La madre (Deledda)/Capitolo 24
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Capitolo 23 | Capitolo 25 | ► |
Paulo era anch’esso rientrato e andava su tastoni per la scaletta buia; e aveva un ricordo confuso, di quando bambino andava così, tastoni e carponi su per una scala che però non ricordava bene dove fosse.
Come allora, aveva l’impressione di un pericolo che solo stando molto attenti si poteva evitare. Arrivò al pianerottolo. Arrivò al suo uscio. Era salvo. Ma davanti al suo uscio esitò nuovamente ad aprire; e d’un tratto si volse e picchiò lievemente con la nocca dell’indice all’uscio della madre: poi senza aspettare risposta aprì ed entrò.
— Sono io, — disse duramente; — non accendete. Ho da dirvi una cosa.
La sentiva agitarsi sul letto, il cui pagliericcio di stoppie scricchiolava; ma non la vedeva, non voleva vederla, voleva che solo le loro due anime si parlassero nelle tenebre, come già passate nel mondo di là.
— Sei tu? Sognavo, — ella disse con voce assonnata eppure spaventata. — Un ballo.... uno che suonava un liuto.
— Mamma, — egli riprese, senza badare alle parole di lei, — sentite. Quella donna, sì, Agnese, sta male. Da questa mattina sta male; è caduta; pare si sia rotta qualche cosa dentro la testa. Il sangue le cola dal naso.
— Cosa mi dici, Paulo! C’è pericolo?
La voce, nel buio, risonava allarmata e nello stesso tempo incredula. Egli proseguiva, imitando a sua volta la voce ansante della serva:
— È stato questa mattina, dopo la lettera. Poi, durante il giorno, è stata pallida, senza voler mangiare; e stasera il male le è tornato: ha delle convulsioni.
Sentì che esagerava e si fermò: la madre taceva. Per un momento vi fu, in quel buio, in quel silenzio, un mistero di morte: come di due nemici che si cercassero nella tenebra senza riuscire a trovarsi. Poi la stoppia del pagliericcio scricchiolò di nuovo: la madre doveva essersi seduta sul letto, perchè la sua voce chiara parve scendere dall’alto.
— Paulo, chi ti ha raccontato tutto questo? Può non esser vero.
Ed egli sentì ancora una volta ch’ella era come la sua coscienza che parlava: rispose subito, però:
— Ma può essere anche vero. E non è questo, mamma. È che ho paura ch’ella commetta qualche pazzia. Ê sola, in mano di serve. È necessario ch’io la veda.
— Paulo!
— È necessario, — egli ripetè, quasi gridando: ma voleva convincere più sé stesso che lei.
— Paulo, hai promesso.
— Ho promesso; ed appunto per questo vengo ad avvertirvi. Vi ripeto che è necessario ch’io vada: la coscienza me lo impone.
— Dimmi una cosa, Paulo. Sei certo di aver veduto la serva? La tentazione fa cattivi scherzi. Il demonio si traveste in tante forme.
Egli non capiva bene.
— Voi credete che io mentisca? Ho veduto la serva.
— Senti, anch’io ieri notte ho veduto l’antico parroco. Anche poco fa mi è parso di sentirne i passi. Ieri notte, — riprese sottovoce, — egli sedette accanto a me, davanti al camino. Ti dico che proprio l’ho veduto. Aveva la barba non rasa, e pochi denti neri in bocca, guasti dal troppo fumare. E le calze bucate. E mi disse: sono vivo e sono qui; e presto caccerò via te e tuo figlio dalla parrocchia. E mi disse che dovevo farti apprendere il mestiere di tuo padre, se volevo che tu non cadessi in peccato. Mi ha messo il turbamento nell’anima, Paulo, tanto che io non so se è bene o male quello che ho fatto. Ma sono convinta che era il demonio che mi si è seduto accanto, ieri notte, lo spirito del male. La serva che tu hai veduto poteva essere un’altra forma della tentazione.
