La fine di un Regno (1909)/Parte I/Capitolo VIII
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CAPITOLO VIII
La vita sociale è rivelata in gran parte da nella dei teatri dei giornali, riferita nel capitolo antecedente e che sarà in questo capitolo più completamente riferita. Sino al 1859, cioè sino alla morte di Ferdinando II, la vita sociale fa davvero povera cosa. Al fine di non destare i sospetti della polizia, dai quali nessuna classe andava immane, la cronaca dei grandi divertimenti offre ben poco, se se ne eccettui qualche ballo di ministro estero, perchè non tutti avevano questa abitudine, qualche rara festa a Corte o all’Accademia; da Meuriooffre o da Sorvillo. I divertimenti non uscivano dai confini della propria coterie, e consistevano principalmente in innocenti rappresentazioni filodrammatiche, secondo la vecchia tradizione della nobiltà italiana e della napoletana in ispecie, ed anche della ricca borghesia. Quasi non vi era grande palazzo, a cominciare dalle reggie di Napoli o di Caserta, dove non vi fosse il teatrino, il quale si apriva a intervalli, e dove alla presenza di amici e convitati si recitavano drammi e commedie, e all’occorrenza, delle tragedie, e la recita finiva ordinariamente in ballo e cena, e in una cronaoa laudatoria dell’Omnibus o del Nomade.
La sera del 10 giugno 1857 innanzi ad un gran pubblico di invitati, si rappresentò, nel teatrino, di casa Lucchesi Palli, il noto dramma Luigi Rolla. L’interpretarono Ottavio Serena, protagonista, Ernesto Cassitto, il conte Eduardo Lucchesi, Maddalena Torelli, Massimo Consalvi, Achille Torelli, Lorenzo de Francesco e Alfonso Cassitto: “tutti egregi giovani — scriveva il Nomade — e degni veramente d’ogni lode, non solo già pel nobile fino che si hanno proposto, ma eziandio pei rapidi progressi, che sempre più essi fanno nella bellissima arte della drammatica„. Pochi mesi dopo, in casa del barone Proto Cicconi, la baronessa, la signorina Del Casale, i fratelli Bisceglie, i signori Santoro, Romeo e Pelsen recitarono la Pia dei Tolomei del Marenco, Il sistema di Giorgio di Del Testa, i Due sergenti e alcune farse. Ma portavano la palma su tutti l’elegante teatro del conte di Siracusa e quello di casa Craven al Chiatamone. La sera del 15 marzo 1858 si rappresentò al teatrino di don Leopoldo di Borbone, con un allestimento scenioo splendidissimo, Alda, la Stella di Mantova, dramma in versi, scritto appositamente dal duca Proto e inteso dimostrare che la vera bellezza non solo può condurre a virtù un cuore pervertito, ma comporre vecchi odii di parte. La duchessa Ravasohieri era Alda; Marcello Gallo, Luigi II da Gonzaga, marchese di Mantova; Camillo Oaracciolo, l’Astrologo della Certosa, Giovanni Barracco, Marcantonio Soranzo, gentiluomo veneziano; Marcello Spinelli, Liborio di San Zenone, podestà; Odorisio Maltraverso, siniscalco. Questa parte era affidata a Giovanni Barracco, ma egli la rifiutò, preferendo l’altra non odiosa dell’Astrologo che l’accettò invece il marchese Santorelli, il quale da poco era divenuto marito della Fanny Sadowski. Quella rappresentazione fu un clamoroso avvenimento. Vi assistettero la Corte e la diplomazia. Erano in prima fila il re, la regina, il duca di Calabria, i principi, tutta l’alta nobiltà di Napoli, tutto l’olimpo delle maggiori bellezze e anche Adolfo Rothschild. La duchessa Ravaschieri era splendida, vestita di bianco, con un diadema di brillanti sul capo. Quando, alla scena quarta, ella comparve sul palcoscenico, uscendo da una stella, fu un coro di ammirazioni e di applausi. Disse stupendamente la ballata e queste prime strofe, sulle sue labbra, persero molto della loro stiracchiatura:
Odo musiche e ballate, |
E più innanzi, animandosi ancora di più, ed eccitata dalla voce della sua intima amica, la bella principessa di Camporeale che era fra le quinte e le diceva: coraggio, Teresa, ci va della patria! riportò un grande successo quando recitò, con intelligente significato, due stanze le quali hanno bisogno di una spiegazione. Nel mondo liberale e intellettuale di allora si sognava un’unione molto intima fra Napoli e il Piemonte: i due regni, uniti fra loro, avrebbero dovuto essere gli arbitri dell’Italia, liberata dai piccoli principi e indipendente dallo straniero. Di questa lega doveva esser pegno un matrimonio fra il duca di Calabria, che contava ventun anno e la principessa Clotilde di Savoia, che ne contava quindici. La Stella di Mantova doveva suggerire al re quest’idea e deciderlo ad attuarla! Alda, dunque, rivolta al marchese di Mantova, declamò queste due stanze, il cui senso, benché ascoso, era chiarissimo e muoveva la principessa di Camporeale a gridar dalle quinte: coraggio, Teresa, ci va della patria!
Ma bada: ai pargoli che vuoi felici |
Un fremito scosse tutta la sala, ma il solo che si mostrasse indifferente e quasi inconscio, fu il principe ereditario, il quale durante lo spettacolo tenne quasi sempre gli occhi bassi, intento solo a stropicciarsi le ginocchia. Quei lumi, quella gente, tanta ricchezza di vita non ebbero la virtù di commuoverlo! Il re parve contento dello spettacolo, ma quando fu finito, levandosi per andar via, disse non senza sarcasmo a voce alta: "Vì che m’ha fatto ’a duchessa stasera!„1 E veramente Alda fu l’eroina dello spettacolo, al principio del quale avvenne un incidente imbarazzante. Dimenticando la presenza di Adolfo Rothschild, il Siniscalco, nella seconda scena dell’atto primo, disse al Podestà com’era scritto nel dramma:
. . . . . . . . . . . . . . . è forse |
Attori e pubblico si avvidero della inopportunità di questi versi, ma quando più rimedio non v’era. Rothschild finse di non essersene accorto.
