La fine di un Regno/Parte I/Capitolo X
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CAPITOLO X
Nel 1857 Ferdinando II contava 47 anni, ma pareva ne avesse 60. Le emozioni del 1848 e del 1849 e l’attentato di Agesilao Milano avevano lasciati in lui segni molto profondi. A Napoli stava di rado; la sua dimora favorita era Caserta, ma una parte dell’anno la passava a Gaeta. La vita di famiglia che egli sempre predilesse, diventava, fuori di Napoli, casalinga addirittura. Di quella vita si legge una descrizione esatta nelle memorie dell’arciduca Massimiliano, che lo visitò a Gaeta nell’estate del 1855. Era imposta dalla Regina Maria Teresa, la quale aveva poca simpatia per le pompe e le esigenze della Corte. Ferdinando II qualche volta si sdegnava di certe abitudini troppo modeste, e un giorno fu udito dire: "Terè, a poco a poco finimmo cu servirci a tavola noi stessi„;1 anzi l’espressione sarebbe stata triviale addirittura. La casa, dove abitava il Re a Gaeta nulla aveva di regale, nè all’interno, nè di fuori. Nelle ore pomeridiane il Re usciva con la Regina in un phaeton, che guidava egli stesso, preceduto o seguito da plotoni delle guide dello stato maggiore. Lungo la via, sino alle vicinanze di Formia, erano, ad ogni trenta o quaranta passi, piantoni di guide a cavallo, e quando il Re passava, s’ingiungeva ai viandanti di fermarsi, ma non per pompa, da cui repugnava. Non più gale, difatti, non più feste, non più grandi cerimonie, come prima del 1848. Verisimilmente, il pensiero che tanti soffrivano per lui doveva riuscirgli molesto e togliergli quella pace dello spirito, che ebbe intera nei primi anni del suo regno. Non cessò mai di occuparsi delle cose dello Stato, anche delle minime. Egli era informato di tutto. Non i soli ministri lo informavano, perchè i diplomatici, i vescovi e gl’intendenti delle Provincie corrispondevano direttamente con la sua segreteria particolare; una specie di cancelleria aulica o, addirittura, il primo dei ministeri. Le cose più gravi riguardanti la politica, erano riferite direttamente al Re, che dava istruzioni e ordini, spesso senza saputa dei suoi ministri, con lettere autografe, familiari e precise e nella loro brevità, non prive d’idiotismi napoletani, scritte col voi, ma più ordinariamente col tu, sopra foglietti di carta comune, e che si chiudevano, quasi invariabilmente così: conservatevi bene in salute, e credetemi: vostro affezionato Ferdinando; ovvero: ti raccomando la salute, caro generale (o duca, o principe, sempre col titolo, insomma), e credi all’amicizia del tuo affezionato Ferdinando. Il governo si accentrava nella sua persona, e non è maraviglia se tutte le responsabilità si facessero risalire a lui e di ogni birberia si volesse vedere in lui la cagione o l’origine. Dopo il regno di Luigi XIV, io non credo che il motto: "lo Stato son io„ trovasse applicazione più perfetta di quella, che trovò in Ferdinando II negli ultimi anni del suo regno. Era quindi naturale che tutti gli odii si accumulassero sul suo capo, e che fosse divenuta generale la persuasione che, tolto lui di mezzo, il Regno avrebbe acquistato il benessere e la felicità. Egli sapeva di essere odiato da molta gente, e sapeva, del pari, che si cospirava contro di lui, fuori del Regno e che magne fucine di cospirazioni erano Torino, Parigi e Londra, ma principalmente Torino, che detestava quasi senza farne mistero. Però aveva una gran fede in sé stesso: la fede che, lui vivo, nessuna novità pericolosa si sarebbe tentata. Soleva ripetere alcuni motti caratteristici, come questo: "Ai confini del mio Regno finisce l’Europa e comincia l’Africa„; e l’altro: "Noi ci troviamo fra la scomunica e l’acqua salata„, perchè il Regno confinava, da una parte, con gli Stati della Chiesa e per il resto, era circondato dal mare. Tre circostanze lo rendevano tranquillo: avere lo Stato pontificio per antemurale; sudditi incapaci di conservare durevolmente gli ordini liberi e truppe bastevoli per vincere qualunque moto interno, se pure qualcuno se ne osasse tentare, dopo le ultime repressioni, per le quali le carceri rigurgitavano di prigionieri, il Piemonte di esuli e il numero degli attendibili era divenuto stragrande, per non dire scandaloso addirittura.
Salito al trono a vent’anni, aveva dovuto interrompere gli scarsi studii. Egli veramente non sapeva nulla, bene, ma a tutto era convinto che bastasse il senso comune e di questo era largamente dotato, insieme alla naturale perspicacia napoletana e ad una memoria, che tutti concordi, amici e nemici, riconoscevano prodigiosa. Tenuto conto del mondo intellettualmente mediocre, che lo circondava, il Re era, fuori di dubbio, l’intelligenza superiore e certo la più acuta, perchè di rado s’ingannava nella conoscenza degli uomini. Dotato di spirito beffardo e motteggiatore, come ogni napoletano, preferiva il sarcasmo alla lode, e se questa concedeva, non la scompagnava da una leggiera tinta d’ironia, quasi per far intendere che non doveva essere accettata per moneta sonante. Leggeva poco o nulla, e ostentava una invincibile avversione per gli scrittori in genere, che chiamava, per disprezzo, pennaruli. Detestava i dottrinarii; non ammetteva che due dottrine: quella dei magistrati e quella degli ecclesiastici, le sole che reputasse utili alla stabilità sociale e politica. Il breve contatto, che ebbe con i ministri costituzionali nel 1848, bastò a fargli perdere ogni simpatia per gli ordini rappresentativi. Il linguaggio dottrinale di quei ministri gli riusciva insopportabile, e più insopportabili le continue professioni di liberalismo e di amore del bene pubblico. Non riusciva a persuadersi che quelli capissero più di lui e conoscessero, più di lui, il paese, e lo amassero di più. Le maggiori avversioni le ebbe per Saliceti e per Scialoja, che reputava pennaruli pericolosi, anche perchè Scialoja, suo ministro, uno o due giorni prima del 16 maggio, gli aveva detto: V. M. ricordi i casi di Luigi Filippo. A Carlo Poerio, nel breve tempo che fu ministro, usò cortesie e quasi affettuosi riguardi. Lo chiamava Carlino, gli offriva sigari eccellenti e lo presentò alla Regina con parole molto amabili, poichè egli sapeva, all’occorrenza, essere amabile e anche adulatore; ma ne diffidava grandemente ritenendolo settario impenitente. E non fu giusto, nè umano con lui, dopo i casi del 1848, sopratutto irritato che fosse liberale un Poerio, signore e barone. Lui non ammetteva che dovessero trovarsi liberali, o fratielli, (li chiamava così) che fra spiantati, che amavano pescare nel torbido, o tra avvocati senza cause o tra medici senza clienti o tra architetti, che non avevano case da costruire. Erano queste le frasi, che più comunemente adoperava nel suo favorito dialetto, parlando dei liberali. Non perdonò mai a Carlo Troja la risposta datagli, quando, osservando il Re essere strano che egli, inviando la flotta a Venezia, dovesse aiutare una repubblica, il primo ministro rispose: "Sire, è una repubblica più antica di tutte le dinastie presenti„ .