Egli sorrideva, nel buio. Eppure vedeva ancora la figura fantastica della serva correre attraverso il prato, e suo malgrado provava un vago senso di terrore.
— Se tu vai là, — riprese la voce della madre, — sei certo di non ricadere? Anche se tu hai veduto in realtà la serva, e quella donna sta davvero male, sei certo di non ricadere?
Ma subito ella tacque. Le pareva di vederlo, pallido nel buio, e aveva pietà di lui. Perchè gli proibiva di tornare dalla donna? E se questa moriva davvero di dolore? Se lui stesso moriva di dolore? E sentiva la medesima ansiosa incertezza ch’egli aveva sentito per la sorte di Antioco.
— Dio mio, — sospirò: e ricordò di essersi già affidata a Dio. Lui solo può risolvere i nostri problemi. Il cuore le battè di sollievo, come avesse ella stessa risolto il suo problema. E non lo risolveva, appunto, affidandosi a Dio?
Tornò ad abbandonarsi sul letto, ma senza stendersi: e la sua voce fu di nuovo a livello di quella del figlio.
— Se la coscienza t’imponeva di andare, perchè non sei andato subito, senza venire qui?
— Perchè avevo promesso. E voi minacciavate di andarvene se io tornavo in quella casa. Ho giurato.... — egli disse con tristezza.
E fu per gridare:
— Madre, costringetemi a tenere il giuramento.
Ma non potè. D’altronde anche lei diceva:
— E allora va. Fa quello che la coscienza t’impone.
— Non inquietatevi, — egli disse allora, avvicinandosi rasente al letto: e rimase per qualche attimo immobile; e tutto fu di nuovo silenzio.
Aveva l’impressione confusa di essere come davanti a un altare, con la madre là sopra, idolo misterioso; e ricordava quando fanciullo, in Seminario, lo costringevano, dopo la confessione, a baciarle la mano. La stessa ripugnanza e la stessa esaltazione d’allora lo animavano; sentiva che se fosse stato solo, senza di lei, sarebbe già tornato da Agnese, stanco di tutta quella giornata di fuga e di lotta; la madre lo frenava, ed egli non sapeva se gliene era grato o no.
— Non inquietatevi! — Ma intanto desiderava e temeva ch’ella parlasse ancora, o accendesse il lume per vederlo bene negli occhi e leggendovi tutto il suo pensiero gli imponesse di non andare.
Ella stette ferma, silenziosa; poi il pagliericcio scricchiolò ancora: ella s’era stesa.
Ed egli andò.
Pensava che, dopo tutto, non era un vile: andava, non incosciente, non spinto dalla passione, ma perchè in sua coscienza sentiva che c’era forse un pericolo da scongiurare, e la responsabilità di questo pericolo era sua.
Rivedeva fra il nero argenteo dell’erba del prato il fantasma della serva che si volgeva a guardarlo con gli occhi lucenti e gli diceva:
— La mia piccola padrona si farà coraggio, se lei viene.
E tutta la sua giornata di fuga gli appariva ridicola e vile: il suo dovere era quello, di andare da lei, di farle coraggio: si sentiva lieve, quasi felice, attraversando il prato fresco, argenteo dì luna; gli sembrava di essere una grande farfalla notturna attratta da un lume. E scambiava questa sua gioia di rivedere fra pochi attimi Agnese con la gioia del dovere dì andare a salvarla.
Tutta la dolcezza dell’erba del prato, tutta la tenerezza del chiarore della luna gli bagnavano l’anima, gliela imbiancavano, gliela coprivano di rugiada, attraverso le sue nere vesti di morte.
Agnese, piccola padrona! Sì, era piccola, debole come una bambina; era sola, senza padre, senza madre, nel labirinto di pietre di quella sua casa oscura.
Ed egli aveva abusato di lei, l’aveva presa entro il suo pugno come un uccellino dal nido, stringendola fino a spremere il sangue vivo del suo corpo.