Della Stella di Mantova, piena di allusioni e dove, all’ultima scena, l’Astrologo diceva al Marchese di Mantova con enfatico accento:
. . . . . . . . . . . . più chiara |
Il conte di Siracusa ebbe, a suggerimento del Fiorelli, due idee geniali: far innalzare nel più interno dei cortili del suo palazzo un teatro greco, in legno, a scaglioni, e farvi recitare l’Agammenone di Eschilo e una commedia d’Aristofane; e l’altra di far cantare nel vecchio teatrino il Matrimonio segreto, ma dalla rappresentazione greca fa distolto da Camillo Caracciolo, onde Alfonso Casanova scriveva all’Antonacci.... A Monaco di Baviera, a Dresda, a Venezia, a Firenze si è sempre usato di portar sulla scena moderna questi gran monumenti dell’ingegno umano: anzi i giornali ci hanno detto essere stata recitata a Parigi l’intera trilogia, Agammenone, Oreste, l’Eumenidi.... Perchè condannare questo recitar d’Eschilo?...
Lo stesso Alfonso dava contezza al cognato di un concerto nel teatrino del conte, con le consuete enfatiche parole:..." troverai anche annesso a queste poche righe un programma della musica, che sabato avemmo in casa di S. A il conte di Siracusa. Aggiungo che monsieur Hauman, intorno al quale forse sarai curioso, è un abilissimo anzi straordinario cercatore e superatore delle difficoltà che il violino offre, ma queste parole forse
Sono biasmi e paion lodi...
Certo è che, quando dopo i suoi trilli, i suoi balzi, le sue corde acutissime, scappò fuori una volta l’orchestra intonando, nella sua divina nudezza e semplicità, il canto donizettiano:
Tu che al ciel...
mi sentii fremer l’anima dentro, e chieder conto a me stesso degli applausi a che l’esempio della folla mi aveva già prima adescato. Eravamo in numero di poco più di ottanta; ma il fiore. Gelati, dolci e tutte le bravure di don Vincenzo,2 che sai: e poi una tavola da thè abbondantissima. Io me ne andai con gli ultimi, pooo dopo le due. Fra le beautée della raccolta primeggiava, non foss’altro per la novità la bella moglie dell’Hauman,...
Degli attori del teatrino Lucchesi Palli, Ottavio Serena è senatore e presidente al Consiglio di stato, e ora che scrivo è grande inquisitore sulla istruzione pubblica; Achille Torelli è sempre alla ricerca di quell’ideale, ch’è il tormento tenace di tanti nobili spiriti napoletani; Maddalena, sua sorella, è morta, ed Edoardo Lucchesi che sposò una Sant’Elia, fece nel 1888 alla biblioteca nazionale di Napoli un dono veramente principesco, arricchendola della sua copiosa collezione di libri e di opere musicali e e con la dotazione di un’annua rendita di tremila lire. Vi si contengono più di settanta mila produzioni teatrali e una raccolta completa di giornali napoletani, dal 1848 al 1860, e preziosi autografi di Rossini, Bellini, Verdi, List, Wagner, Mercadante, non che una importante collezione di allegazioni scritte dai più illustri avvocati napoletani, fra le quali tutte quelle di Domenico Capitelli, raccolte in diciotto grandi volumi in folio. Occuperanno due sale, che il generoso e compianto donatore ha fatte decorare a sue spese da Ignazio Perricci e da Paolo Veltri. Larghezza che trova solo riscontro in quella, che Gaetano Filangieri fece del museo di sua famiglia alla città di Napoli, raccolto e ordinato nel palazzo Como.
Un occasione di divertimenti era l’arrivo di qualche sovrano straniero, che lasciava sperare balli o spettacoli di gala. Sulla fine di giugno del 1856 arrivò in forma pubblica il re di Portogallo sopra un vapore francese, la Reine Hortense, che Napoleone III aveva messo a disposizione di lui. Fu costruito un magnifico sbarcatoio all’Immacolatella, e vi andò il re coi principi ad attendere l’ospite illustre. Tutta Napoli corse a vedere quell’arrivo. Col re di Portogallo v’era il figlio duca d’Oporto. Fu allestito un balletto al Fondo in suo onore, e poi vi fu la recita degl’Innamorati di Goldoni, che piacque ai portoghesi. La sera tal 7 luglio si aprì la reggia a un gran ballo con duemila invitati, ma ahimè! senza cena e con l’ordine di terminare all’ una e mezza, dovendo gli angusti ospiti con la famiglia reale recarsi sul Vesuvio a godere del sorgere del sole! E a proposito di quel ballo vi è una lettera di Alfonso, che riferisce un grazioso aneddoto; ma per quanto io abbia fatto, non mi è riuscito sapere chi fosse il conte dai capelli pagati. Quel mondo è oggi tutto un cimitero. Alfonso scriveva al cognato:
“Avant’ieri, S. A. il conte di Siracusa, andò a Sorrento. Pare che oi rimarrà un par di meni. Ti dirò una storiella. Questa volta il conte dai capelli pagati, facendosi raccomandare da S. A. è riuscito ad ottenere il suo invito per il ballo di sabato. L’indomani, al pranzo di Corte, il re domandò al fratello,(che peraltro non era stato al festino): Sapessi per caso chi era un giovine, in abito di cavalier di Malta, con dei capelli neri, ma d’un nero assai curioso, e due gambe magre e storte?. La risposta sarebbe stata tanto facile, quanto era facile a capire che bisognava non rispondere. L’interrogato adunque fe’ vista di non riuscire a indovinarlo, e mostrò di credere che avesse potato essere Ciccillo Cattaneo: Che Cattaneo! questo qui lo conosco, ed è un bel giovine; quando invece quello di cui ti parlo mi pare l’otricolo degli otricoli (allusione ad una frase di Tiddei negli Innamorati). Chi toglierà più questo soprannome al povero conte? Sarebbe più agevole togliergli ad un tratto i capelli del capo„!
Sfogliando quel carteggio, quanti nomi e ricordi e aneddoti vengon fuori! Sarà bene ricordarne alcuni. Alfonso riferiva all’Antonacci tutto ciò che faceva, e le sue lettere hanno sempre qualche cosa d’interessante e riboccano di lirismo.
