La fine di un Regno/Parte I/Capitolo IX

Capitolo IX

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CAPITOLO IX


Sommario: Antonio Scialoja e i bilanci napoletani — Importanza del suo opuscolo — Un motto di Ibrahim Pascià — L'amministrazione pubblica del Regno — Le taglie della polizia — Un curioso interrogatorio per i passaporti — Le nove confutazioni all’opuscolo di Scialoja — Loro argonmenti — Lo stile di Niccola Rocco — La spedizione di Sapri — Il processo di Salerno — Particolari interessanti — Le escandescenze del colonnello Ghio — Gli Ordini cavallereschi — Parsimonia nel conferirli — L’Ordine del Bagno — I cavalieri costantiniani, quelli di San Gennaro e di San Ferdinando — Cavalieri di altri Ordini — Le divise cavalleresche — La commissione dei titoli di nobiltà.


A rompere il silenzio, anzi a sciogliere addirittura le lingue, venne l’opuscolo di Antonio Scialoja sui bilanci napoletani e sardi. Lo Scialoja non si limitò a confrontare meccanicamente le entrate e le uscite, quali apparivano dai bilanci dei due paesi, ma le sottopose ad una critica acuta e spietata, la quale riducendo le cifre al loro giusto valore, rendeva eloquenti i confronti, mostrando la superiorità dello Stato piemontese sul napoletano. Esaminate le entrate, egli le paragonava con le spese, e suddistinguendo queste, secondo i varii rami della pubblica amministrazione, ne traeva argomento a considerazioni e rivelazioni gravi, le quali, prese insieme, illustravano tutta la vita economica e politica del Regno.

Fu un colpo di fulmine per il Re e per i ministri, un risveglio per i sudditi. L’opuscolo, scritto con chiarezza e vivacità come lo Scialoja soleva, si legge anche oggi con interesse. Allora andò a ruba, benchè colpito da severa proibizione. Non ingiurie, nè tirate rettoriche, ma un sottile e fine umorismo brilla in quelle pagine. Il dispotismo di Ferdinando II, più che [p. 178 modifica]dall’eloquenza delle cifre e dai paragoni, vi è ritratto dall’ironia. Non mancano gli aneddoti. Parlando dell’andata di Ferdinando IV al Congresso di Laybach, Scialoja ricordava che un bello spirito presente alla cerimonia, in cui Ferdinando giurò la Costituzione in San Lorenzo, ricavò dall’iscrizione dell’altare, che diceva altare privilegiatum, questo anagramma: mal giura patti re vile. Ventisette anni dopo, il 24 febbraio 1848, Ferdinando II compì la stessa funzione in San Francesco di Paola. Vi assisteva Ibrahim Pascià, il quale, uscendo di chiesa, fece dire dal suo interpetre ad una persona ragguardevole che gli era stata presentata: "Prendete le vostre precauzioni; il Re non manterrà il giuramento„ . Richiesto del motivo di questa sua profezia, rispose d’aver notato che il Re teneva un anello in un dito della mano destra, da lui spiegata sopra il Vangelo, e gli Orientali credono che chi giura, tenendo in dito un anello, diventa spergiuro.

Notando lo Scialoja che nel Napoletano i tributi, ragguagliati alla popolazione, davano una quota di lire 21 per abitante e nel Piemonte di lire 26,60, chiudeva il suo studio con un ispirato confronto fra l’alta posizione morale e politica del Piemonte, e il grado d’inferiorità in cui era il Regno di Napoli, Scialoja dichiarava di prescindere dalle taglie arbitrarie, che gli ufficiali e gli agenti della polizia potevano, per via di fatto, imporre e riscuotere a lor talento: strani tributi, che furono la caratteristica dell’antico Reame specialmente negli ultimi anni. Il governo li consentiva o tollerava. Erano in molti casi più molesti delle imposte, ma bisognava pagarli a propria difesa. Il Re, ch’era onesto personalmente e parsimoniosa con lui la famiglia reale, forse più che non convenisse al suo grado, avrebbe desiderato che l’amministrazione dello Stato fosse rigida, ma la corruttela regnava intorno a lui ed egli lasciava correre, vendicandosi coi motteggi, e dei proprii istinti morali facendosi un titolo di superiorità agli occhi dei sudditi e dei governi stranieri. Egli veramente non si sentiva la forza di frenare la degenerata corruzione di alcuni pubblici uffici; nè forse era possibile, con una polizia irresponsabile e agenti reclutati negli infimi fondi sociali; con le tendenze dei sudditi, educati alla massima che col danaro si riesce a tutto, e in un paese dove tutto è eccessivo, dove manca la coscienza del diritto, dove si [p. 179 modifica]avvicendano le più nobili aspirazioni del viver libero coi raffinamenti e le goffaggini della servitù e dove mancavano coraggiosi cittadini, perchè mancavano le condizioni adatte a formarli.

