La fine di un Regno/Parte I/Capitolo XI
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CAPITOLO XI
L’anno 1857 fu contrassegnato da due avvenimenti assai diversi fra loro: uno, di straordinaria audacia che fece disperare la polizia e ridere tutta Napoli, e l’altro che gettò nel lutto e nello sgomento molta parte del Regno.
La mattina del 28 febbraio c’era per Toledo un’animazione maggiore del consueto, e gruppi di curiosi, affollati innanzi a piccoli manifesti ufficiali, leggevano questo decreto:
FERDINANDO II.
per la grazia di dio
re del regno delle due sicilie,
di gerusalemme ec.
duca di parma, piacenza, castro ec. ec.
gran principe ereditario di toscana ec. ec. ec.
Essendosi la Provvidenza benignata di accrescere di novella prole 1a Nostra Real Famiglia, ed annuendo ai consigli amichevoli dei Governi di Francia e d'Inghilterra, e volendo come per lo passato secondare i moti del Nostro cuore paterno, abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:
Art. 1. Accordiamo piena amnistia per tutti i detenuti politici giudicati o giudicabili.
Art. 2. Richiamiamo in vigore la Costituzione del 10 Febbraio 1848, da Noi sinceramente giurata sul Vangelo.
Art. 3. Il Nostro diletto Figliuolo il Principe ereditario, è nominato Vicario Generale del Regno.
Art. 4. Saranno immediatamente convocate le Camere chiuse.
Art. 5. Il Ministro Segretario di Stato, Presidente del Consiglio dei Ministri, è incaricato della esecuzione del presente Decreto.
- Caserta 28 febbraio 1857.
Firmato, FERDINANDO.
Il Miniatro Segretario di Stato delle finanze — firmato, S. Murena.
Il Ministro Segretario di Stato per gli affari di Sicilia — firmato, G. Cassisi. |
Il Direttore del Ministero e real segretario di Stato dello interno — firmato, L. Bianchini. Il Ministro Segretario di Stato Presidente del Consiglio de' Ministri — firmato, Ferdinando Troja. |
(Dalla Stamperia Reale). |
Possono bene immaginarsi le varie impressioni di chi leggeva. Un ispettore di polizia, letto il manifesto alla cantonata dei Fiorentini, si cavò il cappello e invitò gli altri a fare altrettanto e a gridare: viva il Re. Furono due ore di confusione estrema, perchè la polizia, tratta anch’essa in inganno, non osava staccare i decreti, nè li staccò se non quando ne venne l’ordine dal ministero. E in quelle due ore la baldoria fu grande, e tutti gridavano: Costituzione, Costituzione, e gli agenti erano paralizzati e parecchi atterriti.
La burla non poteva meglio riuscire. Michelangelo Tancredi, che ne fu l’autore, si era procurato dalla stamperia reale parecchie copie di decreti in bianco e aveva fatto comporre, in caratteri e carta pressochè simili, il contenuto del decreto; e poi, con l’aiuto di pochi e fidi amici, aveva incollati i pezzi con tanta arte che non era possibile distinguere, a primo aspetto, che quello fosse un decreto apocrifo, perchè autentiche eran la testata, il bollo, le firme del Re e dei ministri. La mattina alle sette alcuni facchini della dogana, reclutati dai fratelli Carlo e Niccola Capuano, li affissero e rifiutarono i sei ducati, che il Comitato offrì loro per compenso. La circostanza che la Regina si era sgravata in quei giorni di un altro maschio, al quale fu dato il nome di Gennaro Maria, aggiungeva verosimiglianza alla cosa, e più verosimili ancora parevano i consigli della Francia e dell’Inghilterra. Quando la polizia ebbe l’ordine di strappare quei decreti, respirò; ma, per quanto facesse, non riusci ad appurare l’autore della burla, nè i suoi complici, i quali dettero prova davvero di grandissima audacia. Il Re, informato della cosa, ne rise sulle prime; ma si turbò quando, avuto tra le mani uno di quei decreti, vi lesse l’articolo secondo: “Richiamiamo in vigore la Costituzione del 10 febbraio 1848, da noi sinceramente giurata sul Vangelo„.