E chiudeva la curiosa lettera:
Oh, veramente |
E in altra:
E in altra, pure del 1855:
Usurpando poi la parte d’informatore teatrale al fratello Cesare, scriveva:
E mutandosi in informatore politico, confidava al cognato:
E infine, sempre dello stesso anno, queste significanti parole:
Era un mondo caratteristicamente familiare, con una ricca dose di bonarietà, e più ancora di credulità. Si giocava forte in alcune case signorili, e una sera in casa Pignatelli di Monteleone un giovane signore vi perdette dodici mila ducati, somma che in quei tempi aveva, come perdita di giuoco, qualche cosa di fantastico, e che parve un vero scandalo„. I due fratelli Giunti specialmente don Nicola, scriveva Cesare Casanova, fanno mirabilia alla gran partita di lansquenet. I vincitori di quella sera furono Guardati, Flecher, ed indovina un pò chi vinse duecento napoleoni?... Passariello! Questa partita è uno scendalo e non si parla d’altro in tutta la città... I fratelli Giunti erano ricchi signori calabresi; Guardati apparteneva a nobile famiglia sorrentina Flecher commerciante e banchiere, e Passariello, piccolo passero era soprannominato il figlio del Principe Prospero Cimitile.
Negli anni 1854 e 1855 Napoli, anzi tutto il Regno fu invaso dal colera, che fece alcune vittime anche nel mondo signorile. Il morbo non era davvero gravissimo, ma alcuni casi spaventavano la gente. Nel carteggio dei fratelli Casanova si leggono notizie assai curiose. Cesare scriveva:
E sette giorni dopo:
E difatti quel testamento fu oggetto di generale biasimo, soprattutto quando, sgravatasi la vedova, venne al mondo un’altra bambina. Il Compagna pagò un tributo al pregiudizio tutto calabrese di perpetuare i patrimoni nelle famiglie, cercando di frodare le donne, e non dando moglie che ai primogeniti, o a uno solo di ogni generazione. La vedova Compagna era Giulia Pandola, sorella di Ferdinando, il quale entrava allora nel mondo, affermandosi uno dei maggiori lions della moda. Ella si rimaritò nel 1861 al marchese Rodolfo d’Afflitto, prefetto di Genova; e delle figliuole avute dal primo letto sopravvive una sola, li duchessa di Melito.
Il colera fece parecchie vittime illustri nel 1855. Ne fa colpito il ministro D’Urso, che poi morì d’accidente; morirono fra gli altri Gaetano Serra e la contessa di Balsorano: però la popolazione non dette in iscandescenze, nè si lasciò vincere dalle tradizionali paure dei veleni: solo vi erano le cosidette processioni di penitenza con le relative caratteristiche salmodie. Ma i i teatri seguitarono ad essere frequentati, compreso il San Carlo; aperti al pubblico i giuochi al casino reale della Favorita, onde il giovedì e la domenica vi andava tanta gente, che i treni partivano ogni dieci minuti, oltre alle persone che vi andavano in carrozza. Erano giuochi bellissimi. Si aspettavano arciduchi austriaci e principi d’Orlèans; s’imbastivano matrimonî, e levò tumore il fidanzamento di Marcello Gallo con una giovane figliuola del principe di Ruffano. Era corsa voce che Marcello avrebbe sposato una Ricci di Firenze. Egli era uno dei giovani più eleganti e galanti: filodrammatico e ballerino, artista e soprattutto bel giovane. Cesare Casanova, curioso e smanioso di far sapere al cognato gli avvenimenti maggiori della società, ne dava l’annunzio il 29 dicembre in forma iperbolica:
E riferiva anche, nella sua vena inesauribile di cronista, che Baciccio Gioia, come gli amici chiamavano Giambattista Serra, che poi fa principe di Gerace, oominoiò a far la corte in quel mese di ottobre a Titina Forli, che sposò l’anno dopo e dette un gran ballo; e che Peppino Pignatelli e la prima figlia di Cassano si erano fidanzati. Annunziava un combinato matrimonio di Gioacchino Cutinelli con la G. senza altra indicazione, ma aggiungeva che non si sarebbe fatto. Strana cosa: Gioacchino Cutinelli sposò, molti anni dopo, Laura Antonacci, prima figliuola di Giuseppe e nipote di Cesare.
Nonostante il colera, non mancavano ricevimenti e pranzi per gli onomastici, onde Cesare poteva scrivere da vero stoico: Colera in cielo, in terra e dappertutto: eppure vi si pensa pochissimo, e molti chiedono del bollettino dei colerosi come si ricerca un bollettino di Crimea, ma tatti mangiano come prima. E pochi giorni dopo scriveva... Dimenticavo dirti che tutta Napoli i in rumore per la visione che ha avuto tre giorni or sono, il p. Quaranta agostiniano, cui è comparsa di notte la beata Francesca delle cinque piaghe, che gli ha predetto che il colera finirebbe pel dì 25. È tanto bella la promessa che io credo quasi alla visione, e se si avvera la profezia, sarò il più devoto di questa Beata. Non si parla d’altro„.
La verità è, che tutti avevano paura del morbo, ma vi si mostravano più rassegnati. L’anno prima la strage e la paura erano state maggiori. La mancanza di mezzi celeri di trasporto impediva che si cercasse scampo nei paesi lontani. La Corte si era ritirata a Caserta, perchè i sovrani avevano più paura dei sudditi. Fra le vittime più compiante vi fu un giovane di grande avvenire, unico figliuolo di famiglia signorile e doviziosa di Puglia, Celio Sabini di Altamura. Aveva ventun anno e morì l’otto agosto 1854 nelle braccia del suo fraterno amico Ottavio Serena, il quale ne tessè l’elogio alcuni anni dopo, e lo ricorda con profondo affetto, come ricorda pure che nella notte in cui il Sabini morì, egli, Serena, tracannò una bottiglia di laudano, che non lo spedì all’altro mondo, ma lo fece dormire ventiquattr’ore di seguito, e lo salvò dal morbo. La vittima più illustre del colera in quell’anno fu Domenico Capitelli, che lasciò due figli di tenera età: Guglielmo e Antonietta, oggi contessa Balbi Valier.
Un altro infortunio colpì Napoli in quell’anno, e sarà bene riferirlo con le parole stesse adoperate da Alfonso Casanova.