Fra le amministrazioni più corrotte e corruttibili, primeggiavano — oltre la Polizia e le Intendenze, i cui infimi impiegati requisivano nei comuni sempre a titolo gratuito ogni sorta di commestibili, fin il sale — le Dogane, gli uffici delle contribuzioni dirette, dei ponti e strade, delle acque e foreste. Ai funzionarii di queste amministrazioni, quando si presentavano nei comuni per ispezioni o verifiche, si era soliti regalare, collettivamente, un così detto caffè, cioè qualche diecina di ducati, per evitare angherie e soprusi o per ottenere che ad angherie e soprusi si mettesse fine, o per aver favori.

Ferdinando II poteva decretare che si gettasse un velo sulle nudità delle statue nei musei, e che le ballerine in teatro fossero coperte di maglie lunghe e dai colori meno atti ad eccitare i sensi, ma non impedire che gli eccessi del suo governo divenissero fonte inesauribile d’illeciti guadagni, rappresentanti un vero sistema tributario, non contemplato dalle leggi. Innumerevoli sarebbero gli aneddoti a tal riguardo. Passaporti, licenze e permessi in genere, attendibili e studenti: ecco la materia imponibile. Udite questa, ch’è caratteristica. Gli studenti di Calabria e di Basilicata prendevano la ferrovia a Nocera, nella cui stazione, andando a Napoli, i viaggiatori dovevano passare per una porta, innanzi alla quale era piantato un feroce, il quale sapendo appena sillabare, doveva far l’esame dei passaporti. Chi era avvezzo a simili controlli, insieme al passaporto metteva cinque grani o un carlino nelle mani del birro, il quale, senza aprire la carta, dichiarava tutto in regola. Ma chi non conosceva l’uso, andava soggetto a un comicissimo e implacabile sindacato. Il birro fingeva di leggere, ma squadrava con aria indagatrice lo studente, e poi, puntando l’indice della mano destra sul passaporto, gli diceva: "Questo non è il vostro naso„; e poi: "questi non sono i vostri occhi„, e così continuava minacciando, finché quello, comprendendo il latino, non lasciava scivolare il carlino o il tarì nelle mani del feroce che, ripiegato il passaporto, lo rimetteva al titolare con le parole: "Camminate, tutto è in regola„ . I brigadieri di gendarmeria erano nei Comuni veri tirannelli, e se il loro zelo non veniva temperato [p. 180 modifica]dalla onestà del giudice regio, ai soprusi non c’era freno, o si componevano a suon di pecunia, con la nota formula di far accettare un caffè, o con offerte di caciocavalli e altri frutti di dispensa.

Scialoja non aveva detto tutto, perchè di questi e di altri aneddoti sulle industrie arcane della, polizia, non vi è molta nel suo scritto; ma quel che disse parve così grave al governo napoletano, pauroso di ogni pubblicità, da costringerlo a far scendere in campo nove campioni a confutarlo. Monsignor Salzano, che gli rispose per la parte ecclesiastica, era, come si è veduto, consultore di Stato; Federigo del Re, consigliere alla Corte dei conti; Agostino Magliani era stato promosso, nel maggio di quell’anno, da capo di sezione nella tesoreria a ufficiale di ripartimento nel ministero delle finanze, e promosso nello stesso mese Niccola Rocco a sostituto procuratore generale della Gran Corte civile. Salzano, Del Re, Magliani e Rocco erano dunque alti funzionari dello Stato, e il Del Re fu ministro dell’interno e polizia nel primo ministero costituzionale di Francesco II, dal 25 giugno al 15 luglio, e il Magliani fu ministro delle finanze per una diecina d’anni, dopo l’avvento della Sinistra al governo d’Italia.

Gli altri cinque, che polemizzarono con Scialoja, avevano uffici più umili, anzi l’avvocato Francesco Durelli non ne aveva alcuno. Don Girolamo Scalamandrè era ufficiale di carico alle finanze ed aveva studio privato di giurisprudenza. Ciro Scotti e Alfonso Maria de Niquesa, piccoli impiegati, e don Pasquale Caruso era l’inviso rettore del Collegio medico, la cui scolaresca gli si sollevò contro, come vedremo, nel 1859. Scesero in campo, armati di rettorica, di cavilli e d’insolenze, accusando lo Scialoja di denigratore della propria patria e di malafede, e chiamandolo ignorante e ribelle. La più calma delle risposte fu quella del Del Re; la più abile la scrisse il Magliani; la più serena, ma la più comica nella forma, Niccola Rocco; le più ingiuriose furono le risposte dei due ecclesiastici; insignificanti, le altre.