L’altro avvenimento, col quale si chiuse l’anno, fu eccezionalmente luttuoso. Nella notte dal 16 al 17 dicembre, alle ore 10.10, secondo venne accertato dal direttore del R. Osservatorio astronomico di Capodimonte, Leopoldo del Re, si sentirono a Napoli due scosse di terremoto. La prima durò quattro secondi e, dopo due minuti, fu seguita da un’altra di maggiore intensità, che durò 25 secondi: tutt’e due ondulatorie, nella direzione dal sud al nord. Lo spavento fu grande; però non si ebbero a deplorare vittime, nè danni. Ma quel che la Provvidenza risparmiò a Napoli, dove perciò si resero solenni grazie a San Gennaro e, in segno di riconoscenza, l’anno dopo, ricorrendo il doloroso anniversario, una lunga processione percorse la strada che da Santa Maria in Portico mena a Piedigrotta, non fu risparmiato alle provincie. Il terremoto vi fece vittime numerose; rovinò e distrusse gran quantità di edifizii pubblici e privati; spianò al suolo alcune terre; e, non ostante i tridui e le novene di tutto un popolo esterefatto, si ripetette con scosse più o meno forti sino al marzo del 1858. Le prime notizie, che giunsero a Napoli dalla provincia di Salerno, furono spaventose; ma più gravi ne vennero, poco dopo, dalla Basilicata. Restò celebre, e fu la nota comica in tanta tragedia, il dispaccio telegrafico da Bari che, per interrotta trasmissione, diceva: "Gli abitanti in gran parte si sono ....„ Il Re non si mosse, come aveva fatto nel 1851, quando fu distrutta Melfi; ma ordinò che le autorità lo tenessero informato d’ogni cosa, recandosi sui luoghi dove il flagello aveva fatte più vittime; servendosi dei fondi comunali e provinciali e dei boschi per costruire baracche; soccorrendo i bisognosi e provvedendo di ricovero quanti eran rimasti senza tetto, massime se feriti. Il 21 dicembre fece partire da Napoli per Potenza il Ciancio, ingegnere di ponti e strade e l’Argia, tenente del genio, con 42 artefici militari e 54 di marina, che portarono gran materiale di tele e legname dell’arsenale per costruire baracche. Partirono pure medici e chirurgi e infermieri con biancherie e filacce. Si cercava riparare con la maggior sollecitudine e intelligenza ma il disastro era immenso, soprattutto in Basilicata; e la stagione cruda e la mancanza di viabilità, specie in quella provincia, lo rendeva addirittura terribile.
I morti superarono i 10000. Nel solo distretto di Potenza, che fu il più colpito, si ebbero 8909 morti e 1126 feriti; nel Principato Citeriore, 1213 morti e 347 feriti; nel distretto di Matera, 60 morti e 29 feriti; in quello di Lagonegro, 266 morti e 203 feriti: uno dei meno disgraziati fu il distretto di Melfi, che ebbe tre morti soli. Gli edifizii, rovinati o distrutti, non si contano. Picerno, Marsiconuovo, Calvello, Viggiano, Montemurro, Tramutola, Saponara, Guardia, Sarconi, Castelsaraceno, Spinosa, Anzi, Alianello furono in gran parte distrutti. Viggiano andò a fuoco e Vignola fu molto danneggiata. I campanili delle chiese rovinarono quasi in tutta la provincia e quelli, che non caddero, rimasero assai malconci. A Brienza si apri la terra attorno la piazza e i morti superarono il centinaio. A Pietrapertosa si temè di peggio, perchè enormi macigni si distaccarono dal monte con fracasso e spavento. La gente errava nell’aperta campagna, atterrita e piangente; i vescovi ricoveravano in luogo sicuro le monache, i cui monasteri eran caduti. A Calvello, per ricordare uno dei tanti casi, rovinò il monastero delle Teresiane, le cui monache furono dall’arcivescovo d’Acerenza e Matera fatte condurre in Acerenza, dove restarono sino al marzo del 1858; e poiché il monastero di Calvello non fu potuto restaurare tanto presto, l’arcivescovo Rossini allogò sette di quelle suore a Gravina, quattro in Altamura e dodici a Matera, nei monasteri dell’Annunziata e di santa Lucia. A descrivere tanti orrori, Paolo Cortese, che poi fu deputato e ministro e negli ultimi anni di sua vita pose in versi nientemeno che una sentenza della Cassazione, pubblicò nell’Epoca una poesia, che cominciava con questi versi rettorici:
È profonda la notte, alto il silenzio |
Niccola Sole scrisse un commovente Salmo in terza rima che, insieme ad altre sue poesie, fu compreso nella raccolta da lui posta in vendita a beneficio dei danneggiati dal terremoto; una delle migliori cose scritte dalla penna del solo vero poeta che Napoli abbia avuto in questa seconda metà di secolo. Il Salmo ebbe fortuna e fu declamato nelle accademie di beneficenza e nei teatri, a beneficio dei danneggiati.
La beneficenza in tutte le sue forme si esercitò largamente nella luttuosa circostanza. Si aprirono sottoscrizioni per i danneggiati e si raccolsero più di 100000 ducati. Sottoscrissero quasi tutti i vescovi, che, insieme con gli intendenti e i sottintendenti, raccoglievano le offerte dei privati. Il Re dette del suo 32000 ducati, da distribuirsi ai poveri che avevano più sofferto, preferendo quelli, i quali avevano perdute le piccole industrie e gli utensili dei loro mestieri. Il Ministero degli affari ecclesiastici largì 24000 ducati per riparazioni a chiese e a conventi; altri 8000 ducati per riparazioni alle parrocchie e 2400 per l’acquisto di arredi sacri. Si costituì un fondo di 18000 ducati per istituire dieci Monti di pegni nella Basilicata e quattro nel Principato Citeriore.
Vero è, che la maggior parte delle beneficenze governative figurarono solo sulla carta. Delle elargizioni e dei sussidii raccolti, ben pochi arrivarono a destinazione, nè le autorità si mossero con zelo e sollecitudine. Nei comuni più colpiti non arrivarono — e con ritardo — che poche sdrucite coperte di caserme e poche tavole per letti. Assai più larghi si fu per le chiese e per i conventi.
Non mancarono accademie e concerti e spettacoli, a scopo di beneficenza. Il 13 febbraio 1858, nell’istituto Batifort e Wambacker di Bari, fu data un’accademia nella quale si distinsero le signorine Margherita Corsi, Annina Guarnieri, Mariannina Dell’Agli, Giustina Lops, Carolina Bianchi, Marietta de Stephanis, Marietta Mandarini e Fulvia Miani. E nel teatrino filodrammatico di casa Craven a Napoli, fu eseguita una splendida rappresentazione di beneficenza, che fruttò quattromila ducati e nella quale presero parte signore e signori dell’aristocrazia. I particolari di questa rappresentazione sono ricordati in altro capitolo.
Nel febbraio del 1858, il totale delle offerte private arrivò alla cospicua somma di 61889 ducati. Vi furono sottoscrizioni anche all’estero. Il conte Brignole, segretario generale della Società universale per l’incoraggiamento delle arti e dell’industria, la quale aveva sede a Londra, scrisse, nel gennaio del 1858, al direttore del ministero di polizia, Ludovico Bianchini, chiedendogli il permesso di promuovere a Londra una sottoscrizione per soccorrere i danneggiati dal terremoto, non avendo il Re di Napoli rappresentante presso la Corte inglese, per la rottura dei rapporti diplomatici tra i due Regni. Bianchini rispose che ringraziava, poiché "la mancanza delle relazioni diplomatiche tra le due Corti non poteva — egli disse — far cessare i rapporti del commercio e dell’industria e, molto più, della civilizzazione e dell’umanità tra i due paesi„; ed espresse pure il desiderio che le somme fossero versate direttamente al Banco di Napoli.
