, ed ha acquistato impeto o forza viva, le altezze a cui questo corpo potrebbe allora arrivare non sono affatto proporzionali alle velocità, ma al quadrato delle velocità. Ed è per questo che nel caso della forza viva le forze non sono affatto come le quantità di movimento, o come i prodotti delle masse per le velocità....
Si verifica per via di ragione e di esperienza, che è la forza viva assoluta — quella determinata dall'effetto violento che può produrre — che si conserva, e non già la quantità di movimento. Poiché se questa forza viva potesse mai aumentare, si avrebbe un effetto più potente che la causa, oppure si avrebbe il moto perpetuo meccanico, cioè un movimento che potrebbe riprodurre la sua causa e qualche cosa di più; il che è assurdo. Ma se la forza potesse diminuire, essa perirebbe alla line completamente perchè, non potendo mai aumentare, e potendo però diminuire, andrebbe via via decadendo: il che è senza dubbio contrario all'ordine delle cose. Anche l'esperienza lo conferma....
Adesso mi piace di guardare la questione da un altro punto di vista, e di mostrare anche la conservazione di qualche cosa di più prossimo alla quantità del movimento, cioè la conservazione dell'azione motrice. Ecco dunque la regola generale che io stabilisco. Qualunque cambiamento possa accadere tra corpi concorrenti, qualunque sia il loro numero, bisogna che vi sia sempre nei corpi concorrenti in un sistema chiuso la medesima quantità di azione motrice nel medesimo intervallo di tempo. Per esempio, vi deve essere durante questa ora tanta azione motrice nell'universo o in dati corpi che agiscono fra di loro in un sistema chiuso, quanta ve ne sarà durante un'altra ora qualsiasi.
Per comprendere questa regola, bisogna spiegare la valutazione dell'azione motrice, tutta diversa da quella della quantità di movimento, intesa la quantità di movimento secondo l'uso che si è spiegato sopra. Ora, affinché l'azione motrice possa essere valutata, bisogna prima valutare l'effetto formale del movimento. Tale effetto formale o essenziale al movimento consiste in ciò che è cambiato dal movimento, cioè nella quantità della massa trasportata, e nello spazio o nella lunghezza attraverso cui questa massa è trasportata. È questo l'effetto essenziale del movimento, o il cambiamento che esso determina: poiché il tal corpo era lì, ora è qui: il corpo è tanto grande e la distanza è tanta....
Bisogna ben distinguere quello che io chiamo l'effetto formale o essenziale al movimento, da ciò che ho chiamato più sopra l'effetto violento. Poiché l'effetto violento consuma la forza e si esercita su qualche cosa di fuori; ma l'effetto formale consiste nel corpo in movimento preso in sé stesso, e non consuma affatto forza, anzi la conserva: poiché la medesima traslazione della medesima massa si deve sempre continuare, se nulla dal di fuori non l'impedisce. È questa la ragione per cui le forze assolute sono come gli effetti violenti che le consumano, ma non già come gli effetti formali.
Ora sarà più facile d'intendere che cosa sia l'azione motrice: bisogna dunque stimarla non solo per l'effetto formale che essa produce, ma anche per il vigore e la velocità con la quale essa lo produce. Si vogliono far trasportare 100 libbre alla distanza di un miglio; questo è l'effetto formale che si domanda. Uno lo vuol compiere in un'ora, un'altro in due; io dico che l'azione del primo è doppia di quella del secondo, essendo doppiamente rapida, su di un medesimo effetto....
Questa definizione dell'azione motrice si giustifica abbastanza a priori, perché è chiaro che in un'azione puramente formale presa in sé stessa, come è qui quella di un corpo in movimento considerato a sé, vi sono due punti da esaminare: l'effetto formale o ciò che è cambiato, e la rapidità del cambiamento; poiché è ben chiaro che colui che produce il medesimo effetto formale in minor tempo, agisce di più.
(Essay de Dynamique sur les loix du mouvement, M. VI, 218-21).
La forza come attivitá. — La forza, l'energia, è dunque sostituita al movimento. Dalla semplice e obbiettiva traslazione dei corpi da un luogo all'altro, Leibniz sposta il centro della attenzione su ciò che della traslazione è la causa, su ciò che contiene già in sé — per così dire — il movimento allo stato potenziale, e lo produce. Il movimento perde così realtà a favore della forza. La forza viene considerata come assoluta e il movimento come relativo.