L’argomento principe di tutte le confutazioni consisteva in ciò, che essendo minime le imposte, la prosperità economica del Regno era grandissima, deducendola dall’alto tasso della rendita pubblica, dalle scarse manifatture di Sarno, di Sora e di San Leucio, dai minuscoli tronchi di ferrovia, dalla sicurezza che godeva il Regno, dopo che Ferdinando II aveva domata la rivoluzione e [p. 181 modifica]rimesso in onore il culto, allargati i privilegi del clero, ed associata la religione ad ogni progresso civile. Don Niccola Rocco, che più si tenne lontano dalla politica, scriveva nel suo speciale idioma: "i commerzi (sic), li interni e l’esterni, e le arti e le manifatture, le speculazioni industriali e mercantili d’ogni guisa si posero tutte quante in movimento„, e conchiudeva che sarebbe stata gloria incontrastabile di Ferdinando II d’aver "con fermezza d’animo equale (sic) alla civil sapienza ricongiunte queste due cose, che in tempi pili oscuri si credeano dissociabili, cioè la prosperità delle finanze e il benessere del civil convitto„ . Caruso ripubblicò nella Rondinella tutte queste risposte, ma l’opuscolo di Scialoja lasciò un gran segno.


La spedizione di Sapri turbò forse meno i sonni del Re. Gli effetti dei due avvenimenti nello stesso anno furono ben diversi, e quelli della spedizione assai men duraturi. Il Cagliari, partito la sera del 25 giugno 1857, da Genova, giunse nella rada di Ponza il 27; la sera del 29 avvenne lo sbarco a Sapri; il 30, la banda era a Padula, e il mattino del 2 luglio succedeva l’eccidio di Sanza, nel quale cadeva assassinato il Pisacane. Uno dei protagonisti della feroce repressione fu il maggiore di gendarmeria Liguori, che godeva particolare fiducia di Ferdinando II, fino a sprezzare apertamente l’autorità dell’intendente Ajossa. Nella repressione i principali agenti fecero man bassa sull’oro, sulle armi e sugli oggetti che caddero sotto le loro mani. Il governo, nonostante gli ordini e i richiami, non venne in possesso che di poche armi di nessun conto. In meno di una settimana la tragedia fu compiuta e compiuto il processo in sei mesi. Questo cominciò alla fine di gennaio 1858 a Salerno, e per il numero degli imputati, le sedute si tennero nel locale di San Domenico. Presidente della Corte fa Domenico Dalia, che si mostrò mite; procuratore generale, il Pacifico, zelante, anzi fanatico che, dopo l’interrogatorio dei principali arrestati, si recò a Gaeta, chiamatovi dal Re. Ogni mattina gli imputati erano tradotti dalle carceri alla Corte, in mezzo a grande apparato di forza. Qualunque segno di pietà verso di loro sarebbe stato delitto. A Filippo Moscati che, giovanissimo, assisteva alle sedute, un ufficiale dei cacciatori proibì di ricomparirvi, perchè fu visto dare qualche moneta ai detenuti più poveri.

[p. 182 modifica]Al dibattimento assistettero i consoli d’Austria, di Francia, del Piemonte e dell’Inghilterra, anzi quest’ultimo fece dichiarare fuori causa, per difetto di mente, due inglesi implicati nel processo e che furono difesi dal giovane avvocato Diego Tajani. Gli altri difensori furono Francesco La Francesca, Raffaele Carelli, Edoardo Petrelli. La difesa più coraggiosa la fece il La Francesca, il quale dicendo ad un certo punto, "il massacro di Sapri, che, per ischerno, dicesi conflitto„, fu interrotto dal tenente colonnello del 6° cacciatori, Ghio, il quale ad alta voce esclamò: "Mo le farria zumpà a capa pe l’aria a stu f....1 — L’avvocato Petrelli trovò modo di fare nella sua difesa l’apologia del governo borbonico e delle autorità presenti. Il processo si chiuse con sette condanne a morte e nove all’ergastolo.