Non mancarono, a proposito del terremoto, le solite esercitazioni rettoriche, nelle quali la fantasia degli scrittori ebbe largo campo di sbizzarrirsi, descrivendo lo spavento comune. Fuori dei rapporti ufficiali, che enumerano i danni avvenuti, non conosco un solo lavoro, nel quale siano stati riferiti completamente fatti e circostanze, che diano un’idea esatta di quanto effettivamente avvenne. Tra i lavori, solo ricordo quello di Giacomo Racioppi, che raccolse in un opuscolo gli articoli pubblicati nell’Iride. Raffaele Battista, segretario della Società Economica di Basilicata, stampò una relazione, con qualche cifra statistica e, negli atti dell’Accademia Cosentina, il segretario Luigi Maria Greco pubblicò una specie di raffronto tra gli scrittori, che parlarono del terremoto del 1851 e quelli del 1857. Il professor Roller, ginevrino, si recò sui luoghi del disastro e di là scriveva lettere ai suoi amici di Svizzera, che furono pubblicate a Ginevra e rivelavano lo stato miserando del Regno, in fatto di viabilità e di civiltà. I racconti dei giornali napoletani erano rettorici o addirittura grotteschi, come quello dall’Epoca, di cui ecco un saggio: "Erano da poco suonate le dieci, quando parve che la terra ondulasse. L’attenzione sospesa un momento, non tardò a farne certi che il terreno si muovesse sotto i piedi, cosicché la sensazione prolungandosi, tutti giudicarono e videro, che un novello tremuoto veniva a scuoterci dalle fondamenta. Nè passò il tempo in che l’un all’altro dicesse il fatto, quando novellamente i campanelli suonano con più forza, i battenti delle imposte e i lucchetti delle finestre tremano, i vetri scrosciano, le mobilie rumoreggiano, il suolo, le mura, il letto, ogni cosa che ti circonda, viene in preda ad un ondulamento intenso e terribile .... Nè molto durò il fenomeno, nè poco; un trenta pulsazioni. Finito, successe un silenzio di tomba, quello del terrore; indi un vociar di gente che usciva dalle case, e quali piangendo innanzi alle sacre immagini, quali narrando l’accaduto, quali incitando a fuggire, tutto costituiva un fenomeno morale degno delle maggiore considerazione. In un baleno le vie più deserte della città furono popolate .... Colà vedevi disparite le gradazioni sociali; eleganti signore, gentili damerini, persone insomma che sciupano intere ore all’acconciamento della persona, accorse in sulle piazze disadorni e negligenti, di null’altro presi che della vita. Difatti quali avvolti in mantello, quali in iscialli, quali col capo coverto di berretto, qual di cuffia, quale anche nei soli lenzuoli, aspettavano e temevano, dalle membra irrigidite dal freddo della notte. Carrozze di ogni specie, alcune tirate da cavalli, alcune da uomini, servivano di ricovero a’ loro padroni, e questi, fattesene case ambulanti, rannicchiati nei mantelli, dai visi pallidi e stravolti, si guatavano meravigliati e paventavano. Cavalli, vacche, animali di casa, tuttociò che nel timor del pericolo erasi tratto fuori, vedevansi commisti agli uomini in sulle piazze„. E cosi, per molti periodi ancora, diluiva questa amena prosa di Giuseppe Lazzaro.