Nel momento di chiudere questa mia, scritta ieri sera, (poichè il tristo annunzio giungerà certo da voi con questa medesima posta), ti dirò che stamane un cinque minuti prima del mezzogiorno si è intesa dai siti più estremi della città una fortissima detonazione Era lo scoppio di una caldaia nella fonderia dei cannoni al Castelnuovo. Due piani sono saltati in aria! I danni prodotti pare che siano dovuti essere assai forti. Cesare Firrao venendo di lì, ha incontrato Cesare nostro, e gli ha detto che in pochi minuti ha visto scavare più di dieci morti, e Dio sa quanti feriti! È veramente una gran disgrazia, e non puoi credere quanto il tempo che corre sia ferace a noi di disgrazie, grandi e piccole, pubbliche e private.
“Saprai che Rosmini è morto, a Stresa, fralle braccia del suo Manzoni, andatoci apposta da Milano. Bel concetto! La poesia cattolica che accompagna i supremi pensieri del cattolico filosofo».
Una nota gaia fa invece rappresentata dalla mostra di belle arti, inaugurata solennemente dal re e dalla corte il 30 maggio nelle sale del Museo. Una rivelazione! Esposero Domenico Morelli e Federico Maldarelli, Dell’Abadessa, Mancini e Mancinelli, Nicola Palizzi fratello di Filippo, Alfonso Balzico e dne giovani che salirono più tardi in gran fama: Bernardo Celentano e Biagio Molinaro. Celentano espose un quadro di grandi dimensioni: San Stanislao Kostka, che non incontrò le simpatie di Alfonso, il quale ne scriveva così all’Antonacci:
"Stamane ho percorso a volo d’uccello le tele della nostra pubblica mostra di Belle Arti. Ci sono delle cose bellissime e fralle meno che mediocri è il quadro di Celentano. Lo sosterrei contro un chiunque: come sostengo che Mancinelll e il giovine Morelli si sono resi meritevoli delle teli maggiori. Di Molinaro poi ti dirò che anche Sua Altezza il conte di Siracusa ieri a sera me ne fece assai elogi. È un quadro il suo che per colore lascia a desiderare, ma nel resto bisogna trovargli i riscontri non fra i Celentano, ma fra gli artisti. Anche di Ruo è un bellissimo quadro: il Decamerone. Una delle ale termina ad una stanza, dove si legge a grandi caratteri: u lavori di scultura di S. A. R. il conta d i Siracusa». C’è la Saffo, l’angelo del monumento Niccolini ansai lodato, i grooms al salto e alcuni bronzi».
Al Molinaro fu concessa la piccola medaglia d’oro con gli onori della gran medaglia. Il giudizio sul Molinaro è forse un po’ appassionato. Bisogna sapere che egli aveva avuto il soggetto del quadro dallo stesso Casanova: Schiavitù degl’israeliti in Egitto, forse allegoria alle condizioni del Regno. Molinaro, nativo di Trani, era protetto dall’Antonacci, che ne acquistò il quadro. Aveva indiscutibilmente molto ingegno artistico, e dipinse nel 1869 con Ignazio Perricci gli affreschi di Castel Capuano e morì giovane a quarantatre anni nel maggio 1868. Di quella mostra si parlerà di proposito più innanzi.
Nei primi giorni di febbraio 1856 morì il principe di Torella, già ministro nel 1848, padre di Nicola, di Camillo e della marchesa di Rende, reputato uno dei signori più ricchi del patriziato, tenuto in gran concetto per l’animo e la mente. Di quella morte stranamente avvenuta, Cesare Casanova informava il cognato con questa lettera:
Noi siamo sotto l’impressione funesta d’una sventura, che dovrebbe chiamarsi pubblica a varî titoli. Domenica sera abbiamo perduto l’ottimo principe di Torella in modo veramente barbaro. Egli tornava dal pranzo di etichetta dato dal principe di Gerace (Baciccia Serra), in occasione delle sue nozze, verso le 11 p. m., ed aveva dato al cocchiere la consegna di menarlo da Bivona. Ma, giunto innanzi alla casa di Cajaniello, abbassò il cristallo e disse di volere invece essere menato a casa. Questo avvenne; ma il cameriere con meraviglia osservò che il padrone non scendeva, mentre lo sportello era aperto da un pezzo. Si prese un lume. Si trovò il principe alle prese con la morte, che ebbe luogo un paio di minuti dopo, fra le braccia della duchessa di Cajaniello. Questa mattina gli si renderanno gli ultimi uffici nella chiesa di s. Ferdinando, dove si è lavorato per due notti e due giorni„.
E alla distanza di una settimana.
"Ancora si parla, e si parlerà certo per un pezzo, dell'ottimo principe di Torella e della sua fine tanto funesta. La sua famiglia è immersa nel più profondo dolore, stile lapidario, questa volta sorretto dalla verità, Egli ha lasciato una fortuna molto più considerevole di quello che si poteva supporre, cioè netti circa 40 mila ducati di rendita. Il testamento è il seguente: disponibile usufratto alla principessa vedova; proprietà, due terzi al piccolo Peppino, figlio di Lavello, ed un terzo a Camillo - Insomma, ecco tutto: le quattro donne ed i due maschi hanno avuta di legittima ducati sessanta mila, il che forma ducati 360 000 legittima; e 860 000 disponibile; quindi fortuna netta 720 000 ducati, oltre ventimila ducati d'argento, una famosa biblioteca, mobili etc. e la Commenda dell'ordine Costantiniano presso Teramo, che è considerevole.
L’erede, presente principe di Torella, fu nei nuovi tempi sindaco di Napoli; e suo padre Nicola, allora duca di Lavello, fu ministro degli affari ecclesiastici nel ministero costituzionale di Francesco II.