Pochi giorni prima dello sbarco di Sapri, il Comitato liberale aveva cercato di organizzare una piccola dimostrazione in piazza San Ferdinando, vicino alla Reggia. Alla riunione in casa di Gennaro de Filippo intervenne anche Giuseppe Fanelli, mazziniano ardente, ammessovi per insistenza di Giuseppe Lazzaro, cognato suo. Si trovò presente anche Teodoro Pateras, il quale era stato a Venezia nel 1848 e tornato a Napoli, aveva aperto un piccolo negozio di abiti manifatturati, tra il vico D’Aflitto e il vico Conte di Mola, a Toledo. Il Fanelli pregò, scongiurò di non tentar nulla prima di altri cinque o sei giorni, perchè era per compiersi un fatto rivoluzionario della maggior gravità, ed il Comitato gli prestò fede. Di vivaci e violenti polemiche, e di atroci accuse di tradimento e di codardia fu cagione questo infelice tentativo di Sapri, dopo che il Nicotera e i suoi amici tornarono in libertà nel 1860; e il Fanelli e il Pateras furono fatti segno alle maggiori accuse, come quelli che, essendo a parte dello sbarco, nulla fecero di quanto avevano promesso al Pisacane. Di quei casi scrisse con copia di documenti e onestà di storico, otto anni dopo, Giacomo Racioppi, e prima di allora non se ne sapeva nulla con precisione. I fogli del tempo si limitarono a riprodurre le monche notizie del Giornale Ufficiale, che non pubblicò neppure i nomi dei capi dell’impresa, solo constatando, con viva soddisfazione, che 30 morti eran restati sul terreno a Sanza, fra i quali il loro capo e [p. 183 modifica]attribuendo il merito della repressione alle guardie urbane e ad una parte del 14° cacciatori, che avevano mandato in fumo l’abominevole tentativo, diretto a disturbare la quiete di popolazioni pacifiche, devote ed amanti del nostro adorato Sovrano. Ed affermò che "dappertutto si benediva la mano saggia, ferma, energica e paterna del Re N. S.

Delle condanne di morte nessuna fu eseguita e la storia, severa con Ferdinando II, deve registrarlo; ma il Re fu largo di pensioni, di croci, di premi a "quella scalza e miserabile genia di Sanza, alla quale fu detto che gli sbarcati di Sapri avevano le tasche pesanti di oro, e che, nemici del Re, questi avrebbe pagato ogni capo quant’oro pesasse. Prova e ricordo il teschio reciso di Costabile Carducci!„, Sono parole sdegnose del Racioppi. L’intendente Ajossa ebbe un’alta decorazione, e furono anche decorati quasi tutti gì’ impiegati dell’Intendenza, fra i quali Alfonso della Corte, che morì di recente, maestro di ballo nel convitto nazionale di Salerno. Oltre che a Sanza, le elargizioni reali si estesero ad altri comuni dei circondarii di Sala, Vallo e Campagna. Ai militari soltanto furono concesse, fra insegne cavalleresche, medaglie d’oro e d’argento, ben 160 onorificenze; e chi volesse saperne di più e conoscere addirittura i varii beneficii concessi dal Re — piccole largizioni in gran parte, quasi elemosine — e i nomi dei beneficati, legga la cronaca di monsignor Del Pozzo, o la interessante cronistoria della rivoluzione in Basilicata del compianto Michele Lacava.2 Questi è severissimo col Pateras, al quale attribuisce principalmente la causa del disastro. Ma l’esattezza storica vuole si dica, che quelle pensioni, quelle croci, quei privilegi furono petulantemente chiesti, o di rettamente al Re o per mezzo dell’intendente, da tutti coloro che credevano di avervi diritto. Sapri e Sanza oscurarono la fama di Pizzo. Mezzo secolo di maggior imbestiamento morale non poteva non produrre i suoi frutti gloriosi.


Il Regno contava cinque ordini cavallereschi. Avrebbe dovuto tenere il primo posto l’Ordine di San Gennaro, istituito da Carlo III nel 1738, ma, fin dall’aprile del 1800, tornato Ferdinando I dal primo esilio, fondò l’Ordine di San Ferdinando del [p. 184 modifica]Merito, che divenne l’onorificenza tenuta in maggior pregio e che più raramente si concedesse. Gli altri tre Ordini erano: il Costantiniano, antichissimo e quelli di San Giorgio della Riunione e di Francesco I, istituiti dopo la seconda restaurazione, quando si volle cancellare ogni traccia di quel decennio francese, il quale, se fosse durato, avrebbe fatta la fortuna del Regno. All’unico Ordine delle Due Sicilie, istituito da Murat, se ne vollero sostituire due: uno per il merito militare e fu quello di San Giorgio, l’altro per i meriti civili e fu quello di Francesco I.