Ernesto Capocci, nella stessa Epoca, ricercava scientificamente le cause dei terremoti, e nell’Iride si studiava di consolare i napoletani, affermando che essi hanno un segno sicuro del prossimo terremoto nel Vesuvio, poichè, quando questo tace il terremoto è vicino. Ma, nella ricerca delle cause dei fenomeni sismici, toccò il colmo della comicità il cavalier Salvatore Fenicia di Ruvo, più comunemente noto col nome di presidente Fenicia: singolar tipo, che rammentava il don Ferrante del Manzoni. Era un letterato sui generis, perchè tirava giù prose, versi, drammi e tragedie in una lingua incomprensibile; stampava volumi da riempirne una biblioteca ed era in relazione con principi regnanti e imperatori, ai quali inviava in dono le sue opere e splendidi vasi fittili italo-greci, che traeva dalle sue terre di Ruvo e ne riceveva, in ricambio, decorazioni e nomine accademiche. Era il suddito forse insignito di maggiori onorificenze, e delle decorazioni faceva pompa nelle occasioni solenni, quando vestiva la sua uniforme con relativo spadino e cappello piumato. Egli era il presidente Fenicia, ma nessuno sapeva davvero a che presedesse. Viveva a Ruvo, dove morì vecchio dopo il 1860. Non lasciava passare avvenimento, anche mediocre, senza dedicarvi qualche suo sproloquio. Aveva molto letto e la sua testa dava l’immagine di un arsenale in disordine; la sua cultura archeologica era farraginosa; superficiale e antiquata, quella nelle scienze naturali e in astronomia, nelle quali, si credeva profondo. Spesso pubblicava, in appendice ai suoi libri, le lettere che uomini eminenti gli scrivevano, nelle quali con tono ironico che egli non capiva, gli facevano le lodi più strane. Udite il sonetto di due quartine e tre terzine, che pubblicò sul terremoto del 16 dicembre, da lui definito tosse della terra:
In anormal effidrosi non guari |
Il Nomade ironicamente osservava: "Non vogliam tacere, che la spiegazione del Fenicia è derivata dal suo nuovo sistema che facea noto, ora è qualche anno, ai dotti del Regno e stranieri; un sistema por il quale il colera non sarebbe altro che la crittogama delle uve„. Altri poi proponevano ingenuamente dei rimedii, e per un anonimo compilatore dell’Internazionale, una misura di prevenzione contro i terremoti doveva consistere nell’aprire, alle falde del Vesuvio, pozzi profondi, i quali penetrando sino alle visceri del monte, servissero di succursali alla bocca, che la natura vi ha aperto su in cima .... Cosi si bamboleggiava di fronte ad un immenso infortunio.
Fu nei primi mesi del 1858, che il Re si decise ad accrescere la rete telegrafica del Regno e, a tal fine, fece redigere ed approvò un regolamento per il servizio della "telegrafia elettrico-magnetica„ nei dominii di qua dal Faro. Prima d’allora, le città marittime usavano il telegrafo ad asta, e i rari fili elettrici che univano la capitale a Caserta, a Capua ed a Gaeta, servivano, quasi esclusivamente, al governo ed alla Corte. Non sempre e non tutti gli ufficii telegrafici erano aperti al servizio dei privati, anzi erano rarissimi. Ma nel 1858 le stazioni telegrafiche aumentarono rapidamente, e le limitazioni poste all’uso del pubblico non furono così rigorose, Ferdinando II ripartì il territorio delle provincie continentali in sette divisioni telegrafiche, suddividendo gli ufficii compresi in ciascuna di esse in tre classi. La prima divisione, da Napoli a Nola, comprendeva diciassette stazioni. Napoli ne contava tre: alla Reggia, a San Giacomo ed alla ferrovia; due, Caserta: alla ferrovia e alla Reggia; due, Capua: alla ferrovia e al gran quartiere. Appartenevano alla prima divisione le stazioni di Cancello, Maddaloni, Santamaria, Nola, Palma, Sarno, Favorita, Castellammare, Quisisana e Ammiragliato; e vi si aggregarono, poiché la linea delle Puglie non era ancora compiuta, le stazioni di Avellino e di Ariano. La seconda divisione, da Capua a Terracina, contava gli ufficii di Terracina, Mola, Gaeta e Torre Orlando. Cinque stazioni aveva la terza divisione, da Nocera a Potenza: Nocera, Cava, Salerno, Eboli e Cosenza; tre la quarta, da Eboli a Castrovillari: Sala, Lagonegro e Castrovillari; e tre la quinta, da Castrovillari a Paola: Spezzano Albanese, Cosenza e Paola. La sesta divisione, da Paola a Pizzo, contava le stazioni di Nicastro, Tiriolo, Catanzaro e Pizzo; tre l’ultima, da Pizzo a Reggio: Monteleone, Palmi e Reggio. Di queste stazioni, otto appartenevano alla prima classe, dieci alla seconda e ventuno alla terza. Non era permesso ai privati di servirsi del telegrafo negli ufficii di terza classe, eccettuati quelli di Santamaria, Capua, Eboli, Ariano, Lagonegro, Rossano, Nicastro e leone. La tassa minima era per 25 parole e non progrediva, parola per parola, ma da 25 a 50 e da 50 a 100. Per l’indirizzo si concedevano cinque parole, che non venivano calcolate.