Affrettò il passo. No, non era un vile; eppure inciampò, sul primo degli scalini sotto la porta, ed ebbe l’impressione che la pietra stessa della soglia di lei lo respingesse: poi salì; salì piano piano, sollevò il battente freddo, lo lasciò ricadere timidamente.
E si sentì quasi umiliato perchè tardavano ad aprire; ma per nulla al mondo avrebbe picchiato una seconda volta.
Finalmente la lunetta a vetri sopra la porta s’illuminò, e la serva nera venne ad aprire, introducendolo subito nella stanza ch’egli ben conosceva.
Tutto era come nelle altre notti, quando Agnese lo faceva entrare furtivamente dall’orto; e l’uscio sull’orto era socchiuso e dal filo dell’apertura entrava l’odore dei cespugli bagnati di luna.
Le teste imbalsamate dei cervi e dei dàini, sulle pareti illuminate dal chiarore fermo della lampada, parevano affacciate a spiare, coi loro lucidi occhi neri di vetro, ciò che accadeva nella stanza: d’insolito c’era l’uscio verso le stanze interne spalancato; la serva era andata là dentro, e si sentivano i pavimenti di legno scricchiolare al suo passo: poi fu silenzio; poi d’improvviso un uscio si sbattè violentemente, come spinto da un impeto di vento: all’urto i pavimenti ondularono, tutta la casa parve tremare; ed egli provò un senso di angòscia nel veder subito dopo il viso pallido di Agnese rigato di strisce di capelli neri in disordine, emergere dall’ombra delle stanze buie come quello di una naufraga.
Ma presto tutta la piccola persona nera di lei fu nella luce della stanza ed egli respirò di sollievo.
Ella chiuse l’uscio dietro di sè e vi si appoggiò con le spalle, a testa bassa; e parve dovesse scivolare sul pavimento e cadere.
Egli le fu davanti, in punta di piedi: tese le mani ma non osò toccarla.
— Come sta? — domandò, sottovoce, come nei passati convegni. — Agnese, — aggiunse dopo un momento di angoscioso silenzio, poiché lei non rispondeva, ma tremava tutta appoggiando le mani all’indietro sull’uscio per sostenersi, — bisogna essere forti.
Ma, come nel leggere il Vangelo sopra la fanciulla indemoniata, sentì il suono falso delle sue parole; e abbassò gli occhi, mentre lei sollevava i suoi smarriti ancora eppure sfolgoranti di sdegno e di gioia.
— Perchè è venuto, allora?
— Mi dissero che stava male.
Ella si drizzò, fiera, si tolse con le mani il velo dei capelli dal viso.
— Io sto bene, e non ho mandato nessuno a chiamarla.
— Lo so. Ed io sono venuto egualmente: non c’era ragione perchè non dovessi venire. E sono contento che la sua domestica abbia esagerato e che lei stia bene.
— No, — ella insisteva, mentr’egli parlava, — io non ho mandato a chiamarla e lei non doveva venire. Ma poichè è qui.... poichè è qui, voglio domandarle perchè ha fatto così. Perchè? Perchè?
Gemiti striduli le troncavano la parola: tornò a piegarsi, con le mani che cercavano un sostegno: ed egli ebbe paura, si pentì di essere venuto. La prese per la mano e la condusse al canapè, dove si mettevano le altre sere: la fece sedere all’angolo ove il peso delle altre donne della famiglia di lei aveva scavato una specie di nicchia; e le sedette accanto, ma le lasciò la mano.
Aveva paura a toccarla: gli pareva una statua ch’egli avesse rotto e ricomposto e stesse lì in apparenza intatta ancora ma pronta a ricadere in frantumi al minimo urto. Per questo aveva paura a toccarla; pensava: — meglio così, sono salvo, — ma in fondo sentiva che da un momento all’altro poteva perdersi ancora e ch’era per questo che aveva paura a toccarla.