Gli Ordini cavallereschi dipendevano dalla presidenza del Consiglio dei ministri, che inviava ai nuovi cavalieri i diplomi, le cedole e i rescritti, e aveva pure un deposito di decorazioni. Il cortese don Gaetano Piccioli, uffiziale di ripartimento, era addetto a questo servizio. Per mezzo della presidenza si concedevano gli exequatur per l’uso delle decorazioni straniere, si otteneva il conferimento, l’affitto e l’amministrazione delle commende Costantiniane e le pensioni nell’Ordine di San Giorgio. Però la nomina cavalleresca dipendeva solo dal Re; l’ufficio del presidente del Consiglio si limitava a proporre, e non in tutti i casi, i nomi de’ meritevoli. E il Re non era punto largo nelle nomine, anzi vi fu sempre tanta parsimonia nel conferirle, quanta è la ridicola prodigalità di oggi. Non si poteva aspirare nella gerarchia burocratica ad una croce di cavaliere, se non s’era pervenuti almeno al posto di ufficiale di ripartimento o di intendente; raro il caso che si decorasse un sottintendente. Oggi non vi è capodivisione o prefetto, che non sia due volte commendatore e vi ha funzionarli, il cui petto sembra trasformato in una vetrina di chincagliere, nei balli di Corte e nei ricevimenti ufficiali.

Ferdinando II teneva in gran pregio i suoi Ordini, e nel conferirli badava anche a certe apparenze esteriori. Gli fu proposto di concedere la croce di San Gennaro al marchese Onorato di Santeramo, un nobile signore e un brav’uomo che aveva la passione dei cavalli, per i quali spendeva molto e passava buona parte del giorno nelle scuderie. Vestiva dimesso, anzi affermavano i maligni, che la nettezza della persona non fosse la cura principale di lui. Proposta la nomina al Re, questi riconobbe che il marchese aveva i titoli per ottenerla, "ma sapete, aggiunse ridendo, quale sarebbe la decorazione piìi adatta per lui? L’Ordine del Bagno, ma io non l’ho e non posso darglielo„. Altro che bagno occorrerebbe oggi per tanti nuovi [p. 185 modifica]cavalieri, i cui maggiori titoli sono spesso l’intrigo o la trappoleria elettorale! Vuolsi però che il marchese non avesse la croce, anche perchè mancò alla consuetudine di partecipare la morte del padre suo, Carlo, al Re e chiedere, come capo della famiglia, la medesima decorazione.3

Per il merito civile e letterario c’era l’Ordine di Francesco I; quello di San Gennaro non serviva, di regola, che per riconoscere i gradi più alti della nobiltà; era quasi ereditario nelle grandi famiglie del Regno ed era anche conferito ai presidenti del Consiglio dei ministri, solo essendosi fatta eccezione per i ministeri costituzionali. Gli altri tre Ordini erano affatto militari, ma, alle volte, in ricompensa di lunghi o di speciali servigi prestati nelle amministrazioni dello Stato, un alto funzionario poteva essere insignito anche della croce Costantiniana, ma Agostino Magliani, promosso nel 1857 ufficiale di ripartimento, o, come si direbbe oggi, capodivisione, non ebbe la croce di Francesco I, neppure dopo la risposta fatta a Scialoja. Il Re decorava sempre di mala voglia i suoi impiegati.

Alla morte di un cavaliere di San Gennaro, il figlio primogenito restituiva le insegne e nello stesso tempo faceva chiedere al Re che l’onorificenza venisse a lui concessa. Il Re quasi sempre vi acconsentiva. Nel 1849 mori il vecchio barone Barracco, e il figlio primogenito Alfonso, uomo di spiriti liberali, come tutti di sua famiglia, restituì le insegne del padre e non le chiese per sè. Altrettanto aveva fatto, qualche anno prima, il marchese della Sambuca, quando mori il vecchio principe di Camporeale, suo padre.