Il 25 gennaio 1858 venne inaugurato il telegrafo elettrico sottomarino tra Reggio e Messina, e il 27 fu messo a disposizione dei privati. Ecco in quali termini, quasi venti giorni dopo, la Verità, giornale del prete don Giuseppe Scioscia di Pescopagano, descriveva la cerimonia dell’inaugurazione: "L’elettrico libero si gittò forse nei giorni antichi su i campi or detti Reggiani e Messinesi, e li disgiunse fra loro, e fra loro sospinse le onde del Tirreno, che corsero ad abbracciarsi con quelle dell’Jonio. Allora non era nata la scrittura, e la storia non ba potuto tramandare a noi ciò che i marmi inscritti non avevano rivelato a lei. Ora nuovo prodigio e faustissimo appare in que’ lidi. Lo stesso elettrico, non già libero, ma schiavo della scienza, ricongiunge Reggio a Messina, Scilla a Cariddi, Cannitello ai Canzirri di Sicilia; si che la parola va dall’una all’altra sponda più ratta del vento, anzi sulle ali del fulmine muove da ogni parte d’Europa a Napoli ed a Messina. Ciò si ottenne al grido mille volte ripetuto di Viva il Re, in sole due ore e mezzo del giorno 25 del p. p. gennaio nel quale breve tempo felicemente fu immerso il filo elettrico nel Faro di Messina; intraprenditore Jacopo Bozza, assistente, la Commissione scientifica della telegrafia elettrica; operanti, i capitani delle reali fregate a vapore il Veloce, il Miseno e il Principe Carlo. Ma questa seconda pruova della potenza elettrica non andrà perduta per volger di secoli; ma durerà con loro la pietra, su cui sarà incisa la memoria del fatto. E noi sottoponiamo a’ lettori le parole che ricorderanno questo novello benefizio largito a’ quei popoli dal nostro Augusto Monarca, e tanto più volontieri ci onoriamo di tale pubblicazione, quanto più splendide ed eleganti sono quelle parole medesime, che si dettavano da quel fiore di civile e letteraria sapienza, ch’è S. E. il signor comm. D. Salvatore Murena, ministro delle Finanze e dei Lavori Pubblici„. E qui seguiva una più ampollosa epigrafe latina. La Verità era un foglio pugnacemente borbonico. Oltre a don Giuseppe Scioscia, vi scriveva quel canonico Caruso, odiato rettore del Collegio medico, il quale ne era pure l’amministratore.
Le inaugurazioni delle "stazioni di telegrafia elettromagnetica„ erano fatte, da per tutto, con pompa. V’intervenivano le autorità civili, le religiose e le militari; il clero benediceva solennemente le macchine, mettendole sotto la protezione della Madonna o di un santo. Il primo telegramma era un doveroso evviva al Re. Si sceglievano occasioni solenni per le inaugurazioni, come gli onomastici di principi della famiglia reale, o feste di Stato, solennità religiose, e le cerimonie si somigliavano tutte. Il 19 agosto 1858, ebbero luogo le inaugurazioni degli ufficii telegrafici di Procida e Pozzuoli; il 10 novembre, di Otranto e di Trani; l’8 febbraio del 1859, di Molfetta e, nell’ottobre dello stesso anno, di Chieti e di Gallipoli, dove recitò un enfatico discorso il giovane sottintendente Andrea Calenda, poi prefetto del Regno d’Italia e senatore.