Guardandola bene, sotto la luce diretta della lampada, la vedeva ben diversa dal solito: la bocca s’era sfatta e la pelle delle labbra, d’un color rosa grigiastro, ricordava ì petali appassiti delle rose: l’ovale del viso s’era allungato, gli zigomi si sporgevano sotto le occhiaie livide. In un solo giorno il dolore l’aveva invecchiata di vent’anni; ma qualche cosa d’infantile era ancora nell’espressione della bocca tremante sopra i denti stretti a rattenere il pianto, e nelle piccole mani di cui una, abbandonata dolente sulla stoffa scura del canapè, attirava quella di lui. Ed egli sentiva rabbia di non poterla riprendere, la piccola mano triste, e di riallacciare subito la catena rotta delle loro vite.
Ricordava le parole dell’indemoniato a Cristo:
— Che c’è tra me e te?
E ricominciò a parlarle stringendosi l’una con l’altra le mani come per impedir loro di riprendere quella dì lei; ma continuava a sentire il suono falso delle sue parole, e come quella mattina in chiesa e nel leggere il Vangelo e nel porgere il Viatico al vecchio cacciatore, sapeva di mentire.
— Agnese, mi ascolti. Ieri sera eravamo sull’orlo dell’abisso: Dìo ci aveva abbandonati a noi stessi, e noi ci lasciavamo andare giù nel precipìzio. Ma adesso Dio ci ha ripreso per mano e ci guida. Bisogna stare in alto, Agnese, Agnese, — ripetè pronunziando con intensità quel nome, — tu credi che io non soffra? Mi sembra di essere sepolto vivo, e che il mio supplizio debba durare tutta l’eternità: ma è necessario che sia così; per il tuo bene, per la tua salvezza. Ascoltami, Agnese; sii forte. Per lo stesso amore che ci ha unito, per lo stesso bene che Dio ci fa nel metterci a questa prova. Tu mi dimenticherai: tu guarirai: sei tanto giovane; la vita è ancora intatta davanti a te; ti parrà, ricordandoti di me, di aver sognato un brutto sogno; di esserti smarrita nella valle e di aver trovato un cattivo essere che cercava di farti del male: ma Dio ti ha salvato, perchè meritavi di essere salvata. Tutto ti sembra nero, adesso, ma fra poco, vedrai, tutto ritornerà chiaro, e sentirai quanto bene ti faccio, adesso.
Causandoti un po’ di dolore momentaneo, come si fa coi malati coi quali bisogna essere crudeli....
Non proseguì, vinto da un senso di gelo. Agnese s’era di nuovo rianimata; s’era sollevata rigida nel suo angolo e lo fissava con gli occhi un po’ vitrei come quelli dei dàini sulle pareti. Ed egli ricordava gli occhi delle donne in chiesa quando egli faceva il sermone.
Agnese parve aspettare ch’egli continuasse; e c’era pazienza e mansuetudine nel suo atteggiamento, ma pronte a sparire al minimo urto: infatti, poiché egli non proseguiva, ella disse sottovoce, scuotendo la testa in segno di diniego:
— No, no, la verità non è questa.
Ed egli si protese verso di lei con viso ansioso.
— Qual’è dunque la verità?
— Perchè non parlavi così ieri sera? E le altre sere? Perchè la verità era allora un’altra. Adesso qualcuno ti ha scoperto, forse tua madre stessa, e tu hai paura del mondo. Non è la paura di Dio che ti spinge a lasciarmi.
Egli ebbe voglia di gridare, di batterla: le afferrò la mano e le torse un poco il polso sottile: così avrebbe voluto torcere e stroncare le parole di lei. Poi si tirò indietro e si sollevò.