Bisogna sapore anzitutto che la forza è qualche cosa di assolutamente reale, anche nelle sostanze create: ma che lo spazio, il tempo e il movimento hanno qualche cosa dell'ente di ragione, e non sono veri e reali per sé stessi, ma solo in quanto attributi divini involventi l'immensità, l'eternità, l'azione o la forza delle sostanze create. Ne consegue che non esiste un vuoto nello spazio né nel tempo, che il movimento separato dalla forza, cioè quando non si considerino in esso se non le caratteristiche geometriche, cioè la grandezza, la figura o i loro mutamenti, non è altro che un mutamento di luogo; e che perciò il movimento, rispetto ai fenomeni, consiste in una semplice relazione; il che fu anche riconosciuto da Cartesio, quando definì il movimento come una traslazione dalle vicinanze di un corpo alle vicinanze di un altro corpo. Ma nel trarne le conseguenze, dimenticò la sua definizione, e stabili le regole del movimento come se il movimento fosse qualche cosa di reale e assoluto. Bisogna dunque ritenere che, quando più corpi qualsiasi sono in movimento, non è possibile dedurre, dal loro aspetto esteriore, in quali di essi sia un determinato movimento assoluto oppure la quiete; ma ciascuno di essi a piacere può essere considerato in quiete, pur restando uguali le manifestazioni esteriori.
(Specimen Dynamicum, parte II, M. VI, 247).
Il movimento è relativo: la forza sola è assoluta. E il concetto di forza ha, molto più che quello di movimento, una chiara impronta di attività. Pare che in esso il conatus degli scritti giovanili abbia trovato il suo completamento e la sua realizzazione.
Abbiamo altrove avvertito che negli esseri corporei vi è qualche cosa al di là dell'estensione, anzi prima dell'estensione: la forza della natura, riposta ovunque dall'autore supremo, la quale non consiste soltanto in una semplice facoltà, come si contentavano di dire gli scolastici, ma anche in un conatus o sforzo, il quale avrà il suo effetto pieno se non sia impedito da un conatus contrario. Questo sforzo si mostra da ogni parte ai nostri sensi; e, a mio parere, può essere dimostrato per via razionale ovunque nella materia, anche là dove non è evidente ai sensi. Che se questa forza non si deve attribuire a Dio come un miracolo, bisogna certamente che sia immessa da lui nei corpi, in modo da costituirne l'intima natura; poiché l'agire è il carattere essenziale delle sostanze, e l'estensione, lungi dal determinare la sostanza stessa, non indica altro che la continuazione o diffusione di una sostanza già data, la quale tenda e si opponga, cioè resista. Né importa che ciascuna azione corporea derivi dal movimento, e il movimento non derivi se non da mi altro movimento esistente già da prima in quel corpo o impressogli dal di fuori. Infatti il movimento (così come il tempo) non esiste mai, a considerare la cosa rigorosamente; giacché non esiste mai tutto, non avendo parti coesistenti. E nulla vi è in esso di reale, se non quel quid istantaneo che consiste nella forza tendente al mutamento. A ciò dunque si riduce tutto ciò che è nella natura corporea al di fuori dell'oggetto della geometria, cioè al di fuori dell'estensione.
(Specimen Dynamicum, M. VI, 235).
Il corpo, la materia, contiene dunque in se una vis activa che supera, la materialità ed ha carattere spirituale.
Τό δυναμιΧόν, la potenza, è duplice nel corpo: passiva e attiva. La forza passiva costituisce propriamente la materia o massa, quella attiva la entelechia8 o forma. La forza passiva è la resistenza stessa per la quale il corpo resiste non soltanto alla penetrazione, ma anche al movimento, e per la quale avviene che un altro corpo non possa subentrare al suo posto senza che esso ceda; d'altra parte, esso non cede se non ritardando alquanto il movimento del corpo che lo spinge, e così tende a perseverare nel proprio stato anteriore, in modo non soltanto da non scostarsene spontaneamente, ma anche da resistere a ciò che tende a mutarlo. Così vi sono due resistenze o masse: la prima, quella che chiamano antitypia o impenetrabilità; la seconda, quella che Keplero chiama inerzia naturale dei corpi e che Cartesio in qualche luogo del suo epistolario riconobbe dal fatto che per essa i corpi non accolgono un nuovo movimento se non per forza, e perciò resistono al corpo che li preme e ne indeboliscono la forza. Il che non avverrebbe, se nel corpo, oltre all'estensione, non vi fosse τό δυναμιxόν, cioè il principio delle leggi del movimento, per il quale avviene che la quantità delle forze non può essere aumentata, e che un corpo non può essere spinto da un altro corpo se non diminuendo la forza di quello.