La inaugurazione di Molfetta io la ricordo. Venne fatta non nella cattedrale, ma nella parrocchia di San Gennaro, prossima all’ufficio telegrafico. Dal pergamo il canonico Giovanni Panunzio, allora nel fiore di una vita senza requie, recitò un discorso immaginoso. Erano presenti il sindaco, i decurioni, il capo urbano, il console austriaco e il vescovo, monsignor Guida, che si distingueva per il suo pallore sentimentale. H vescovo era circondato dal capitolo della cattedrale e da tutto il seminario, alunni e professori. Panunzio era uno di questi. Egli insegnava filosofia, usando per libro di testo il trattato di don Felice Toscano. Oggi è preside del collegio laico, annesso a quel seminario. La festa di Molfetta ebbe importanza speciale perchè il Re e la Corte erano a Bari, dove, cinque giorni prima, venne celebrato il matrimonio del duca di Calabria; e Molfetta? che invano aveva atteso il Re nell’andare, l’attendeva nel ritorno, per cui era stato costruito sulla spianata, detta del Calvario, un arco trionfale che portava scritto sul frontone: Al Re Ferdinando II, la devota Molfetta.
Segni di nuova vita economica e di un certo risveglio industriale apparivano qua e là, ma non si moveva foglia che il Re non volesse, perchè lui, solamente lui, doveva misurare il grado di benessere dei suoi sudditi e lo misurava, come quello di casa sua, con parsimonia e scarsa luce d’intelletto. Egli amava la prosperità materiale del suo Regno, ma fino a un certo punto; voleva che il suo rifiorimento non avesse nulla da fare con la politica, e non fosse incentivo di altri bisogni o desiderii. Ogni novità, la più innocua, gli dava sospetto. Amava e temeva le ferrovie; era persuaso che il commercio ne avrebbe guadagnato, ma il popolo avrebbe pagata più cara la vita. Le sue teorie d’immobilità assumevano una strana forma di sentimentalismo verso il popolo, che per lui non era l’aristocrazia e assai meno la borghesia, ma la parte più infima e numerosa, alla quale voleva che non mancasse quello che era strettamente necessario alla vita, e nulla s’innovasse in fatto di costumi e di abitudini.
O per un nuovo mercato che si aprisse, o per una nuova industria che si tentasse, o per una invenzione che si volesse applicare, occorreva un decreto sovrano, preceduto da speciale deliberazione del Consiglio dei ministri. Nel 1857 si concedeva al signor Clemente del Re il privilegio, per cinque anni, d’introdurre nei reali dominii di qua dal Faro, un nuovo metodo di applicazione delle stampe nelle maioliche sopra la vetrina, secondo la descrizione depositata presso il Real Istituto d’incoraggiamento, lasciando libero ogni altro di esercitare la stessa industria, in qualunque altro modo. Vincenzo Galise otteneva il privilegio d’introdurre la manifattura dei cappelli con ossatura di tela impermeabile; Enrico Thomas, quello di un nuovo metodo di conciar le pelli con materie minerali, e Francesco Lerario, per l’invenzione di una trivella e di un motore per il vapore d’acqua, d’aria e di gaz, prodotti da combustione. Nel 1858, il marchese Francesco e il cavalier Luigi Patrizi chiedevano il permesso di costruire due mulini sulle rive del Sebeto, in una loro tenuta presso la pianura della Bolla. Il Re concedeva tale facoltà, avuto riguardo ai vantaggi spirituali degli abitanti di quella pianura, al cui beneficio i richiedenti avevano promesso di far celebrare, nei giorni festivi, una messa nella loro cappella, e avuto riguardo ai lodevoli servizii che, da più anni, il marchese Francesco prestava nell’amministrazione civile di Napoli, come Eletto della città. Ad Armando Leone fu data la concessione d’introdurre nel Regno un nuovo metodo per indorare, inargentare e platanizzare i cristalli; a Tommaso Dickens, di Middleton, fu conceduto il privilegio dei suoi perfezionamenti alle macchine da filare, raddoppiare e torcere la seta; a Desiderato Danton fu data facoltà di costruire una fornace a doppio effetto, per la fabbricazione della calce e la carbonizzazione e distillazione continua dei combustibili; a Luigi Raguseo, per la costruzione dei globi terracquei artificiali a rilievo, e a Giuseppe Carabelli, la facoltà di produrre nei fornelli maggior formazione di calorico. E per uscirne, nel 1859, Amato Berard otteneva il privilegio di estrarre olii, corpi grassi ed altre sostanze solubili col solfuro di carbonio.
