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delle oblate, racchiuse nell’annesso ritiro, oltre ai sussidii straordinari. La devozione per quest’immagine era professata anche dai congiunti del Re. Il conte d’Aquila fece a sue spese adornare di marmi artificiali la cappella della Vergine, con la stessa architettura di quella che le sorge dirimpetto, dedicata a San Carlo Borromeo, e più volte die danaro per lampade d’argento e arredi sacri e per rinnovare la facciata della chiesa, come si legge in una lapide, fatta apporre accanto alla porta del tempio dal vescovo monsignor Purpo.


Solo i pregiudizi per la jettatura erano paragonabili ai suoi fanatismi religiosi. Perfetto napoletano anche in questo. La cronaca del tempo registra non pochi aneddoti e molto salaci, e scongiuri da non potersi scrivere in un libro, per quanto caratteristici ed esilaranti. Benchè devotissimo, i frati in genere e i cappuccini in ispecie, i gobbi, i calvi, i guerci, gli uomini dai capelli rossi, le vecchie con la bazza, erano per lui segni di mal augurio o minacce di sventura, in quel modo stesso che di venerdì non compiva nulla che avesse apparenza festiva o gioiosa, ne viaggiava e riteneva il 13, come ogni buon napoletano, numero di tristo presagio. Lasciando Caserta, il giorno della sua partenza per le Puglie, visti due cappuccini presso il cancello della Reggia, si turbò e non nascose il suo turbamento alla Regina che gli sedeva accanto. Nel duomo di Brindisi, nel poco tempo che vi stette, vide un calvo che lo guardava e ordinò che lo allontanassero. Durante la malattia, i pregiudizi! contro la jettatura crebbero in maniera inverosimile; riteneva la malattia effetto di quella e nel parossismo dei dolori lo sentivano esclamare: me l’hanno jettata; — e passava in rassegna gl’incidenti del viaggio, l’incontro dei due cappuccini uscendo dal palazzo reale di Caserta; certe facce vedute in Ariano, a Foggia e ad Andria, il calvo di Brindisi e così via via. Credeva ai veleni, tanto che i medici andavano di persona a spedire le ricette delle medicine che servivano per lui, ed a Lecce, le spediva il dottor Leone nella farmacia dei gesuiti, annessa al collegio e credeva pure ai contagi e alle infezioni, come l’ultima donnicciuola del popolo. L’orrore del Re per le malattie epidemiche, o ritenute tali, non era un mistero. Egli aveva fatto bruciare la vettura di Corte, che trasportò sua sorella donna Amalia in Pozzuoli, dove morì