Quei pochi mesi di regime costituzionale furono i più tormentosi del suo Regno, dovendo egli, per necessità politica, comprimere il suo carattere. Le istituzioni liberali, degenerate subito in anarchia turbolenta e un temperamento come quello di Ferdinando II, non erano conciliabili, anzi non erano compatibili. Il temperamento di Ferdinando II mal poteva accomodarsi a un sistema, che, limitando il suo potere, tentava ogni giorno diminuirlo. Il suo orgoglio di Re e di uomo si sentiva ferito, al solo pensiero di avere ministri non di sua fiducia, e di veder discussi i suoi atti, malignate le sue intenzioni, diffamata la sua famiglia, promossa l’insurrezione nella capitale e nelle provincie. Egli non era apatico, nè fatalista, nè remissivo alla volontà di chi gli faceva paura, nè si sentiva indifferente al bene e al male, insensibile alle passioni, superiore alle antipatie; che anzi, passioni e antipatie sentiva fortemente e non sapeva nasconderlo. Aveva volontà vigorosa e carattere estremamente vivace, e il puntiglio, come in ogni natura meridionale, poteva moltissimo in lui. Era, inoltre, impaziente, insofferente e inclinato a vedere delle cose l’aspetto men bello, e degli uomini le debolezze, più che le virtù. Nei primi tempi del 1848 credè di cavarsela con le parole e le barzellette, e alle frequenti deputazioni che andavano da lui, rispondeva spiritosamente e con relativa cortesia. Al vecchio Barbarisi, che fu uno dei promotori più caldi della Costituzione, disse un giorno: “Don Savè, questa è casa tua, e aperta per te a tutte l’ore; mi dispiacerà positivamente se non vieni tutti i giorni„; e altra volta: "Don Savè, ho giurato la Costituzione e la manterrò; se io non voleva darla, non l’avrei data„. Un giorno del 1848, s’intende, Pisanelli, Mancini e non ricordo chi fosse il terzo, andarono dal Re, quali rappresentanti di uno dei molti circoli politici di Napoli. Il Re li accolse con queste parole: "Nè, pagliè, che bulite?„2 Impacciati dalla brusca domanda, i tre avvocati esitarono sulle prime, ma, più animoso il Pisanelli si fece innanzi e con accento solenne disse: "Sire noi vogliamo il progresso„ . "Lo voglio anch’io, soggiunse il Re; ma, spieghiamoci, che intendete voi per progresso?„ E il Pisanelli: "Sire, il progresso è un gladio, che incalza popoli e Re ....„, Ferdinando lo interruppe, e volgendosi al duca d’Ascoli, che gli stava vicino: "Nè, Ascoli, stu progresso fete (puzza) nu poco de curtiello„. I tre avvocati non seppero aggiungere altro, nè altro disse il Re e si separarono con diffidenze scambievoli. Per Ferdinando II l’antipatia e il disprezzo verso gli avvocati erano invincibili. Si aggiunga che quei tre erano anche liberali.
Il 1848 gli lasciò paurose reminiscenze e ne peggiorò l’indole. Entrò in una via senza uscita, e la percorse non deviando un istante, con fermezza sì, ma senza ombra d’illuminata preveggenza. Quel sistema di reazione era troppo violento e cieco, per essere duraturo. Se Ferdinando mostrava coraggio e dignità nel rispondere alla Francia e all’Inghilterra, che gli consigliavano riforme, amnistia e politica "concorde allo spirito del secolo„, che lui, solamente lui, era giudice dell’opportunità di tali concessioni, e se si mostrava indifferente, quando i due ministri partirono da Napoli, non è a dire che non intendesse la gravità del caso. La sera del 21 ottobre 1856 egli era a Caserta, e Gaetanino Zezon, ufficiale della sua segreteria particolare, gli decifrava il dispaccio di Bianchini, annunziante la partenza dei ministri di Francia e d’Inghilterra, e le dimostrazioni, alle quali erano stati fatti segno, percorrendo Toledo e Foria. Chiese allo Zezon che cosa gliene paresse e avendo quello risposto che la partenza dei due diplomatici era resa grave dalla simultaneità che rivelava un partito preso, il Re lo interruppe bruscamente, e per alcuni giorni non gli rivolse la parola. Temeva Zezon di essere licenziato come Corsi, ma non fu così. Dopo qualche tempo il Re, tornando buono con lui, gli disse: "Tieni a mente che le osservazioni, le quali dispiacciono, non si fanno„. Egli aveva bisogno d’illudere sè stesso; lo seccava la pubblicità e lo irritavano le accuse della stampa liberale del Piemonte, di Francia e d’Inghilterra. Non riconosceva in nessuno il diritto di ficcare il naso nelle faccende del suo Regno, che considerava come cosa propria. Certo avrebbe desiderato che quello stato di tensione, che originava le accuse, cessasse, ma il mezzo? Non lo vedeva, nè, dato il suo temperamento e l’indole dei suoi sudditi, mezzo concludente vi era. Aprir le prigioni e riconcedere la Costituzione, era tornare al 1848 e ad un 1848 peggiorato; aprir le prigioni e mandar tutti i prigionieri per il mondo, era accrescere i pericoli per un altro verso; impossibile abdicare, non facendo egli alcun conto del figliuolo, giovanissimo, e non essendo le abdicazioni tradizionali nella sua casa.
L’uomo era così fatto. Tranne qualche ministro e qualche direttore, non aveva intorno a sè gente che valesse moralmente più di lui. L’unico, Carlo Filangieri, era tenuto lontano. Come tutti gli uomini incolti, che assai presumono di sè, mal tollerava la compagnia delle persone colte, e tutto ciò, che l’obbligava a non parlare il suo favorito dialetto, lo infastidiva potentemente. Non parlava bene che il dialetto napoletano e il siciliano e la lingua francese, e il suo pensiero non trovava più fedele manifestazione che nel linguaggio dialettale, e il suo italiano era la traduzione di quello, e però non spontaneo, nè arguto, nè vivace e assai meno immaginoso. Era un principe tutto napoletano, ma a giudicarlo con i criterii di oggi, quasi Re di altri tempi.
A lui bastava che il mondo dicesse che le istituzioni amministrative di Napoli e le sue leggi fossero quanto era di più progredito in Europa; gl’importava poco che, in pratica, leggi e istituzioni fossero a discrezione della polizia. Le sue teorie d’immobilità assumevano una strana forma di sentimentalismo verso i poveri; il suo ideale era quello di governare con un’aristocrazia relegata fra le cariche della Corte; una borghesia impaurita e una plebe soddisfatta di aver tanto per non morirsi di fame, e che lo inneggiasse, perchè Re assoluto e potente, ma familiare e popolano. Ferdinando II sentiva la superbia dell’indipendenza. Non era austriaco, come dicevano i liberali, perchè, com’è noto, non fece mai causa comune con l’Austria; anzi, morendo, raccomandò al figlio di essere neutrale nella lotta impegnata fra l’Austria, il Piemonte e la Francia. Non era italiano, perchè non aveva il sentimento nazionale, nè ambizione di conquiste o di avventure. Egli non immaginava altro Stato che il suo, e così fatto: il Re responsabile dinanzi a Dio, i funzionari pubblici dinanzi al Re e nessuno responsabile dinanzi al paese, il quale non aveva altro rifugio che nella cospirazione e nella rivoluzione.