— E sia! E ti pare nulla? Sì, mia madre si è accorta di tutto, e mi ha parlato come la mia coscienza stessa. E tu, e tu la coscienza non ce l’hai? Ti pare giusto che noi dobbiamo fare del male a chi vive solo di noi? Tu volevi che noi si fuggisse, si vivesse assieme; ed era giusto, questo, se non potevamo rinunziare ad amarci; ma poichè esistono delle creature che la nostra fuga e il nostro peccato stroncherebbero, è necessario sacrificarsi per loro.
Ma ella pareva non ascoltasse che qualche parola staccata di lui; e continuava ad accennar di no con la testa.
— La coscienza? Certo, ce l’ho anch’io: non sono più una bambina; e la mia coscienza mi dice che ho fatto male a darti ascolto, ad accoglierti qua dentro. Ma adesso come si fa? Adesso è troppo tardi. Perchè Dio non ti ha illuminato prima? Sono forse venuta io, nella tua casa? Sei venuto tu, nella mia, e mi hai preso come una bambina al gioco. E adesso, come devo fare? Dillo tu, come devo fare. Io non posso dimenticarti, non posso cambiarmi come ti cambi tu. Io voglio andarmene lo stesso, anche se tu non vieni; voglio cercare di dimenticarti. Voglio andarmene.... oppure....
— Oppure?
Agnese non rispose: si rannicchiò nel suo angolo e rabbrividì. Qualche cosa di tenebroso, l’ala nera della follia dovette sfiorarla, perchè gli occhi le si velarono, e con la mano fece un gesto istintivo, come per scacciare davanti a sè un’ombra: ed egli tornò a piegarsi verso di lei quasi bocconi sul canapè, e strappò i fili della vecchia stoffa con l’impressione di graffiare un muro che gli sorgeva davanti e lo soffocava.
Non poteva più parlare. Sì, aveva ragione lei: la verità non era quella che egli cercava di farle intendere, la verità era quel muro che lo soffocava e che egli non sapeva abbattere. Balzò, preso da un reale senso di soffocamento.
Fu adesso lei ad afferrargli la mano e stringergli le dita con le sue divenute uncini.
— Dio, — mormorò, mentre con l’altra mano si copriva gli occhi, — Dio, se esiste, non doveva permettere d’incontrarci, se era per dividerci. E se tu sei tornato, stasera, è perchè mi vuoi bene sempre. Tu credi che io non lo sappia? Lo so, Io so. La verità è questa.
E sollevò il viso verso di lui, con la bocca tremante, le ciglia, fra dito e dito, che si sbattevano imperlate di lagrime. Egli vide come un tremolio d’acqua profonda, che abbagliava e attirava, in quel volto che non era più il volto di una donna, nè quello di Agnese, ma il volto stesso dell’amore: e le ricadde accanto e la baciò sulla bocca.
E gli parve davvero di cadere lentamente, attortigliato da un vortice in una profondità liquida luminosa, in un luogo sottomarino vertiginoso d’iridescenze.
Poi risalì a galla, staccandosi dalla bocca di lei, e si trovò come il naufrago sulla sabbia: stroncato, pieno di terrore e di gioia, ma più terrore che gioia.
E l’incanto che gli era parso rotto per sempre, e appunto per questo più bello, ricominciò.
Sentì di nuovo il soffio della voce di lei.
— Sai, sai, io sapevo che saresti tornato....
Non volle sentire altro, come nella casa di Antioco, quando parlava la serva: le mise una mano sulla bocca, mentre ella gli appoggiava la testa sulla spalla, e poi le accarezzò lieve i capelli che il riflesso della lampada indorava; così piccola, così abbandonata sopra di lui, ecco dunque ella aveva la potenza terribile di trascinarlo in fondo al mare, di sollevarlo sull’abisso del cielo, di fare di lui un essere senza volontà. Mentre lui fuggiva per la valle e per l'altipiano, ella, chiusa nella sua prigione, lo aspettava e sapeva che sarebbe tornato.
— Sai, sai....