L’origine dell’Ordine Costantiniano, il più antico di tutti, si faceva risalire all’imperatore Costantino. Ferdinando II, nel riordinarlo, commise un errore di araldica, poichè, invece di porre come distintivo dei cavalieri grancroce nella placca che portavano sul petto, una croce rossa in campo bianco, vi posò una croce rossa in campo d’oro. Si disse lo facesse per distinguerli dai cavalieri semplici, che portavano, come essi, la [p. 186 modifica]placca, ma d’argento. La verità è che i granoroce desideravano la placca in brillanti e furono assai dolenti della risoluzione del Re, sia perchè esteticamente sembrava più bella la placca d’argento, sia perchè credettero ferito il loro orgoglio, modificandosi quel segno, che loro ricordava la origine dalle crociate. I principali doveri dei decorati in ciascun Ordine erano la fedeltà e l’obbedienza al Re e la difesa della religione cattolica. Per appartenere agli Ordini di San Gennaro e di San Ferdinando si richiedevano quattro quarti di nobiltà, a meno che il favore del Re non supplisse al difetto del quarto o del mezzo quarto. Per gli altri occorrevano benemerenze civili o militari, secondo i casi. L’Ordine di San Gennaro era l’unico, che avesse solo il grado di cavaliere.

Erano cavalieri di San Gennaro i tre primi figli del Re e i suoi fratelli, e fra i grandi signori dell’aristocrazia, il principe di Bisignano, il duca d’Ascoli, il principe di Satriano, il principe di Campofranco, il duca di Bovino, il principe di Cassare, il principe di Torcila, il principe d’Ischitella, il cardinal arcivescovo Riario Sforza, il principe di Castelcicala e pochi altri: insomma il fior fiore del patriziato. I signori napoletani tenevano molto alla fascia di San Gennaro. A quest’Ordine e a quello di San Ferdinando era congiunto ordinariamente l’ufficio di maggiordomo o gentiluomo di camera. Essere maggiordomi o gentiluomini di camera con esercizio, significava stare dappresso al Re e alla Regina, nella Reggia e dovunque. I gentiluomini servivano la persona del Re, i maggiordomi la persona della Regina. Ogni giorno un gentiluomo e un maggiordomo, in mezza tenuta e per turno, erano nell’anticamera del Re per i ricevimenti o gli accompagnamenti; al teatro il gentiluomo portava l’occhialino del Re, il maggiordomo l’occhialino e il fazzoletto della Regina: l’uno e l’altro stavano nel palco reale, in piedi, dietro i Sovrani. Benché negli ultimi dieci anni la Reggia di Napoli rimanesse quasi deserta e la famiglia reale vivesse quasi di continuo a Caserta, i gentiluomini e i maggiordomi crebbero anche di numero.

Fuori del Regno erano insigniti dell’Ordine di San Gennaro l’Imperatore d’Austria e l’Imperatore del Brasile, i Re di Spagna, di Danimarca, di Prussia, del Belgio, di Baviera e il granduca di Toscana. Vittorio Emanuele non l’aveva, ma l’avevano [p. 187 modifica]in Piemonte il marchese Seyssel d’Aix, il conte Filiberto di Collobiano, il conte Solaro della Margherita e il conte Ermolao Asinari di San Marzano.

L’Ordine di San Ferdinando e del Merito aveva il minor numero d’insigniti, sebbene si distinguesse in cavalieri grancroce, commendatori e cavalieri. Grancroci nel Regno erano pochissimi; ricordo i principi di Campofranco e di Cassaro, il marchese di Pietracatella e Carlo Filangieri, al quale il Re mandò le sue stesse insegne nell’ottobre 1848, appena ricevuto il dispaccio che gli annunziava la presa di Messina, con le famose parole: Messina ai piedi del suo Re. Erano commendatori il marchese Del Carretto, il principe d’Ischitella, il maresciallo Lecca e pochi altri, e figuravano tra i cavalieri, fin dal 1860, Ferdinando Bosco, allora capitano; quel generale Ghio che si sbandò nel 1860 in Calabria e che era maggiore; i marescialli di campo Vial e De Sauget; i colonnelli Pianell e Afan de Rivera, i quali ultimi anzi ebbero la croce di cavalieri nel 1848. Della grancroce di San Ferdinando erano insigniti Imperatori, Re e principi di case regnanti e uomini politici celebri: ricordo Vittorio Emanuele e l’imperatore Napoleone, tra i primi; il cardinale Antonelli, Thiers, Guizot e Metternich, tra i secondi; Napoleone III l’aveva in gran pregio e quando indossava la divisa militare, era ben difficile che fra le sue tante decorazioni estere non figurasse la fascia di San Ferdinando.