Ebbe, in quegli anni, un’idea magnifica, che se avesse avuto il coraggio di tradurre in atto, avrebbe forse salvata la dinastia: sviluppare le risorse economiche del Regno, poverissimo; dotarlo di ferrovie e di telegrafi elettrici, aprire succursali del Banco di Napoli nelle provincie, migliorare le condizioni dei porti e metter mano a varii lavori di bonifica. E da ricordare che la prima linea ferroviaria, costruita in Italia, fu la Napoli-Portici. La Milano-Monza venne seconda; ma, mentre, in quindici anni, il Lombardo-Veneto e il Piemonte avevano costruito qualche migliaio di chilometri ferroviarii, noi non ci si spinse, faticosamente, che fino a Nocera, a Castellamare e a Capua. Nel 1855 diè a Tommaso D’Agiout la concessione della Napoli-Brindisi, per Foggia e Bari; nel 1856, allo stesso D’Agiout l’altra linea Napoli-Taranto, per Salerno, Eboli, Calabritto, Rionero, Spinazzola e Gravina; e nello stesso anno, al barone Panfilo de Riseis la terza grande linea, da Napoli al confine romano, per gli Abruzzi. D’Agiout costituì la società, ne nominò gerente il Melisurgo, ne inaugurò i lavori a Napoli, e il De Riseis, che poi morì senatore del Regno d’Italia, fece il versamento della prima rata della cauzione, acquistando cartelle di rendita per 60 000 ducati. Si nominò una commissione centrale di sorveglianza per questi lavori ferroviari, la quale, nel 1866, scrisse al Melisurgo una lettera d’encomio! Però delle tre grandi linee concesse non venne costruito un chilometro solo, perchè il Re si era pentito, e le provincie seguitarono ad essere separate dalla capitale da distanze, che oggi non sembrano credibili.
Bisognava distinguere in Ferdinando II l’uomo dal Re. L’uomo non era censurabile. Ottimo marito e affettuoso padre di molta prole, temperante in tutto, non si seppe mai che egli tradisse il talamo. La calunnia, che largamente si esercitò contro di lui, lo rispettò per questa parte. Amava sua moglie, che chiamava familiarmente Teta e Tetella, e che lo rese padre di undici figliuoli. Da Maria Cristina, che gli visse solo quattro anni, nacque l’erede della Corona, il 16 gennaio 1836. La regina mori 15 giorni dopo il parto e il Re non ne parve molto afflitto, nè più tardi d’un anno riprese moglie. Di Maria Cristina non era innamorato. Soleva dire: La Regina non è del nostro gusto, ma è una bella donna. La famiglia reale presentava, nel suo interno, l’immagine di una famiglia dell’alta borghesia napoletana. La tavola non aveva, ordinariamente, nulla di sontuoso. I maccheroni erano il piatto preferito, tranne dalla Regina. A Ferdinando II, napoletano in tutto, piacevano quei cibi grossolani, dei quali i napoletani son ghiotti: il baccalà, il soffritto, la caponata, la mozzarella, le pizze e i vermicelli al pomodoro. Gli piaceva pure la cipolla cruda, che mangiava ogni giorno schiacciandola con la mano, poiché il coltello dava e prendeva cattivo sapore.
Come ogni buon napoletano, amava teneramente i figli ed aveva imposto a ciascuno di essi un soprannome. Il maggiore chiamava Lasagna, e per vezzeggiativo, Lasa, perchè Francesco, appena da bimbo mangiò per la prima volta le lasagne, ne divenne ghiotto e spesso le chiedeva; da allora il padre gli aveva messo quel nome, che anche nel testamento fu ripetuto. E v’ha di più. Molti credevano che il Lasagna alludesse alla timidezza del principe ereditario, nonché alla figura sua, magra e leggermente curva. Chiamava il figliuolo Gaetano l’avvocato, anzi diceva: mio figlio ’o paglietta, perchè il ragazzo chiacchierava molto. Nè risparmiava le figliuole. Chiamava la maggiore, Maria Annunziata, Ciolla la seconda, Maria Immacolata, Petitta, e la terza, Maria delle Grazie, Nicchia. Tutti i maschi avevano per secondo nome Maria, e le donne l’avevano come primo. Dei maschi, ma soprattutto del primogenito, trascurò completamente l’educazione, ma curò invece che imparasse la lingua latina, il diritto civile e canonico, le leggi amministrative e la lingua francese, e le sue letture fossero, a preferenza, vite dei santi e i suoi maestri, mililitari ed ecclesiastici, i quali favorivano in lui la naturale tendenza ascetica e il culto delle immagini sacre. I pregiudizii, che tenevano avvinto lo spirito del padre, e di cui si leggeranno copiose prove nella narrazione della malattia e della morte, continuarono nel figliuolo. Non viaggi, non conoscenza del mondo, non esercizii del corpo, non amore delle armi, nessuna educazione virile. Aveva insegnata a Francesco qualche massima di governo, come questa: constitution-rèvolntion. Ferdinando si distaccava dai figli il meno possibile; spesso, stando a Caserta, li caricava tutti in un grande phaeton che guidava egli stesso, e li menava a spasso. Un giorno ricevè a Caserta il sindaco di Napoli, don Antonio Carafa, che gli portò un pane fresco, il così detto " pane della Giunta„ che, in occasione del colera, il Decurionato faceva distribuire ai poveri. Il Re ricevè il Carafa, avendo in braccio uno dei figliuoletti, che, visto quel pane, allungò le mani per prenderlo e, non riuscendogli, scoppiò a piangere. Il Re, seccato, disse al sindaco: "Don Anto, daccenne na fella, senno’ non ce fa parlà!„3
Si usava in Corte una geografia convenzionale. Gl’inglesi erano chiamati baccalaiuoli i francesi, parrucchieri; i russi, mangiasivi (mangiasego); dei soli austriaci si discorreva con rispetto, perchè austriaca la Regina. Parlavano tutti, Re, figliuoli e cortigiani, il più puro e accentuato dialetto; il Re imitava i siciliani nel gergo e nelle movenze e la Regina non aveva imparato l’italiano, ma parlava il dialetto, storpiandolo curiosamente con la pronunzia tedesca, e con la mancanza assoluta dell'erre.
In Corte abbondavano i siciliani. Addetto alle udienze era il principe di Aci, Andrea Reggio, il quale, dicevano i maligni, non sapeva spiegarsi perchè gli avessero dato un nome femminile, tale sembrandogli per la sua desinenza e aggiungevano che firmasse Andreo. Il Re dava le così dette udienze pubbliche a Caserta, nel salone del pianterreno, e tutti ascoltava con pazienza, prendeva appunti e suppliche, moveva qualche interrogazione, ma guardava ben bene, fissandoli con le sue lenti, i supplicanti e poi, mettendo le suppliche tra le dita della mano destra, o piegandone un angolo, li licenziava. Era miope di primo grado. Non risparmiava ramanzine, anche violenti, se le suppliche si riferivano ai fatti del 1848. Nei primi anni dopo il 1849, quando si ritirò a Caserta, aveva la pazienza di ascoltare sino a 50 o 60 persone nei giorni di udienza; ma a Gaeta le udienze divennero rarissime. Innanzi tutto bisognava ottenere dal Prefetto di polizia, dall’intendente, il passaporto per Gaeta come per Caserta; fare un viaggio non breve; e quando si era giunti a Gaeta bisognava attendere avanti alla prima porta della fortezza, che il passaporto fosse vidimato dall’ispettore di polizia di servizio, o dal comando della piazza. Quando era ad Ischia, dava udienza nell’androne della casina reale, non essendovi, nell’unico piano superiore, sale per accogliervi i supplicanti. Il Re indossava costantemente la divisa militare, ma, pur essendo attaccatissimo agli ordinamenti della milizia, fino al punto da notare, a prima vista, se la divisa di un generale o di un soldato fosse d’ordinanza, dava sulla sua persona l’immagine del disordine. Vestiva la giubba di ufficiale di linea, mettendovi sopra capricciosamente le spalline e portava in testa il berretto di colonnello di stato maggiore. Negli ultimi anni il suo vestito era addirittura negletto, e la sua giubba non era sempre sine labe. Le volte, che lo si era visto in borghese, si contavano sulle dita. Non lasciava la divisa militare, che quando si recava alla fiera di Foggia prima del 1848; e fu grande la maraviglia di tutti, quando in un veglione dato al San Carlo nel carnevale del 1844, fu visto in marsina bleu scuro con bottoni d’oro, calzoni neri, panciotto bianco, cravatta bianca e cappello a cilindro non molto alto, passeggiare per la platea, rialzata al livello del proscenio, insieme con un gentiluomo di camera.