Ella cercava di parlare ancora; il soffio della sua bocca gli correva intorno al collo come un laccio. Egli le rimise la mano sulla bocca ed ella con la sua ve la premette forte. Stettero così, in silenzio, in attesa: poi egli si riprese, tentò di ritornare padrone della sua sorte. Sì, era tornato, ma non più quale lei lo aspettava. E continuava a guardarle i capelli dorati, ma come una cosa lontana, come il tremolìo fulgido del mare dal quale era scampato.
— Adesso sei contenta, — mormorò; — sono qui, sono tornato e sono tuo per la vita. Ma tu devi essere calma; mi hai fatto tanta paura. Non devi agitarti, non devi per nulla interrompere la linea della tua vita. Io non ti darò più nessun dolore, ma tu devi promettermi di essere calma, buona, così come adesso.
Sentì le mani di lei tremare, agitarsi fra le sue: capì che ella già ricominciava a ribellarsi; gliele strinse forte; così avrebbe voluto tenerle ferma prigioniera l’anima.
— Buona, Agnese! Ascoltami: tu non saprai mai quello che io ho sofferto, oggi; ma era necessario. Mi sono tolto di dosso tanta scorza impura, mi sono scorticato a sangue; adesso sono qui, tuo, sì, come Dio vuole che io sia tuo, tutto anima.
— Vedi, — riprese lentamente, stentatamente, come scavando le parole dal suo più profondo interno, e porgendogliele: — ho l’impressione che ci siamo amati da anni ed anni; che tutto abbiamo goduto e sofferto l’uno per l’altro, fino all’odio, fino alla morte. E tutte le tempeste del mare, tutta la sua implacabile vita è dentro di noi. Ci sbattiamo e sbattiamo e siamo sempre dentro di noi. Agnese, anima mia, che cosa vuoi da me più di quello che posso darti: l’anima mia?
D’un tratto tacque. Sentì ch’ella non capiva. Non poteva capire. E la vedeva sempre più distaccata da lui, come la vita dalla morte: ma appunto per questo sentiva di amarla ancora, anzi sempre più, come la vita chi muore.
Piano ella sollevò la testa, e cercò con gli occhi ridivenuti ostili gli occhi di lui.
— Tu pure ascoltami, — disse, — non ingannarmi più. Dobbiamo o no andar via, come ieri notte s’era combinato? Così non si può vivere, qui, in questo modo. Lo so.
— Lo so! — riprese, irritandosi, dopo un momento di penoso silenzio. — Se si ha da vivere assieme partiamo subito, stanotte stessa. Ho i denari, lo sai: li ho, sono miei. E tua madre, e ì miei fratelli, e tutti ci scuseranno, dopo, quando vedranno che noi abbiamo voluto vivere nella verità. Così no, certo, così non si può vivere più.
— Agnese!
— Rispondimi subito; ebbene, lascia stare le altre parole.
— Io non posso fuggire con te.
— Ah, e allora perchè sei tornato? Lasciami, vattene. Lasciami!
Egli non la lasciava. La sentiva fremere tutta; aveva paura di lei; e poichè la vide piegarsi sulle loro mani unite ebbe l’impressione che volesse morderlo.
— Vattene, vattene, — ella insisteva; — non sono io che ti ho mandato a chiamare. Giacchè bisogna essere forti, perchè sei tornato? perchè mi hai baciata ancora? Ah, se tu credi di poterti prendere gioco di me ti sbagli; se tu credi di poter venire qui la notte, e di giorno scrivermi lettere umilianti, ti sbagli. Come sei tornato stanotte, tornerai domani notte e poi ogni notte ancora. E finirai col farmi impazzire. Ma io non voglio, no, non voglio!
— Bisogna essere puri e forti, dici tu, — riprese ancora, mentre il viso invecchiato e tragico le si sbiancava mortalmente; — ma lo dici solo adesso. Mi fai orrore. Vattene lontano, sai, questa notte stessa. Ch’io domani mi svegli e non abbia più il terrore di aspettarti e di essere umiliata così.