Nel 1852 vennero riformate e distinte le due Consulte dei reali dominii di là e di qua dal Faro. Le prima, composta di un presidente e di sette consultori siculi, risedeva a Palermo nel palazzo Villafranca; la seconda, formata da un presidente che era il ministro o il direttore di grazia e giustizia pro tempore, di un vice-presidente e di quindici consultori, risedeva a Napoli, nel palazzo della Solitaria. Avevano uffizio semplicemente consultivo negli affari, che al re piacesse loro sommettere. Si distinguevano in quattro commissioni: per la giustizia e le cose ecclesiastiche, per le finanze e gli affari interni, per le regie prerogative di grazia e per i conflitti di giurisdizione tra l’autorità giudiziaria e l’amministrativa. C’erano de! relatori o, come si direbbe oggi, referendari!, nominati mercè pubblico concorso. Ciascun relatore doveva avere di suo la rendita di duecento ducati, ma bastava una semplice dichiarazione di assegno, fatta dal padre o da chi per esso. Dopo cinque anni di assiduo servizio, si apriva ai relatori l’alta carriera giudiziaria o amministrativa, ma soprattutto amministrativa, perchè il maggior contingente alla carriera giudiziaria era dato dall’alunnato di giurisprudenza, altra istituzione che va ricordata con onore. Presedeva la Consulta napoletana il Pionati, direttore di grazia e giustizia con referenda e firma; e di fatto, il vicepresidente Niccola Maresca, duca di Serracapriola. Avevano maggior fama, tra i consultori, don Francesco Gamboa, dotto e solenne; il barone Cesidio Bonanni, Emilio Capomazza, Tito Berni, Roberto Betti e anche Filippo Carrillo, benchè fosse stato zelante raccoglitore di firme per l’abolizione dello Statuto, come si è detto. A tal proposito si ricordava una scena clamorosa avvenuta tra lui e l’Agresti, quando il Carrillo presentò la petizione agli alunni di giurisprudenza, che prestavano servizio a quella Corte perchè la firmassero, e gli alunni risposero che non avrebbero firmato, senza un ordine del procuratore generale. L’Agresti coraggiosamente li lodò e rimproverò il Carrillo, ma perdette le grazie del re e non fu più invitato a Corte. Neppure i consultori di Stato ed i relatori firmarono quella petizione. Il duca di Serracapriola, che aveva sottoscritto lo Statuto, quale presidente del Consiglio, ne parlò al re e questi gli diè ragione! Monsignor Salzano era succeduto nella Consulta a quel bonario monsignor Giuseppe Maria Mazzetti, il quale, predecessore del Capomazza nella sopraintendenza di pubblica istruzione, aveva riordinati gli studii superiori prima del 1848. Pochi oggi ricordano questo vecchio gioviale ed arguto, che fu in gioventù frate e amico dell’abate Galiani suo conterraneo, e morì a ottant’anni nel 1860 col titolo di monsignore. Gli era succeduto, dunque, monsignor Michele Salzano, il quale non aveva la cultura, nè l’animo gentile e signorile del Mazzetti. Il Salzano era domenicano, e fu da monsignor Cocle proposto al re per consultore. Predicatore più verboso che facondo e decano del collegio dei teologi; scrittore di diritto canonico e di storia ecclesiastica; panegirista e polemista, e napoletano nel più ampio e volgar senso della parola, egli fu vescovo e arcivescovo titolare prelato domestico, accademico, cavaliere di più ordini, confessore di monache. Dopo il 1860, tenne a Napoli finchè visse le veci di nunzio pontificio, d’accordo fra la Santa Sede e l’ex re, per cui non si concedeva dignità episcopale nell’antico Regno, senza sua proposta o beneplacito. Non andò immune da sospetti simoniaci. Morì vecchio, nel 1890, lasciando una fortuna. Era ghiotto di dolciumi, di maccheroni, di gelati, che chiamava 'o stracchino e di ogni altro cibo napoletano; delle sue ghiottonerie non faceva mistero, accettava pranzi, e nell’insieme aveva qualche cosa di pulcinellesco. Fu lui che pronunziò in Santa Chiara l’elogio di Ferdinando II, praesente cadavere. Coi nuovi tempi perde l’ufficio, e temendo, paurosissimo com’era, d’essere arrestato, emigrò in Francia; tornò e dal nuovo governo non ebbe molestie, nè limitazioni all’esercizio dei tanti incarichi, lucrosi tutti, ottenuti dalla Santa Sede. Una parte del mondo guelfo e legittimista di Napoli lo detestava, e il padre Curci ne discorreva con profondo disprezzo. Morì a Nocera dei Pagani, e alcuni minuti prima di esalare lo spirito, disse forte a coloro che lo assistevano: "Me dispiace sulo ca so venuto a murì mmiez’e pastenache„.3 Ferdinando II ne aveva stima, ma ne era in guardia; e quando alla Consulta gli dava la parola, diceva sempre: "Munsignò, jamm’a franche„.4
Tra i consultori, sedevano, come ho detto, il Gamboa e il Bonanni. Il primo fu per tre mesi ministro di Francesco II; il secondo, ministro di grazia e giustizia nel primo gabinetto costituzionale del 1848, tenne aperto il libro dei Vangeli, sul quale Ferdinando II posò la mano giurando fede alla Costituzione. Quando si cominciò a parlare di abolizione dello Statuto, il consultore Bonanni al giovane relatore Giuseppe Colucci, che gli manifestava i suoi timori, rispondeva: “Hanno da tagliare queste mani, prima di abolire la Costituzione„, ricordando il fatto di aver lui tenuto il libro degli Evangeli in quel memorabile giorno. Ebbe ragione. Le sue mani non furono tagliate, perchè la Costituzione non venne mai abolita. Restò abolita di fatto sopra richiesta dei sudditi! Il Bonanni era abruzzese, come il Corsi e il Betti. Questi, nativo di Vasto, aveva fama di liberale, perchè amicissimo di Pier Silvestro Leopardi e perchè a Reggio, dove fu intendente, lasciò buon nome e larghe simpatie tra i liberali, e amico di Casimiro de Lieto e Agostino Plutino. Il consultore Lotti era stato intendente a Foggia e il principe Capece Zurlo, a Caserta, anzi si trovava a Caserta quando fu aperta la ferrovia che uni il real sito a Napoli. Il figlio del consultore Lotti sposò una signorina Friozzi dei principi di Cariati e fu, col titolo di conte di Oppido, elegantissimo nella società napoletana.