Benché religioso, gli riusciva intollerabile la compagnia degli ecclesiastici. Forse, fu per questo che quando nel 1848 monsignor Cocle fu licenziato per imposizione del ministero liberale ed esiliato a Malta, scelse per confessore un oscuro prete, che aveva insegnato il sillabario nell’istituto Possina, e si chiamava don Antonio de Simone, che più tardi fu prelato, vescovo in partibus e cappellano di camera della cappella palatina di Napoli. Non si oppose all’esilio di Cocle, il quale per parecchi anni era stato creduto l’arbitro del suo cuore.
Ebbe per Filangieri più gelosia che riconoscenza. Quando giungevano da Palermo i dispacci del luogotenente, diceva a Corsi o a Zezon: Sentiamo che scrive Re Carlo. Filangieri, dal suo canto, gli aveva posto il soprannome di muro liscio, nel senso che non era possibile attaccarvi chiodo. Tranne per la sua famiglia, egli non dimostrò profondo e durevole affetto per alcuno, né alcuno fu sospettato, negli ultimi dieci anni, di esercitare dominio su lui. Nondimeno egli, in varie occasioni, dimostrò tolleranza per molti di coloro che gli stavano vicino e, più volte, chiuse gli occhi per non vedere e lasciò fare, e anche malamente profittare. Sapendo di aver rovinate molte famiglie per causa politica, le aiutava tacitamente, e ricorrendo a lui quando si aveva ragione e la politica non ci entrava, egli la dava subito, passando sopra alle difficoltà e, qualche volta, maltrattando o punendo chi si opponeva. Era di certo migliore della sua fama e il migliore della sua famiglia. Se non lo avesse dominato la paura, avrebbe forse tradotto in atto il suo programma di rigenerazione economica del Regno, ma il programma non fruttò che l’apertura di una sede del Banco di Napoli a Bari, ed alcuni fili telegrafici e poche bonifiche in Terra di Lavoro e nelle provincie di Salerno e di Puglia.
Gli ultimi anni del suo regno offrirebbero larga materia di studio allo storico e al patologo, perchè fu davvero uno stato patologico quello di Ferdinando II, che, pur non avendo fantasia, anzi essendo in lui troppo sviluppato il senso della realtà, era soggiogato da paure, le quali esaltavano la sua mente e gli rappresentavano pericoli ad ogni passo e ne paralizzavano l’azione.
I fervori religiosi di lui crebbero in maniera inverosimile dopo l’attentato di Agesilao Milano. Non contento di largheggiare in elemosine alle chiese, nè sodisfatto che un nuovo tempio venisse eretto in ringraziamento dello scampato pericolo e fossero pur costruite altre chiese nel Regno, e nuove case religiose nelle vicinanze di Napoli, Ferdinando II volle accrescere i privilegi degli ecclesiastici e dei frati, ne’ suoi dominii. Nel luglio del 1858, concesse al padre Francesco Saverio da Santeramo, ex provinciale dei Cappuccini, che nella regia tipografia si ristampassero gratuitamente le istituzioni teologo-polemiche del padre Alberto Knoll da Bolsano, affinchè, col prodotto della vendita, i cappuccini di Maddaloni potessero restaurare la loro chiesa. Un anno prima, nel giugno del 1857, emanò varii decreti, diretti a favorire il clero e a liberarlo da alcune limitazioni tanucciane, che il Capomazza voleva conservare. Di ciò grati, l’arcivescovo di Napoli e i suoi suffraganei gli diressero una lettera che si chiudeva con queste parole: "In mezzo alle pene di questa vita mortale, che la Maestà Vostra con tanta religiosa costanza sostiene, il balsamo della Grazia Divina discenda copioso a far gustare all’Augusto cuore della Maestà Vostra, le dolcezze che vengono insieme ad ogni atto che promuove il bene della Cattolica Chiesa; e la Immacolata Vergine Maria nell’intercedere dal Figlio Suo Divino il compimento di questi voti de’ vescovi del Regno, lumi e forza impetri da Dio, perchè il nostro Re Ferdinando II operi sempre e senza misura quel che Dio vuole per la Chiesa sua„. La sottoscrissero il cardinale Sisto Riario Sforza, arcivescovo di Napoli ed i vescovi di Aversa, di Pozzuoli, di Acerra, d’Ischia e di Nola.
Con gli scrupoli religiosi, aumentarono le pratiche esterne della fede. Non v’era festa in Napoli e nei tanti paesi vicini, alla quale il Re non concorresse, mandando trenta rotoli di polvere per gli spari e una compagnia di soldati per la processione. Dovendosi restaurare una chiesa, rifare un campanile o rimettervi le campane, si ricorreva a lui, il quale sussidiava in discreta misura. Curiose alcune suppliche per ottenere le campane. Si ricordava a Ferdinando II che, avendo egli nel 1848, fuse le campane in cannoni per la guerra di Sicilia, doveva oggi fondere i cannoni per rifar le campane. Gli scrupoli del Re divennero addirittura puerili, negli ultimi tempi. Se, guidando un phaeton, s’incontrava nel viatico egli, fermata la vettura, ne discendeva e, a capo scoperto, devotamente si genufletteva con entrambi i ginocchi, sino a che il viatico non fosse passato. Questo accadeva più di frequente, traversando i sobborghi di Napoli per recarsi ai Camaldoli di Torre del Greco; accadeva a San Giovanni, a Portici, a Resina, a Torre, dove era seguito dai ragazzi di quei paesi, che correvano appresso alla carrozza reale, gridando Viva il Re.
Negli ultimi due anni si sviluppò in lui una più esagerata tendenza alle pratiche religiose, che non era tutto bigottismo, ma forse bisogno d’ingraziarsi la divinità, perchè gli restituisse la perduta pace dello spirito. Ascoltava la messa ogni giorno; si confessava di frequente, tanto che monsignor De Simone non si allontanava mai da lui; diceva tutte le sere il rosario con la Regina e i figliuoli e, invariabilmente, prima di andare a letto, con un segno della mano baciava le immagini sacre, che popolavano le camere precedenti a quella dove dormiva. E prima di coricarsi, inginocchiato innanzi a un piccolo crocifisso, recitava le ultime orazioni.