— Dio, Dio! — egli gemette, piegandosi sopra di lei. Ma ella lo respingeva, oramai.
— Credi di parlare con una bambina? Sono vecchia; mi hai fatto invecchiare tu, in poche ore. La linea dritta della vita! Ah, sarebbe quella di continuare la tresca così, di nascosto, vero? Di trovarmi uno sposo, io; di far celebrare le mie nozze da te.... e continuare a vederci, e ingannare tutti per tutta la vita? Va, va, tu non mi conosci, se credi questo. Tu ieri notte dicevi: sì, andiamo via; io lavorerò, saremo sposi. Hai detto questo? Lo hai detto? E questa notte invece vieni a parlarmi di Dio e di sacrifizio. E allora sia finita. Lasciamoci; ma tu, ripeto, devi andar via dal paese questa notte stessa. Io non voglio vederti più. Se tu domani mattina celebri ancora la messa nella nostra chiesa io vengo, e dall’altare dico al popolo: questo è il vostro santo, che di giorno opera i miracoli e la notte va dalle ragazze sole per sedurle.
Egli tentò di chiuderle ancora la bocca con la mano: e poichè ella continuava a ripetere ad alta voce «vattene, vattene», le afferrò la testa, se la strinse al petto, guardò spaurito verso gli usci chiusi. Ricordava le parole della madre, la voce che risonava misteriosa nel buio: l’antico parroco s’è seduto accanto a me e disse: caccerò presto via te e tuo figlio dalla parrocchia.
— Agnese, Agnese, tu deliri, — le gemette sul collo, mentr’ella si scuoteva tutta per sfuggirgli, — Càlmati, ascoltami; nulla è perduto. Non senti come ti amo? Mille volte più di prima. E non me ne andrò, no. Voglio starti vicino per salvarti; per offrirti l’anima mia come la offrirò a Dio nell’ora della morte. Che ne sai tu di quello che ho sofferto da ieri notte a quest’ora? Fuggivo e ti portavo con me; fuggivo come uno che ha il fuoco addosso e correndo crede di liberarsene mentre la fiamma lo avvolge di più. Dove non sono stato, oggi? Cosa non ho fatto oggi per non tornare qui? Invece eccomi qui; sono qui, Agnese, come posso non essere qui? Mi senti? Io non ti tradisco, non ti dimentico; non voglio dimenticarti. Ma bisogna restare puri, Agnese; bisogna conservarlo per l’eternità l’amor nostro, confonderlo con le cose migliori della vita, col dolore, con la rinunzia, con la morte stessa, cioè con Dio. Le intendi queste cose, Agnese? Sì, che le intendi, sì: dimmelo.
Ella lo respingeva: pareva volesse sfondargli il petto con la testa; finchè riuscì a svincolarsi e tornò ad ergersi sul busto, rigida, coi bei capelli di raso attortigliati come nastri intorno al volto duro.
La bocca chiusa, le palpebre abbassate, pareva si fosse d’improvviso addormentata di un sonno austero pieno di un sogno di vendetta. Ed egli ebbe più paura di quel silenzio e di quell’immobilità che delle parole insensate e dei moti convulsi di lei.
Le riprese le mani, gliele strinse fra le sue: ma erano, tutte e quattro, mani oramai morte alla gioia, alla stretta d’amore.
— Agnese, vedi che mi dai retta? Sei buona, tu; adesso andrai a riposarti, e domani ricomincerà per tutti una vita nuova. Ci vedremo lo stesso, sempre che tu vorrai: sarò il tuo amico, il tuo fratello: ci sosterremo a vicenda. La mia vita è tua: disponi di me come tu vuoi. Fino all’ora della morte sarò con te, e al di là ancora, per l’eternità.