La forza attiva, che si suole anche dire senz'altro forza, non è da concepirsi come la semplice potenza volgare della scuola, cioè come ima recettività di azione, ma implica un conatus, cioè mia tendenza all'azione, cosicché, se non vi sia impedimento, ne derivi l'azione. in ciò propriamente consiste l'entelechia, mal compresa dalla scuola: una tale potenza infatti comprende l'atto, né permane una semplice facoltà, benché non sempre proceda direttamente all'azione cui tende; a volte infatti vi si oppone un impedimento. In secondo luogo, la forza attiva è duplice, primitiva e derivativa, cioè sostanziale o accidentale. La forza attiva primitiva, che vien chiamata da Aristotele la prima entelechia (έντελέχειx ή πρώτη) e nel linguaggio comune forma della sostanza, è il secondo principio naturale che, insieme con la materia o forza passiva, costituisce la sostanza corporea; la quale è in sé un unità, cioè non un semplice aggregato di più sostanze: come per esempio vi è grande differenza tra un animale e un gregge di animali. E perciò questa entelechia è o un’anima, o qualche cosa di analogo all’anima, e sempre attua naturalmente qualche corpo organico, il quale, quando fosse preso separatamente in sè stesso, cioè toltane o allontanatane l’anima, non sarebbe un’unica sostanza, ma un aggregato di molti, insomma un artificio della natura....
La forza derivativa è ciò che alcuni chiamano impetus, cioè conatus, o la tendenza, per così dire, ad un qualche movimento determinato, attraverso il quale la forza primitiva o principio dell’azione viene modificato. Quanto a questa forza, ho mostrato che non si mantiene sempre la medesima nel medesimo corpo, ma che, comunque sia distribuita in più corpi, rimane sempre nella medesima quantità complessiva, e differisce dal movimento stesso, la cui quantità non si conserva....
A stabilire una forza attiva nei corpi ci inducono molte ragioni, e principalmente l’esperienza stessa, la quale mostra che nella materia vi sono movimenti i quali devono bensì essere attribuiti originariamente alla causa universale delle cose, cioè a Dio; ma immediatamente e specificamente devono essere spiegati attraverso la forza posta da Dio nelle cose. Infatti, dire che Dio nella creazione ha dato ai corpi una legge di aziono, non è altro se non dire che ha dato ad essi qualche cosa in virtù di cui quella legge sia osservata; altrimenti dovrebbe sempre egli stesso procurare continuamente per via straordinaria l’osservanza di quella legge; mentre è piuttosto la sua legge stessa che ha efficacia, ed egli ha reso i corpi attivi, cioè ha dato ad essi ima forza insita} Bisogna inoltre considerare che la forza derivativa e l’azione sono qualche cosa di modale, perchè sono soggetti a mutamento. E ogni modo consiste in qualche modificazione di alcunché di persistente, o meglio di assoluto. Pagina:Leibniz - La monadologia, Sansoni, Firenze, 1935.djvu/100 Pagina:Leibniz - La monadologia, Sansoni, Firenze, 1935.djvu/101 Pagina:Leibniz - La monadologia, Sansoni, Firenze, 1935.djvu/102 Pagina:Leibniz - La monadologia, Sansoni, Firenze, 1935.djvu/103
Note
- ↑ Ατομος significa appunto indivisibile.
- ↑ Ricordiamo che Cartesio, nella sua deduzione del mondo da Dio, prende come punto di partenza le due sostanze: res cogitans (principio spirituale) e res existens (principio della materia).
- ↑ Cristiano Huygens (1629-1695) grande scenziato olandese, autore della teoria ondulatoria della luce e primo applicatore del principio del pendolo alla costruzione degli orologi, è uno di coloro che hanno maggiormente influito sullo sviluppo dello idee scientifiche di Leibniz. La loro amicizia e corrispondenza dura dall'anno della loro conoscenza a Parigi (1672) fino alla morte dell'Huygens. E fin dal 1669, Leibniz aveva tratto dalle leggi di Huygens sugli urti lo spanto per alcune sue idee sulla costituzione della materia.
- ↑ Antitypia è il termine usato da Leibniz per indicare la compattezza e impenetrabilità della materia.
- ↑ In greco nel testo: ών τά έσχατα έν.
- ↑ Bonaventura Cavalieri (15981647), autore della Geometria indivisibilium, ebbe, col suo concetto di indivisibile, grande influenza sul pensiero matematico di Leibniz. Egli può essere considerato forse come il principale precursore della scoperta del calcolo infinitesimale, dovuta al Leibniz e al Newton.
- ↑ In greco nel testo. Crf. sopra, p. 55.
- ↑ Entelechia, da έντελές (compiuto) e έχειν (avere) è il termine usato da Aristotele per indicare la forma pienamente realizzata. Leibniz lo riprende per definire l'aspetto attivo della sostanza e della morale. Questo termine è anche usato spesso da lui come sinonimo di monade. Cfr. Monadologia, § § 18, 48.