Giuseppe Fiorelli, segretario particolare del conte di Siracusa, fu testimone di un incidente caratteristico. In una giornata di luglio del 1857, Fiorelli e Lorenzino Colonna, cavaliere di compagnia dello stesso conte e secondo marito di donna Olimpia Cepagatti, andarono, come solevano, al palazzo Siracusa, alla Riviera di Chiaia, dovendo col principe recarsi tutti e tre a Sorrento. Nell’anticamera non trovarono servi, né altri di casa; andarono oltre: nessuno; penetrarono nella camera da letto del conte e un triste spettacolo si offri loro alla vista. Don Leopoldo, mezzo nudo, giaceva a terra, non dando segni di vita. Lo sollevarono e adagiarono sul letto. Era stato colpito d’apoplessia. Il caso era grave, onde chiamarono gente; chiamarono i medici e il Colonna corse alla Reggia a darne notizia al Re, che in quel giorno, era a Napoli. Il Re se ne afflisse, perchè egli amava i suoi fratelli, e rispose che andrebbe subito a visitare l’infermo. E vi andò. Penetrato nella camera del conte, lo chiamò per nome e quello non rispose, anzi non lo conobbe. Il Re cavò allora dalla tasca uno scapolare e lo pose al collo dell’infermo, dicendogli: "Popò, Popò, la Madonna ti farà la grazia„. Il conte guarì, e finché visse, mi diceva Fiorelli, non si tolse più dal collo il sacro amuleto pur facendo professione di ateismo.
Nonostante tanti fervori e pregiudizii, egli non tollerava le imposture di quelli che per entrargli in grazia, facevano i bigotti (bizzuochi). Un giorno riprese vivamente il Gavaudan, architetto di Casa Reale, perchè questi, per ostentare dinanzi a lui zelo religioso, pensò di cacciarsi nel cappello alcune immagini sacre, per farle cadere quando egli si fosse scoperto, alla vista del Sovrano. Si disse, dunque, che Ferdinando II la prima volta avesse finto di non vederle, ma la seconda volta avesse perduto la pazienza, e al Gavaudan, il quale, mostrandosi confuso e mortificato, si chinava per raccogliere le immagini, dicesse: "Don Ciccio levate sti santi da dinto ò cappiello, e finimmo sta cummedia».4
Il Re visitava i monasteri più celebri del Regno e le immagini più miracolose dei paesi intorno a Napoli. Era stato a Montecassino, a Montevergìne, alla Madonna della Civita sopra Itri, a Cava, più volte ai Camaldoli di Torre del Greco e a tutti i santuarii vicini. Galvano, grosso paese a mezza via fra Napoli e Caserta, possiede un’immagine miracolosa della Madonna, detta di Campigliene, ed era tappa di cambii postali per il servizio del Re, quando si recava da Napoli a Caserta in vettura.
L’ufficio postale era al principio delle case di Galvano, venendo da Caserta, presso il palazzo dei signori Capece, sotto la caserma dei gendarmi a cavallo. Il Re adoperava carrozze proprie, ma i cavalli erano della posta e il servizio veniva fatto da postiglioni speciali. Una volta, venendo da Caserta, un cavallo perde i ferri e azzoppò: non ve n’erano altri e allora il sergente dei gendarmi chiese a Vincenzo Buonfiglio il maggior possidente di Galvano, guardia d’onore, ben conosciuto dal Re, una carrozza che fu data, e il cocchiere del Buonfiglio n’ebbe tre piastre di mancia. Ogni volta che il Re passava da Galvano, era un accorrere di mendicanti, che si schieravano lungo la strada maestra, ed egli si divertiva, gettando una piastra ad una vecchietta, Maria Massaro, che abitava presso l’ufficio postale e che gli faceva trovare un mazzo di fiori, e regalando un’altra piastra ad un cieco, ed una mezza piastra agli altri. Dotato di forte memoria, aveva finito col conoscere tutti que’ pezzenti e li distingueva coi nomi 'o cecato, ’o stuorto, ’a zellosa, ch’era la vecchietta dei fiori, e di ciascuno non gli sfuggivano le malizie. Il più malizioso era ’o cecato, che si chiamava Giuseppiello Auriemma. Una volta, dopo aver ricevuto la solita piastra, profittando della fermata per il cambio dei cavalli, cominciò a correre come un dannato lungo la strada di Caserta, per aspettare il Re al tondo di San Nicola, dove comincia il grande viale di tigli, e ridomandargli l’elemosina. Il Re lo conobbe e gli disse, in tono burlesco: "nnè, cecà, si arrivato prima ’e me!„.
L’ultima volta andò al santuario di Campiglione a Caivano, coi figliuoli minori e l’ultimo bambino che era a balia. S’inginocchiarono tutti e furono cantate le litanie, finite le quali, il Re prese fra le braccia il bimbo e, con la Regina e i principi, andò dietro l’altar maggiore a vedere il miracolo, il quale consiste nel fatto che l’intonaco, dov’è dipinta la testa della Madonna, bellissimo affresco, pare staccato dal muro e pende in avanti e, da anni, pare che ogni momento voglia cadere. Il bambino cominciò a piangere e il Re tornò in mezzo alla chiesa e lo riconsegnò alla balia. Intanto don Arcangelo Zampella, cappellano della chiesa e don Giuseppe Cafaro, fratello del rettore, uscirono dalla sagrestia e presentarono due immagini della Vergine, ricamate in seta, una al Re ed una al duca di Calabria. Fu allora che lo Zampella, buon prete, ma affatto incolto, volle tentare un discorso, al quale diè l’aire con le parole Signor Re, rimaste celebri in quei paesi, ma non potè, il poveretto, proseguire. Il Re sorrise e nel ricevere l’immagine, la baciò devotamente e la consegnò al figlio Francesco, che le diede tutt’e due a persona del seguito. Usciti di chiesa, mentre risalivano in carrozza, accadde un altro casetto. Il curato di santa Barbara, don Pasquale Ponticelli, aveva qualche tempo prima, ottenute dal Re per la sua chiesa, due campane. Il sagrestano della parrocchia. Salvatore Liguori, chiamato Rorò, che era lì, in mezzo alla folla, gridò al Re: "Maestà, chelle campane vanno bbone„ . Il Re sorrise e gli rispose: "Me fa tanto piacere„. Queste manifestazioni popolaresche lo divertivano assai più delle feste © delle gale.
A Pozzuoli, nella chiesa di Santa Maria del Carmine, chiesa dotata da monsignor Rosini di un’opera pia tuttora fiorente, si venera l’immagine della Madonna del Parto. È una statua di pregevole fattura, tolta dall’oratorio del palazzo che fu di don Pietro di Toledo, e raffigura la Vergine in ginocchio, con le mani giunte in atto di pregare, ma le forme della statua sono nascoste da un ampio manto di seta, che dal capo, sotto la corona d’argento, scende fino ai piedi, lasciando fuori il viso e le mani. Dalla tinta bruna del volto, la Madonna è chiamata tradizionalmente la Schiavottella. A questa immagine, pel titolo che porta, vanno a raccomandarsi le partorienti, e Ferdinando II serbava egli pure questa usanza quando la Regina era incinta. All’avvicinarsi del parto, il Re conduceva Maria Teresa e i figliuoli a visitare la Madonna, e vi si recava sul cader del giorno, in vetture precedute dà battistrada e seguite da un drappello di ussari in gran tenuta. Accompagnavano la famiglia Reale dame e gentiluomini.