La Consulta aveva nel campo amministrativo la stessa alta reputazione della Corte Suprema nel campo giudiziario. Se in questa facevan utile tirocinio gli alunni di giurisprudenza, alla Consulta vi erano i relatori che uscivano, ordinariamente, consiglieri d’intendenza o sottointendenti, e alcuni dei quali furono amministratori di prim’ordine. Basterebbe ricordare Giuseppe Colucci e Gaetano Cammarota, e singolarmente il primo, che fu, fuori di dubbio, il maggior prefetto del regno d’Italia, e uno degli uomini più colti della sua età. Nel 1855 erano relatori, tra gli altri, Gaetano Pacces e Vincenzo Calenda, poi ministro guardasigilli del regno d’Italia, e il fratello Andrea. Colucci e Cammarota uscirono nel 1862 sottointendenti il primo, a Cittaducale, e il secondo, a Gerace. Dalla Consulta uscì pure Mariano Englen, governatore di Salerno nel 1860, poi consigliere d’appello di Napoli, il quale ebbe nel 1870 un quarto d’ora di celebrità, perchè, presentandosi candidato nel primo collegio di Napoli, contro l’ex sindaco Guglielmo Capitelli, cambiò partito, passando da destra a sinistra e il passaggio tentò giustificare con un opuscolo intitolato: Trasibulo in Italia.
Aggiunto alla Consulta esisteva un ufficio speciale per la concessione del regio exequatur sulle bolle di Roma, anzi sulle carte di Roma, come si diceva in linguaggio ufficiale. Delegato a tale uffizio era, per le provincie napoletane, il Capomazza e per la Sicilia, Michele Muccio, presidente della Corte Suprema di Palermo. Sulle carte di Roma don Emilio portava tutta la sua tanucciana diligenza. In quegli anni non fu consumata e neppur tentata alcuna usurpazione dalla Curia romana. Il re non recedeva dai suoi diritti, sanciti dal Concordato. Rispettava il Papa; l’ospitò largamente a Gaeta, a Napoli e a Portici; fece la famosa e poco gloriosa spedizione negli Stati della Chiesa; andò, nel luglio del 1866, a Porto d’Anzio, dove Pio IX era a villeggiare, conducendovi il principe ereditario, ma nulla di più. I vescovi li sceglieva lui, baciava loro la mano, ma dovevano essere ecclesiastici di sua fiducia. Il regio patronato non era per Ferdinando II una cosa da burla e la maggior parte delle diocesi di tutto il Regno, più di cento, tenendo conto delle prelature nullius, erano di regio patronato. Parlando di Roma, egli soleva dire: " Col Papa, patti chiari e amici cari„.
Sopravvive quasi più nessuno degli arcivescovi e vescovi di quegli anni. La morte ha largamente mietuto nel campo ecclesiastico. Ricordo fra i morti più recenti monsignor Rossini, arcivescovo di Acerenza e Matera, morì qualche anno fa, decrepito, a Molfetta, dove la Santa Sede lo privò del governo effettivo della diocesi. Il celebre monsignor Di Giacomo, di Piedimonte d’Alife, morì anch’egli, quasi novantenne, a Caserta nel 1878. Fu creato senatore nel 1863 e frequentò, nei primi anni, il Senato; ma incorse nelle ire di Roma che gli diè un coadiutore, da lui non chiesto. Frà Luigi Filippi, vescovo di Aquila, era un francescano pieno di ardore evangelico e di liberi sensi, e ottimi vescovi i cardinali che erano a capo delle tre diocesi più importanti, cioè: Sisto Riario Sforza, arcivescovo di Napoli, don Giuseppe Cosenza, arcivescovo di Capua, ricordato con onore anche dal Settembrini e il buon Carafa di Traetto, arcivescovo di Benevento. Il primo e l’ultimo morirono a Napoli, e il secondo nel 1863 a Capua, pianto come un padre. Tra i pastori di maggiore notorietà, ricordo, oltre a monsignor Di Giacomo di Piedimonte, monsignor Clary, arcivescovo di Bari, al quale successe monsignor Pedicini; monsignor Apuzzo di Sorrento, che fu successore del Capomazza come revisore e morì cardinale e arcivescovo di Capua; monsignor Zelo di Aversa, che si disse aver ottenuto il vescovato per simonia. Alla bontà ineffabile del Cosenza faceva strano contrasto, nella stessa provincia, monsignor Montieri di Sora, infatuato di assolutismo, zelante persecutore di liberali, amico personale di Ferdinando II, e benché non fosse vecchio, sempre tra la vita e la morte. Era emottoico. Contrastavano in Terra di Bari i vescovi di Andria e di Conversano: un fanatico rude, come monsignor Longobardi, e uno spirito veramente apostolico e signore, se non di nascita, di maniere, come monsignor Mucedola, il quale non volle firmare la petizione per l’abolizione dello Statuto. Chiamato nel giugno del 1851 ad audiendum verbum, in Napoli, vi andò senza paura. Vide prima il Peccheneda e poi, a Caserta, il re. All’uno e all’altro disse che non aveva firmato quel documento, avendo giurata la Costituzione, ma lasciava liberi i suoi preti di firmarlo, essendo un affare che riguardava la loro coscienza. Il Re non seppe che rispondere a un ragionamento così logico, e parve anzi che approvasse la condotta del vescovo; ma quando questi fu andato via, si racconta che dicesse: "Vi che mme fa ’o parrucchiano ’e san Paulo!„5 Il Mucedola era parroco di San Paolo presso Sansevero, quando fu assunto al vescovado per il favore del marchese Lagreca di quella terra, lontano parente dei Lagreca di Polignano a mare. Il re se la legò al dito e monsignor Mucedola fu dei pochissimi, che non ebbero mai onorificenze; anzi nel 1859, in occasione del matrimonio del principe ereditario, avendo assistito in Bari alla benedizione nuziale con gli altri vescovi della provincia, fu il solo, tra questi, non decorato della croce di Francesco I. Erano anche miti pastori il De Bianchi, arcivescovo di Trani, e il Guida, vescovo di Molfetta.