Nell’Ordine Costantiniano si distinguevano i grancroci, i cavalieri di giustizia, che dovevano essere nobili per quattro quarti; i cavalieri donatori, che al momento dell’ammissione donavano all’Ordine parte dei loro beni; i cavalieri di grazia, per i quali la nobiltà era supplita dal merito; i cappellani onorarii e gli scudieri. C’era un gran priore e un vice gran priore, che presedevano alle chiese dell’Ordine e alla direzione spirituale dei cavalieri. Era gran priore monsignor Naselli; presidente della deputazione, il marchese di Pescara; notaio dell’Ordine, lo scudiere Ruo. Vi era un inquisitore Costantiniano per ognuna delle provincie del Regno. Nel principato Ulteriore erano inquisitori don Crescenzo Capozzi, padre di Michele, deputato di Atripalda, e don Guglielmo de Cesare, abate di Montevergine; a Bari, don Giustino Assenzio; a Lecce, don Pasquale Romano; a Foggia, don Ferdinando Nocelli, e in Abruzzo, il barone [p. 188 modifica]Panfilo de Riseis, padre degli attuali deputati al Parlamento, Luigi e Giuseppe. Erano grancroci i più alti patrizi del Regno, e due diplomatici, il principe di Petrulla e il conte Luigi Grifeo; e destò acerbe critiche la nomina del marchese Del Carretto, la cui antica nobiltà non pareva dimostrabile. Ma l’esattezza storica vuole si dica, che questi Del Carretto provengono dalla nobile casa, che fin dal secolo X era feudataria di terre nel Genovesato e in Piemonte, e il ramo di Napoli venne di Spagna ai tempi di Carlo III. Però il maresciallo quasi sdegnava di ricordare l’origine della sua stirpe, avendo l’ambizione di credersene lui il fondatore, onde non è meraviglia se, quando ebbe la croce costantiniana, i rigoristi, come ho detto, brontolassero non credendo abbastanza dimostrata l’antica nobiltà di quella famiglia. Il barone Ciccarelli era cavaliere di giustizia, e cavalieri di grazia, Giuseppe Scrugli, monsignor Celestino Code e quel Giulio Gondon, che aveva risposto a Gladstone.


Nell’Ordine di San Giorgio della Riunione si distinguevano grancroci, grandi uffiziali, commendatori, uffiziali e cavalieri di diritto e di grazia. Gran conestabile n’era il duca di Calabria; gran maresciallo, il general Selvaggi; segretario, il brigadiere Francesco Ferrari; aiutante del segretario, Giacomo Plunkett, uffiziale del ministero della guerra. Le liste dei cavalieri di diritto e di grazia erano più lunghe che negli altri Ordini, ma non raggiungevano la lunghezza di quelle dell’Ordine di Francesco I, che era il più numeroso e aveva tre gradi: grancroci, commendatori e cavalieri. Ne era presidente il retorammiraglio Sozi Carafa; segretario ed archivista, don Raffaele Mozzino. Quest’Ordine teneva l’ultimo posto, ma tuttavia non ne erano facili le concessioni, e se qualcuna non garbava, piovevano gli epigrammi. Ancora si ricorda il pettegolezzo, cui diè luogo l’onorificenza di cavaliere concessa a un Persico, la cui famiglia aveva il maggior negozio di biancheria che fosse allora a Napoli. Non bottega, ma negozio, a un primo piano di via Toledo; negozio, al quale il neo cavaliere era estraneo, perchè conduceva vita affatto mondana. Ai suoi pranzi, rinomati per lo sfarzo e la squisitezza dei cibi, erano invitati personaggi di alto rango. Desiderava di essere cavaliere e tanto si adoperarono i suoi amici, che gli ottennero la croce di [p. 189 modifica]Francesco I. Il pettegolezzo dunque fu grande, e don Michele d’Urso sfucinò uno dei suoi più fortunati epigrammi:

La croce han data a Persico,
Perchè ciascun discopra
Che il Re, nel dare i titoli,
La mezza canna adopra.

A nessuno verrebbe oggi in mente di ridere e far ridere sugli abusi degli Ordini cavallereschi, divenuti piccola moneta elettorale; tanto questo abuso è degenerato in ridicola profanazione. Vittorio Emanuele diceva che una croce di cavaliere e un sigaro non si negano mai a nessuno, ma era ben lontano dall’immaginare che in pochi anni, lui morto, si sarebbe persa ogni misura. Ferdinando II era più logico e meno scettico, però con lui era più facile che una croce fosse data a qualunque ignoto, che non a uomini di vero merito; anzi qui si rivelava la sua indomata avversione per i pennaruli. Negli elenchi dei cavalieri di Francesco I abbondano i funzionari civili, nè scarseggiano vescovi e parroci; ma è ben raro il caso di incontrarvi uomini di scienza e di lettere, o artisti famosi. Durante il breve periodo costituzionale del 1848, ebbero la croce di Francesco I, Mercadante e Tito Angelini; l’ebbe nel 1863 il celebre incisore messinese Aloysio Iuvara, e se Michele Tenore, Vincenzo Flauti e pochi altri valorosi erano appena cavalieri, la loro nomina rimontava al 1829, cioè all’ultimo anno di regno di Francesco I, o a prima del 1848. Nelle ultime liste abbondano invece i nomi di ricchi proprietari di provincia, la cui devozione alla persona di Ferdinando II era a tutta prova.4 Invano si cercherebbero nelle liste dei cinque Ordini nomi di uomini veramente illustri nelle scienze o nelle lettere. Carlo Troja non fu insignito mai di alcun Ordine, ma suo fratello Ferdinando ne aveva due. Nel 1860 il Re diè la croce di Francesco I al pittore Smargiassi e al poeta Bisazza, e nel 1868 a Pietro Ramaglia e a Ferdinando Rocco.