Il Re, entrando nel santuario, si faceva il segno della croce con l’acqua benedetta, offertagli dal vescovo e poi andava a porsi, egli co’ suoi, ginocchioni davanti l’altare maggiore, per assistere al canto delle litanie e ricevervi la benedizione del Sacramento. Dopo, presa per mano la Regina ed i figliuoli, ad uno ad uno, si accostava alla immagine ed in ginocchio, tutto raccolto, recitava preghiere in comune con la famiglia.
Compiuta la cerimonia, quando il Re si avviava per uscire dalla chiesa, sulla soglia del tempio accettava un modesto ricordo che gli presentava il canonico Ragnisco, rettore della chiesa, cioè una figura ricamata della Vergine ed una frasca di fiori artificiali; e quindi, prendendo ad alta voce commiato dal vescovo con le parole: "Monsignò, vi bacio le mani, e ve raccumanno sta peccerella„ (la peccerella era la Regina) ripartiva. Il servizio di onore nella chiesa era fatto dai veterani, in quel tempo di stanza a Pozzuoli.
Questa visita si ripeteva, qualche mese dopo il parto, ed era detta di ringraziamento. Si portava il neonato, che il padre prendeva nelle sue braccia ed offriva alla Vergine, in atto supplichevole. Per accondiscendere alle premure della gente raccolta in chiesa, il Re permetteva che l’infante fosse portato in giro in mezzo alle benedizioni ed ai baci, che i devoti mandavano al reale marmocchio. Ferdinando II non tralasciò mai di sciogliere questo voto ad ogni parto della Regina, e in ciascuna visita largiva 600 ducati per i bisogni della chiesa o delle oblate, racchiuse nell’annesso ritiro, oltre ai sussidii straordinari. La devozione per quest’immagine era professata anche dai congiunti del Re. Il conte d’Aquila fece a sue spese adornare di marmi artificiali la cappella della Vergine, con la stessa architettura di quella che le sorge dirimpetto, dedicata a San Carlo Borromeo, e più volte die danaro per lampade d’argento e arredi sacri e per rinnovare la facciata della chiesa, come si legge in una lapide, fatta apporre accanto alla porta del tempio dal vescovo monsignor Purpo.
Solo i pregiudizi per la jettatura erano paragonabili ai suoi fanatismi religiosi. Perfetto napoletano anche in questo. La cronaca del tempo registra non pochi aneddoti e molto salaci, e scongiuri da non potersi scrivere in un libro, per quanto caratteristici ed esilaranti. Benchè devotissimo, i frati in genere e i cappuccini in ispecie, i gobbi, i calvi, i guerci, gli uomini dai capelli rossi, le vecchie con la bazza, erano per lui segni di mal augurio o minacce di sventura, in quel modo stesso che di venerdì non compiva nulla che avesse apparenza festiva o gioiosa, ne viaggiava e riteneva il 13, come ogni buon napoletano, numero di tristo presagio. Lasciando Caserta, il giorno della sua partenza per le Puglie, visti due cappuccini presso il cancello della Reggia, si turbò e non nascose il suo turbamento alla Regina che gli sedeva accanto. Nel duomo di Brindisi, nel poco tempo che vi stette, vide un calvo che lo guardava e ordinò che lo allontanassero. Durante la malattia, i pregiudizi! contro la jettatura crebbero in maniera inverosimile; riteneva la malattia effetto di quella e nel parossismo dei dolori lo sentivano esclamare: me l’hanno jettata; — e passava in rassegna gl’incidenti del viaggio, l’incontro dei due cappuccini uscendo dal palazzo reale di Caserta; certe facce vedute in Ariano, a Foggia e ad Andria, il calvo di Brindisi e così via via. Credeva ai veleni, tanto che i medici andavano di persona a spedire le ricette delle medicine che servivano per lui, ed a Lecce, le spediva il dottor Leone nella farmacia dei gesuiti, annessa al collegio e credeva pure ai contagi e alle infezioni, come l’ultima donnicciuola del popolo. L’orrore del Re per le malattie epidemiche, o ritenute tali, non era un mistero. Egli aveva fatto bruciare la vettura di Corte, che trasportò sua sorella donna Amalia in Pozzuoli, dove morì di tisi. Di più, ogni persona abitante negli edifici reali, che fosse attaccata da malattia infettiva, riceveva una sovvenzione, ed era obbligata a sloggiare. Nessuno ardiva parlare di morti a Corte, ed ai convogli funebri era espressamente vietato di passare innanzi alla Reggia, nè il Re visitò mai, negli ultimi tempi, ospedali militari o civili. Dopo l’attentato e dopo il supplizio del regicida, ebbe visioni paurose. Il cadavere del Milano fu sepolto nel cimitero di Poggioreale. Il Re sognò, pochi giorni dopo, che uomini, armati di bastoni di ferro, invadessero di notte il camposanto e, recatisi sul luogo dov’era sepolto Agesilao, ne involassero la cassa e la trasportassero alla darsena per imbarcarla, passando innanzi alla Reggia. E il giorno dopo rivelò il sogno e la polizia corse al cimitero, ma naturalmente trovò che nulla era avvenuto di quanto il Re aveva sognato!
I pregiudizi crescevano con le paure. Egli cercava distrarsi, occupandosi degli affari dello Stato e distraendosi coi figliuoli, ma non era tranquillo. Fosse pungolo di rimorso o sintomo della malattia, che cominciava a invadere l’organismo suo, avrebbe fatta qualunque penitenza per riacquistare la tranquillità dello spirito. Anche le cose politiche non procedevano secondo i suoi desideri e le accuse, che gli erano fatte in Piemonte e in Francia, stranamente lo irritavano.
Ottocento prigionieri politici erano davvero un grave argomento di querimonie e di proteste, da parte del mondo civile, ma non fu che sulla fine del 1858, che egli pensò di disfarsi dei più pericolosi di loro. Il 10 gennaio 1857, venne concluso e sottoscritto un trattato con la confederazione Argentina, per fondare nel territorio di questa una colonia di regi sudditi, condannati detenuti politici, ai quali il Re volesse commutare la pena e permettere, con le condizioni stipulate, l’emigrazione laggiù. Il Re vi avrebbe mandati a sue spese, in varie spedizioni, quanti prigionieri politici volesse e la Repubblica, dal canto suo, avrebbe dato a ciascuno un pezzo di terra, istrumenti da coltivare e cento patacconi in danaro. Ma il trattato, per quanto concluso e sottoscritto, non andò in vigore, perchè, interrogati i prigionieri, pochi soltanto, giovani ed animosi, risposero che per uscir di galera anderebbero dovunque, ma gli altri, i più anziani, energicamente protestarono. È rimasta celebre la risposta di Poerio: "Perchè tanta spesa, egli disse, e tanto incomodo per farci morire in America o per viaggio? lasciateci morire in galera„. Un’altra volta, lo stesso Poerio al Mirabelli, intendente di Avellino, che, recatosi a Montefusco, consigliava i prigionieri politici a chieder grazia al Re, rispose: "Noi attendiamo giustizia, ditelo al Re„. Il Settembrini, nella sua commemorazione di Carlo Poerio, afferma che principalmente per quella prima risposta il trattato fu rotto, ma il Re non depose il pensiero di allontanare dal Regno coloro che temeva anche in galera. E cosi, nei primi giorni del 1859, un decreto reale commutò a 66 condannati politici la pena dell’ergastolo e dei ferri in esilio perpetuo, e un rescritto ministeriale ordinò che fossero trasportati a New-York. Erano, fra questi, Carlo Poerio, Luigi Settembrini, Silvio Spaventa, Sigismondo Castromediano, Niccola Schiavoni, Michele Pironti, Niccola Nisco, Giuseppe Pica, Achille Argentino, Domenico Damis, Cesare Braico, Giuseppe Pace, e Agresti, Barilla, Placco, Faucitano, tutti condannati all’ergastolo o ai ferri da 25 a 30 anni, e perciò reputati i più pericolosi.