Contrastavano in Terra d’Otranto monsignor D’Avanzo a Castellaneta, prepotente, violento, quasi birro in paonazzo, morto cardinale e vescovo di Teano, e quel buon monsignor Caputo di Lecce; e contrastavano in Basilicata monsignor Di Macco, arcivescovo di Matera e Acerenza, che Ferdinando II chiamava, per ironia, il Ghibellino e il Protestante, e monsignor Acciardi, vescovo di Tursi e Anglona, famoso per il suo spirito reazionario e poliziesco. Monsignor Di Macco, nativo di Gaeta, molto si adoperò a beneficio dei perseguitati politici e non sottoscrisse, neppur lui, la petizione per abolire lo Statuto. Chiamò come insegnante nel seminario prima il sacerdote Felice Nisio, e poi suo fratello Girolamo, il quale ha narrato in una lettera scritta, alcune settimane prima di morire, particolari interessanti circa quell’insegnamento e l’ottimo pastore.6 Mite e non del tutto avverso al progresso civile, era monsignor Pieramico, vescovo di Potenza. E contrastavano in Capitanata monsignor Taglialatela, vescovo di Manfredonia, sapiente prelato, e monsignor Javarone, vescovo di Candela e Cerignola, già confessore del re, terrore dei laici, inframmettente e intransigente. Egli stesso confessava i seminaristi per sorprenderne alcuni segreti e incuteva tanta paura, che il seminario si chiuse, perchè nessuno volle più andarvi. Monsignor Javarone morì nel 1855 e gli successe monsignor Todisco Grande, non carne, nè pesce. Tre prelati di Andria occupavano le diocesi di Foggia e di Lucera e di Catania: monsignor Frascolla, la prima e monsignor Jannuzzi, la seconda, e monsignor Regano, la terza: tutti e tre schietti dinastioi, ma d’indole diversa, perchè Jannuzzi aveva rigori più apparenti che reali; monsignor Frascolla, rigorista non da burla, aveva una vera ricchezza di fanatismo, onde ebbe condanna di carcere e multa nei primi anni del nuovo regime. e monsignor Felice Regano era un santo uomo, soprannominato a Catania il "padre dei poveri„ e morto nel 1861. Monsignor Jannuzzi succeduto in Lucera a monsignor Portanova, aveva un vicario, certo Castrucci, il quale diè motivo di pubblico scandalo per la tresca con una donna della diocesi, che il vescovo fece poi sposare al suo cameriere, allontanando, quando l’opinione pubblica glielo impose, il troppo caldo vicario, ma si disse ch’egli fosse debole coi sacerdoti audaci e prepotente coi deboli, fino al punto da far arrestare dalla gendarmeria a cavallo, appositamente chiamata da Foggia, quattro sacerdoti della collegiata di San Domenico, che si erano messi in urto con lui e col capitolo, per certi privilegi che vantavano. Li fece tradurre nelle carceri di Foggia. Ma in fondo era buono e generoso, e tutte le sue entrate impiegava a vantaggio della chiesa. Rifece il seminario, chiamandovi professori egregi, ma odiava i liberali, ne volle mai interporre i suoi buoni uffici a favor loro, anzi sopravvive in Lucera una sua frase: "Li mando a Tremiti„.
Del resto, tranne pochi fanatici, i vescovi non facevano politica, benchè giurassero di rivelare all’autorità tutti coloro, che erano ritenuti pericolosi alla sicurezza dello Stato. Il padre Passaglia lesse alla Camera dei deputati nel 1863 il testo di quel giuramento, che parve quasi inverosimile, tanto era stranamente poliziesco. Sisto Riario Sforza era molto amato per il suo zelo di pastore e l’esemplare costume. Fu vero apostolo di carità nel colera del 1854 e del 1855. Cortese, generoso, uomo di governo gioviale senza volgarità e devoto ai Borboni, ma senza fanatismo. Andò due volte in esilio dopo la rivoluzione, e tornato a Napoli, non si mostrò astioso contro il nuovo regime. Era dotato di copiosa partenopea arguzia. Ricordo un aneddoto. Il municipio di Napoli ha il patronato della cappella di San Gennaro in duomo, e il sindaco è presidente della commissione, detta del Tesoro. In alcuni giorni di funzioni solenni, il sindaco si reca alla cappella, e prima sale dal cardinale arcivescovo, per andarvi insieme. Quando Guglielmo Capitelli fu sindaco di Napoli, la prima volta che andò dal Riario Sforza, per tale cerimonia, vi giunse in ritardo e, nell’inchinare il cardinale, sdrucciolò sul pavimento e stette per cadere. Riario Sforza lo sorresse con le mani che aveva bellissime, e sorridendo gli disse: “È un municipio vacillante„; e il Capitelli, pronto: “Forse, ma la Chiesa lo sorregge„. Riario Sforza mori nel 1877.
Abate di Montecassino era don Michelangelo Celesia, che più tardi fu vescovo di Patti, arcivescovo di Palermo e cardinale, e gli successe don Simplicio Pappalettere; don Onofrio Granata era abate di Cava; don Gioacchino Cestari, di Montevergine, monsignor Elia, gran priore di San Nicola di Bari, e monsignor Giandomenico Falconi, arciprete mitrato di Acquaviva e Altamura.
Ma, tra gli alti ecclesiastici, il nome che, per una serie di casi, venne più ripetuto e discusso, fu veramente quello di monsignor Niccola Caputo, vescovo di Lecce, nobile napoletano di famiglia marchesale, ora estinta nei Palamolla, perchè l’unica sua sorella, marchesa di Cerveto, sposò quel Biagio Palamolla, marchese di Poppano, che ospitò, come si è detto, Ferdinando II a Torraca nel 1852. Vescovo fin dal 1818, egli era quasi decrepito. Lo amavano i suoi figliani per la inesauribile bontà. Liberaleggiò nel 1848, come liberaleggiarono quasi tutti i vescovi del Regno, e quando infierì la reazione, non imitò il D’Avanzo, nè il Montieri, nè il Longobardi. A Lecce era intendente un fanatico in politica, ma personalmente retto, il Sozi Carafa. O per opera dell’intendente, o per denunzie pervenute in Corte, monsignor Caputo fu chiamato dal Re e tradotto, si disse, tra i gendarmi, fino a Capua, dove il Re lo ricevette per ammonirlo severamente, presente il cardinal Cosenza. Gli scrittori di Corte stamparono che il re avesse chiamato monsignor Caputo per accertarsi de visu delle sue condizioni di salute e giudicare se fosse il caso di dargli un coadiutore. Cosi affermò, tra gli altri, monsignor Salzano, testimone assai sospetto.