Se i cavalieri nelle gale e nelle feste di Corte avessero continuato ad indossare anche in questo secolo le ricchissime [p. 190 modifica]divise de’ varii Ordini, la Corte napoletana sarebbe stata la più splendida del mondo. I cavalieri di San Gennaro, vestiti di drappo d’argento con bottoni d’oro, con cappello nero a piume rosse, calze bianche con fiori d’oro e scarpe nere, un manto color porpora con gigli d’oro e una collana d’oro al collo; i cavalieri di San Ferdinando, vestiti di drappo d’oro, con calze bianche e fiori d’oro, cappello orlato d’oro e manto azzurro a ricami d’oro; i cavalieri Costantiniani, in seta bianca e celeste, con calze bianche e scarpe anche bianche con lacci celesti, e cappello di velluto rosso, sul quale spiccava una croce col motto: in hoc signo vinces e sopra l’abito un manto di raso celeste, avrebbero formato tale un insieme di pompa e di splendore attorno alla famiglia reale, da far credere ad una resurrezione di principi, abitanti in palazzi incantati. Ma, da molti anni, la divisa era stata smessa, ed usavano solo una placca o una fascia, secondo i gradi. Ferdinando II, nelle grandi occasioni, portava il Toson d’oro, la fascia di San Ferdinando e al lato sinistro del petto le placche dei suoi cinque Ordini. Ordinariamente, sull’uniforme portava il crachat di San Ferdinando, che egli visibilmente preferiva a tutte le altre onorificenze sue. Il Re stesso, a rendere ancora più rigorosa la concessione degli Ordini cavallereschi di San Gennaro e San Ferdinando, aveva istituita e poi riordinata, la real commissione dei titoli di nobiltà, nominandone presidente il marchese Imperiale di Francavilla; vice-presidente il principe di Luperano, che aveva per moglie la figlia del maresciallo Iourdan, donna d’ingegno e colta, e consiglieri ordinarii, fra gli altri, i principi di Sant’Antimo, di Belmonte, di Ottajano e di Scaletta, il duca di Cajanello e il conte di Montesantangelo; e fra i consiglieri supplenti, il duca della Regina e il duca di Cassano. A questa commissione erano deferiti tutti i casi, nei quali si trattasse di passaggio o di trasmissione dei titoli nobiliari; essa aveva il diritto di ricercare la legittima investitura dei titoli, di cui alcuno facesse uso, e nessuno poteva usare titolo di sorta, se prima la commissione non ne avesse dichiarata la legittimità e il Re non avesse dato il sovrano beneplacito. Più concludente dell’odierna Consulta Araldica, questa commissione riusciva ad impedire la ciarlatanesca pompa di titoli nobiliari fittizi, che oggi fa un degno pendant col triste abuso, dei nuovi titoli cavallereschi.





Note

  1. Ora gli farei saltare la testa in aria a questo f. . .
  2. Cronistoria documentata della rivoluzione in Basilicata del 1860 e delle cospirazioni che la precedettero, pel dottor Michele Lacava. Napoli, Morano editore, 1895.
  3. Ciò afferma suo figlio, il principe Marino Caracciolo, marchese di Santeramo, in una lettera del 5 febbraio 1894, pubblicata nel Corriere di Napoli, dicendo che per questo e non per altro, suo padre non ebbe l’alta onorificenza.
  4. Ricordo il marchese Giannangelo Spaventa e il barone De Felice di Abruzzo; Aquilecchia e Rapolla di Basilicata; Camporota, Pancaro, Passalacqaa e Losohiavo di Calabria; Balsamo, Perroue, De Martino e Lepore di Paglia, e don Costanzo Norante del Molise, morto senatore del Regno d’Italia e marchese.