Le loro vicende son note, ma non è ugualmente noto il telegramma del Re al Brocchetti, comandante della spedizione. A Cadice il Brocchetti incontrava non poche difficoltà per imbarcare su nave estera i prigionieri, poiché quell’imbarco era una violenza. Telegrafò al Re, il quale da Bari, dove si trovava per il matrimonio del principe ereditario, fece rispondere nel modo che si dirà appresso.
Tanta implacabilità verso i prigionieri politici, dopo averli fatti macerare nelle galere di Procida, di Santo Stefano, di Montefusco e di Montesarohio, e i cui tormenti sono descritti nelle Ricordanze del Settembrini e nelle Memorie interessantissime del Castromediano, contrastava in modo inverosimile con la familiarità bonaria con cui accoglieva persone a lui devote, soprattutto se rivestite di carattere religioso. Pareva allora un altro uomo. In un giorno di estate del 1856, fu visitato a Caserta dal padre Gennaro Maria Cutinelli, della compagnia di Gesù, vecchio di ottant’anni, incaricato col padre Planas della direzione spirituale delle carceri di Napoli. Il padre Cutinelli aveva porta aperta alla Reggia e il Re lo accoglieva sempre con festa, gli baciava la mano e non gli negava mai nulla. Era un santo uomo, intimo degli arcivescovi di Napoli e di Capua, confessore del ministro Murena, fondatore da poco tempo dell’istituto artistico a Sant’Aniello, dove cercava redimere col lavoro i piccoli ladri (mariuncielli), e non si occupava di politica. I prigionieri avevano per lui una sincera devozione. Alla compagnia di Gesù era affidata la direzione spirituale delle carceri in tutto il Regno. Vecchio e sofferente, quasi cieco, con la parrucca e la dentiera, il padre Cutinelli conduceva seco per guida un giovanetto di sedici anni, aspirante alunno al ministero delle finanze, che gli scriveva le lettere e lo assisteva amorosamente, tanto che lo chiamava il mio bastone. Aveva ottenuto dal provinciale della Compagnia il permesso di andar per le vie con quel giovane, invece che con altro padre, vietando la regola ai gesuiti di andar soli in pubblico.
Arrivarono a Caserta dopo il mezzogiorno, e annunziato al Re il padre Cutinelli, fu subito introdotto; anzi il Re, che allora finiva di pranzare, gli andò incontro col tovagliolo tra le mani, dicendogli: Trasite, trasite, padre Cutine’;5 e visto quel giovanotto, che non conosceva, chiese: Chi è stu guaglione?6 Il padre Cutinelli rispose: È il mio bastone, Maestà, e ne disse il nome, il cui ricordo non parve riuscisse gradito al Re, ma invitò non pertanto anche lui ad entrare. Ed entrati tutti nella sala da pranzo, il Re disse ai tre primi figli: "Vasate à mano a ò padre Cutinelli„; e quelli non se lo fecero dire due volte. E il padre Cutinelli, rivolgendosi alla Regina, le domandò come stesse e se fosse uscita la mattina a passeggiare; e Maria Teresa, facendo mostra di baciargli la mano, rispose col suo accento tedesco, in volgare napoletano: "Stamattina non songo asciuta, so stata a coseve„.7
Fatti i convenevoli, il Re sempre bonario e premuroso chiese al padre Cutinelli che volesse, e quegli: Maestà, quod superest . . ., e il Re fini la frase: "Date pauperibus; ho capito„, e subito concesse che alcune economie del ministero dei lavori pubblici fossero destinate all’istituto artistico. Poi il Re si mise a parlare col vecchio gesuita presso l’inferriata della finestra, che dava sul giardino. Il tempo si era turbato e venne giù un acquazzone con lampi. Il padre Cutinelli pregò il Re di ritirarsi da quel posto pericoloso, ma il Re gli disse: “Padre Cutine’, io tengo no capillo della Madonna, e non aggio paura dei tuoni.„8 E restò presso l’inferriata, e quando la pioggia cessò volle accompagnare padre Cutinelli sino alla porta, gli ribaciò la mano e gliela ribaciarono la Regina e i principi. Il guaglione, come l’aveva chiamato il Re, ebbe più tardi vita avventurosa. Fece ascensioni in pallone, girò l’Europa per Congressi, fu pompiere in Roma e intimo di Vittorio Emanuele, andò in Egitto nella polizia d’Ismail; e tornato di là, povero come Giobbe, lavora, conservando tutto il suo spirito. È Rinaldo de Sterlich, figlio di Alessandro, il quale nel 1848 era uffiziale di carico al ministero di agricoltura, venne destituito per ragioni politiche, e poi fu deputato al Parlamento ed economo generale a Napoli dei benefizi vacanti.
Altra nota caratteristica di Ferdinando II, nella sua gioventù, furono gli scherzi, e anche qui si rivelava l’indole tutta napoletana di lui. Scherzi non degni di qualunque persona educata, ma di moda nell’alta società di allora. Una vittima di essi era stato don Raffaele Caracciolo di Castelluccio, che morì vecchio verso il 1850, e fu per tanti anni parassita e zimbello della Corte. Molte sono le baie, che si narra essere state fatte al vecchio gentiluomo, il quale portava la parrucca ed era appassionatissimo di cavalli e di equipaggi. Da una cronaca inedita di un reputato scrittore napoletano, riferentesi al matrimonio del Re con Maria Cristina di Savoia, tolgo questo aneddoto:
{{smaller block|class=c90|Il Re prima che risposasse ebbe una scommessa di trecento ducati col neo cavaliere capitano Statella, dicendo costui che il Re si sarebbe sposato in quest’anno, e il Re negandolo. Il Re avendo perduta la scommessa, pagò i trecento ducati. Molti rimproverarono Statella d'averli ricevuti. Onde costui, per dar fine a’ rimproveri, invitò il Re con tutta la famiglia reale, e così dame e gentiluomini di quelli che circondano la famiglia reale, ad un pranzo a Posillipo, e propriamente nel casino di Barbaja, antico luogo di abitazione del nostro Sannazaro. Questo pranzo doveva aver luogo tre o quattro giorni fa, ma perchè non era ancor giunto di Francia il ministro delle finanze, principe di Cassaro, fratello del capitano Statella con un servizio di tavola per quaranta persone, di argento dorato di quella maniera detta vermeille, che è in grandissima moda, così non ha avuto luogo prima di questa mattina. Il Re e i principi reali ci sono intervenuti da semplici ufficiali, senz’ordini. Il pranzo è stato brillantissimo, ed il Re ha fatto mostra di una grandissima allegria: ha tolto di testa al cavalier Raffaele Caracciolo la parrucca, e l’ha gettata via: ed avendo nascosto il cappello del duca di San Cesario, indispettito che l’architetto signor Bianchi (il quale vi si trovava per l’architettura del pranzo ed ogni altro necessario divertimento) trovatolo, l’aveva dato al duca, glielo ha tolto di mano e posto nel foco di un braciere; e come gli altri s’ingegnavano a salvare il cappello, egli con una paletta più l’introduceva nel foco, sicchè per infine del tutto è rimasto bruciato. Dopo il pranzo, in un teatro fatto per questa occasione nel giardino del palazzo, vi è stata la recita di una commedia in dialetto napoletano rappresentata dagli attori di San Carlino, perchè la regina sposa avesse cognizione delle grazie di queste nostre commedie. Ed infine due primarie ballerine del teatro di San Carlo, hanno fatto la danza nazionale detta la tarantella. Questo pranzo ha costato al signor Statella più migliaia, ed ora è sicuro che non gli si dirà che per avarizia ricevette dal Re i trecento ducati.}}
Nè finirono qui gli scherzi. Un giorno che il Caracciolo era con altri amici convitato a pranzo presso una nobile famiglia napoletana, il Re saputolo gli mandò un suo messo, e nel punto in cui il pranzo cominciava, fece chiamare di urgenza a Palazzo don Raffaele. Questi immediatamente vi accorse. Il Re lo lasciò sino alla mezzanotte in anticamera, e quando uscì fuori, ridendo a crepapelle, gli disse:„Don Rafè, ai fatto ’u chiuove alla madonna„,9 e lo congedò.