Nei suoi confronti fra i bilanci sardi e napoletani, esaminando gli affari ecclesiastici di Napoli, Antonio Scialoja, dopo aver notato che l’alto clero si era mostrato poco propenso alle novità politiche, concludeva: "Scrivendo queste parole, mi corre alla mente il nome d’un personaggio ch’io non conosco, ma che fuori e dentro il Regno ho cento volte udito ricordare con riconoscenza e con affetto: il nome di monsignor Caputo, vescovo di Lecce. Questo vecchio venerando non è stato neppur lui esente da violenze politiche; e sebbene estraneo alle passioni del mondo e vero ministro del Vangelo, fu tratto come prigione tra gendarmi da Lecce sino a Napoli, e condotto al cospetto del principe, per giustificarsi non saprei di qual colpa, se non fosse quella d’essere un santo vescovo ed un uomo dabbene. La fronte serena e solcata dagli anni, il viso aperto, l’aspetto umile ad un tempo ed imponente dell’onesto uomo oltraggiato, e quella purità di coscienza che rende sicura la voce e calmo e pacato lo stesso sdegno dell’anima, dicesi, che gli facesse cadere a’ piedi chi pretendeva di giudicarlo. Fossero meno rari i vescovi come il Caputo!„
Queste lodi irritarono in sommo grado Ferdinando II, e l’ottantenne vescovo fu obbligato a scrivere o a sottoscrivere questa inverosimile lettera a monsignor Salzano: "Monsignor don Vincenzo Lotti mi onorò de’ vostri saluti, e mi disse che mendacio sul mio conto in Piemonte erasi scritto. Ne sono oltremodo addolorato: è un vilipendio per me essere sulle labbra di chi si parla sbrigliatamente; e voglio che questa mia indignazione sia solenne. Nulla ho di comune con uomo senza verecondia. Sia pure a me da Voi compartito questo favore; la mia canizie invoca la verità che l’orni e la coroni, non il mendacio. E poteva per me darsi nel giugno e luglio 1856 un Sovrano più caro di Ferdinando II, anzi di vero amico? Sì, il mio Padrone e Re in quella mia avventura fece con me quel che il vero amico sappia fare. Sono, monsignor mio, commosso a tante nequizie impudenti colà in Piemonte„. Com’era da prevedere, il Salzano si servì di di questa lettera, pubblicandola trionfalmente nella confutazione ch’egli fece dello Scialoja, ma i maligni asserirono che la lettera l’avesse scritta egli stesso, e mandata a firmare al Caputo. Il Salzano n’era capace.
Dell’episcopato siciliano si è fatto un cenno a proposito di monsignor Regano, arcivescovo di Catania, acclamato, come si è detto, padre dei poveri. Di costumi purissimi, egli imponeva col suo esempio, più che col vigore della disciplina, vita austera e fratellanza cristiana. Non fu cardinale, perohè quando la chiesa catenese fa elevata a metropolitana, ed egli promosso arcivescovo, non fece registrare la bolla alla Datoria per non sottrarre ai miseri la ingente tassa Camerale. Aiutava non poche famiglie liberali colpite per ragioni politiche; e quando morì nel 1861 fu pubblico lutto nella diocesi. Unico cardinale dell’episcopato di Sicilia era l’arcivescovo di Messina, Villadicani, brav’omo, ma nullità assoluta. Il più dotto veniva ritenuto monsignor D’Acquisto, vescovo di Monreale, filosofo ed erudito; il più cospicuo per nobiltà di prosapia era monsignor Naselli, arcivescovo di Palermo, che non esercitò azione in nessun senso sino al 1860, e solo nel 1860, dopo la nota insurrezione, passò un brutto quarto d’ora col generale Cadorna, commissario civile e militare con pieni poteri. Il generale voleva conto della condotta serbata da lui, durante quella triste insurrezione, e serbata dal clero. Veramente se non fu provato che questo facesse causa comune con le bande, fu provato che indirettamente le favorì. Ma il vecchio arcivescovo si scusò col rispondere ch’egli nulla fece, perchè esautorato, perchè decrepito e perchè gravemente fiaccato in salute. Monsignor D’Acquisto si trovò nell’anno istesso coinvolto nella feroce reazione di Monreale: venne arrestato e processato. Nè l’uno nè l’altro avrebbero preveduto nel 1860 tutto questo, perchè entrambi si affrettarono a far adesione al nuovo regime, e monsignor Naselli ricevè in duomo con la consueta solennità, il dittatore Garibaldi, in occasione della festa di santa Rosalia, come il rappresentante del potere politico dell’Isola.
Garibaldi montò sol trono col capo coperto e indossava la camicia rossa: l’arcivescovo lo incensò tre volte. In sostanza, l’episcopato e il clero siciliano non morivano di tenerezza per i Borboni, nè per il Papa, anzi da Roma, per effetto del tribunale della Monarchia, si mostravano quasi indipendenti. Aiutarono la rivoluzione, ma quando ne videro le conseguenze, mercè le nuove leggi ecclesiastiche, non vi si rassegnarono. Quelle leggi furono semplicemente disastrose per la Chiesa di Sicilia, così ricca di beni e di privilegi; e i due cleri, l’uno e l’altro provenienti dalla più piccola borghesia rurale, erano affezionati alle proprie famiglie, delle quali divenivano sostegno. La insurrezione del 1866 forse li illuse circa un possibile ritorno del passato, onde l’aiutarono indirettamente e anche direttamente, come fu dimostrato, ma la paura ebbe anche la sua parte.
Note
- ↑ Vedi, che mi ha fatto la duchessa questa sera!
- ↑ Il noto maestro di casa del conte.
- ↑ Mi dispiace solo di essere venuto a morire in mezzo alle pastinache, ricordando che la terra di Nocera n’è feracissima.
- ↑ Frase dialettale, che vuol dire: non ci canzoniamo a vicenda.
- ↑ Vedi che mi fa il parroco di San Paolo!
- ↑ La lettera ha per titolo: Il patriottismo del seminario di Matera, e si legge nel Lucano, numero unico, pubblicato lo scorso anno dall’egregio avvocato Corbi, per il primo centenario del capoluogo della Basilicata: pubblicazione interessante anche per eleganza di tipi, e alla quale concorsero i più chiari nomi della provincia. Basterà ricordare Giacomo Racioppi, Emilio Fittipaldi e Pasquale Grippo.