Quel tono di preghiera la irritò di nuovo. Torse un poco le sue mani entro quelle di lui, mosse le labbra per parlare, poi, come egli la lasciava libera, raccolse le mani sul grembo, reclinò la testa: e tutto fu dolore, ma ormai dolore fermo, disperato, sul viso di lei.
Egli non cessava di guardarla, come si guarda un moribondo: e la sua paura cresceva: le scivolò ai piedi, le pose la fronte sul grembo, le baciò le mani; non gli importava più che potessero vederlo, che potessero sentirlo: era lì, ai piedi della donna e del dolore di lei come Gesù deposto sul grembo della Madre.
Gli sembrava di non essersi mai sentito così puro, così morto alla vita terrena; tuttavia aveva paura.
Agnese rimaneva immobile con le mani fredde, insensìbili a quei baci di morte: egli si sollevò e ricominciò a mentire.
— Ti ringrazio, Agnese. Così va bene, così sono contento. La prova è superata. Adesso sta su, tranquilla. Adesso vado. Domani mattina — aggiunse sottovoce, chinandosi timido — verrai alla messa e offriremo assieme il sacrifizio nostro a Dio.
Ella riaprì gli occhi, lo guardò, li richiuse: pareva ferita a morte, e che i suoi occhi si fossero spalancati un’ultima volta, supplichevoli e minacciosi, prima di chiudersi per sempre.
— Tu questa notte te ne andrai lontano, che io non ti veda più, — disse scandendo le sillabe; ed egli pensò che, almeno per il momento, era inutile combattere contro quella forza cieca.
— Io non posso andarmene così, — mormorò — Domani mattina celebrerò la messa, e tu verrai ad ascoltarla: dopo, se sarà necessario, me ne andrò.
— Io verrò, domani mattina, e ti accuserò al popolo.
— Se tu farai questo è segno che Dio lo vuole. Ma tu non lo farai, Agnese. Tu puoi odiarmi, ma io ti lascio in pace. Addio.
Ma non se ne andava. Rigido, la guardava dall’alto; e i capelli di lei, molli, lucenti anche nell’ombra, i dolci capelli che egli amava e che tante volte avevano attirato le palme delle sue mani, gli destavano pietà: gli sembravano la benda nera con la quale si fasciano le ferite alla testa.
La chiamò un’ultima volta:
— Agnese?
— È possibile che ci lasciamo così? — aggiunse. — Dammi la mano, alzati: aprimi la porta.
Ella si alzò e parve obbedire; ma non gli porse la mano, e andò dritta verso l’uscio dond’era venuta.
Là si fermò, aspettando.
— Che posso fare? — egli domandò a sè stesso. E sapeva bene che non c’era che un mezzo per placarla: ricaderle ai piedi, peccare e perdersi con lei.
Ed egli non voleva, non voleva più. Rimase fermo al suo posto e abbassò gli occhi per sfuggire allo sguardo di lei: quando tornò a sollevarli, ella non c’era più: scomparsa, ingoiata dal buio della sua casa silenziosa.
Dall’alto delle pareti gli occhi di vetro dei cervi e dei daini lo guardavano con tristezza ma anche con derisione. E in quel momento di attesa, solo nella grande stanza melanconica, egli sentì tutta la sua miseria e la sua umiliazione: gli sembrò di essere un ladro, peggio che un ladro, un ospite che ruba profittando della solitudine della casa amica.
E abbassò ancora gli occhi per sfuggire anche allo sguardo delle teste sul muro; ma non esitò un momento, e anche se il grido di morte della donna avesse riempito d’orrore il silenzio della casa, egli non si sarebbe più pentito di averla respinta.
Attese ancora qualche minuto. Nessuno compariva. E gli pareva d’essere in mezzo al mondo morto dei suoi sogni e dei suoi errori, in attesa di qualcuno che lo aiutasse ad uscirne. Nessuno compariva. Allora andò alla porta sull’orto, attraversò il vialetto lungo il muro, sotto l’ombra nera dei fichi, e uscì per la porticina che ben conosceva.