Un altro giorno seppe il Re che la sua vittima andava con alcuni amici a Sorrento. Fece circondare la carrozza da guardie di polizia, che intimarono a tutti l’arresto per ragioni politiche. Ebbero a morirne. Gli altri vennero poco tempo dopo rilasciati, ma don Raffaele fu tenuto due giorni in custodia, e nel terzo giorno il Re gli fece dire: "Don Rafè, isciatienne, ’o Rè t’ha voluto grazià'„.10 Don Raffaele questa volta perdette le staffe, e disse ai due ufficiali ch’erano andati a liberarlo: "Chisse se chiama prurito de c...„, Il Re lo seppe, e don Raffaele ne perdette la grazia.
Negli ultimi tempi gli scherzi si limitarono a risposte argute, ad osservazioni e ammonizioni offensive per chi le riceveva, ma il tipo del parassita zimbello era sparito col Caracciolo. Gli anni e le preoccupazioni del governo avevano modificata l’indole del Re. Nel 1832, quando sposò Maria Cristina, aveva 22 anni ed era nella pienezza del suo spirito volgarmente bizzarro e ne faceva d’ogni specie. Andò a sposare a Veltri, e partì da Napoli il giorno 8 novembre, per terra, accompagnato dal Caprioli, suo segretario particolare e dal corriere di gabinetto Dalbono. Non volendo essere riconosciuto lungo il viaggio, si pose gli occhiali e le barbette finte, ed al confine mostrò un passaporto, nel quale era chiamato don Ferdinando Palermo, gentiluomo, che parte per un Cantone della Svizzera. Giunto a Roma, non discese al suo palazzo Farnese, ma alla locanda del Serny, in piazza di Spagna. Vi si trattenne tre giorni e visitò il Papa, e da Roma, il 14, parti per Firenze dove giunse incognito. Visitando le gallerie, v’incontrò il Granduca, che gli era cugino e l’anno dopo divenne cognato; gli si diè a conoscere, ma ne ricusò l’ospitalità, scusandosi che partiva il giorno stesso per Genova. Il matrimonio del Re fu celebrato dal cardinale Morozzo vescovo di Novara a Voltri, nel santuario dell’Acquasanta, il giorno 20 novembre. Maria Cristina aveva vent’anni ed era alta quanto lui, parlava poco e in francese quasi sempre. Compiuto il matrimonio, non volle andare a dormire con lei nel magnifico appartamento fatto preparare da Carlo Alberto al palazzo reale, ma pretese che Maria Cristina andasse lei al palazzo ducale, dov’egli alloggiava. E la seconda notte del matrimonio, all’improvviso, se ne andò con un aiutante a visitare la fortezza di Alessandria. A Genova si fermò sei giorni. Fece partire per Napoli il Caprioli e il Dalbono, per far pubblicare il matrimonio e avvisare che i Sovrani sarebbero presto arrivati. Vi giunsero infatti il giorno 30, a bordo della fregata Regina Isabella, seguita dalle fregate sarde il Carlo Felice e l’Euridice, e da un avviso, il Dione. Era di venerdì, pioveva a dirotto e la pioggia e la giornata non furono ritenute di buon augurio dai napoletani. La Regina non volle saggiare alcuna pietanza di carne. Il Re rideva degli scrupoli di lei e la metteva in canzonatura, dicendo che era una santa, molto attaccata all’etichetta insopportabile della Corte di Torino: scrupoli ed etichetta, che molto lo seccavano. Si determinò subito una marcata e profonda incompatibilità di carattere fra loro due, e Maria Cristina non fu la donna più felice nei quattro anni che sedette sul trono di Napoli. Non so quale impressione riportasse dagli scherzi fatti in sua presenza dal Re su quel povero Caracciolo. Lo scherzo, che si disse fatto a lei stessa, di toglierle la sedia mentre sedeva e di farla andare con le gambe in aria, se non è storicamente accertato, è verosimile, data la natura di chi lo faceva. Un altro aneddoto, che tolgo pure dalla cronaca del matrimonio. Il 24 novembre partirono da Napoli due battelli a vapore all’incontro del Re, sui quali presero imbarco alcuni principi reali, il Caprioli, il presidente e alcuni membri della deputazione di salute, per dar subito pratica al vascello che portava i Sovrani. Ma questi battelli non incontrarono la flotta, partita da Genova, perchè sbagliarono direzione. La flotta giunse, il Re e la Regina sbarcarono e, due giorni dopo, i due battelli tornarono nel porto. Si può immaginare quale miniera di motti e di caricature fu per il Re questo sbaglio, veramente inconcepibile.
Gli scherzi del padre furono un po’ ereditati dai figli del secondo letto, ma nessuno dei figli somigliava a lui, che fu, tutto compreso, una delle più singolari nature di principe assoluto: bizzarra contraddizione di buono e di pessimo, che regnò ventinove anni e non subì influenze di favorite o di ministri, che considerò come strumenti nelle sue mani e buttò via quando non gli servirono più; nè di potenze, con le quali cercò di vivere in buona pace, ma di nessuna subendo prepotenze, nè ad alcuna dando molestia. La sua diplomazia, come si è veduto, non aveva iniziative, non negoziò trattati di alleanze, ne di protettorati, per cui avvenne che, morto lui, il Regno si trovò senza alleati, senza amici e finì in pochi mesi. Una sola illusione Ferdinando II ebbe e l’accompagnò per tutta la vita, e fu davvero fatale alla sua dinastia: credere di non dover morire mai.
Note
- ↑ Teresa, a poco a poco finiremo per servirci a tavola noi stessi.
- ↑ Neh, avvocati, che volete?
- ↑ Don Antonio, dagliene una fetta, altrimenti non ci lascia parlare.
- ↑ Don Francesco, togli questi santi dal cappello e finiamo questa commedia.
- ↑ Entrate, entrate, padre Cutinelli.
- ↑ Chi è questo ragazzo?
- ↑ Stamattina non sono uscita, sono stata a cucire. Le mancava l’erre come si è detto.
- ↑ Padre Cutinelli, io ho un capello della Madonna e non ho paura dei tuoni.
- ↑ Frase dialettale, che vuol dire: hai fatto un fioretto alla Madonna.
- ↑ Don Raffaele, esci, il Re ti ha voluto graziare.