Queste concessioni erano date in seguito a parere del Real Istituto d’incoraggiamento, il quale era un corpo consultivo dello Stato, specialmente per i privilegi industriali e d’invenzione. Nel periodo, di cui ci occupiamo, se ne rilasciarono anche al Pattison, per nuova disposizione di perni e bronzine nelle ruote idrauliche; a Guppy, per miglioramenti alle caldaie tubulari a vapore; a Francesco Vert, per i letti a molle; a Meuricoffre e Sorvillo, per miglioramenti alle balestre dei carri delle strade ferrate; a Niccola Rossi, per macchina da innalzare l’acqua dei fiumi e animare insieme i molini; a Francesco Pignataro, per una macchina trebbiatrice a cilindri; al principe don Augusto Ruspoli, per molini conici alla Westrup; ad Antonio Caracciolo, per la fabbricazione della carta con le corteccie di gelso e ad altri, i quali non ebbero ricordevoli successi nel mondo industriale dell’antico Regno.
Nè le Memorie de’ socii, pubblicate negli atti dell’Istituto in quell’epoca (1855-1859) sono notevoli per numero e per importanza di studii. Francesco del Giudice, che fu poi, dopo il 1860, segretario perpetuo dell’Istituto, scrisse su istrumenti e macchine agrarie esposte in Francia e sulla possibilità del loro uso nel Regno: vi trattava di nuovi aratri, di erpici, di seminatoi, di mietitrici, di tritapaglia e molto superficialmente, come soleva. In agricoltura Giovanni Semmola scrisse una monografia sulla varietà dei vitigni del Vesuvio e del Somma e in fatto di scienze economiche, si ebbe una sola dissertazione di Felice Santangeli. Vi furono inoltre quattro memorie su argomenti di matematiche pure, scritte da Capocci, Rinonapoli, Tucci e Battagline Tutto questo rappresentò il lavoro del reale Istituto di incoraggiamento nell’ultimo quinquennio.
Questo Istituto, fondato nel 1806, durante il Regno francese, aveva anche per fine l’incoraggiamento di tutte le iniziative individuali e sociali, dirette all’incremento della pubblica ricchezza, ma le iniziative mancavano L’Istituto ebbe, per alcuni anni, a suo presidente il generale Filangieri, quando era direttore generale dei corpi facoltativi. Dopo il 1848 visse una vita anemica. Vi appartenevano come socii ordinarli, onorarii e corrispondenti, scienziati illustri di ogni parte d’Italia e dell’estero, ma l’Istituto non diè che ben magri risultati, come si vede consultando i suoi atti.
Erano frequenti anche le concessioni di fiere e di mercati. Il Regno era povero di vie di comunicazione; i bisogni del commercio sempre più insistenti, e i Comuni chiedevano e facilmente ottenevano la facoltà di tener fiere o mercati, almeno una volta l’anno. Avevano celebrità, in tutto il Regno, le fiere di Foggia, di Barletta, di Gravina, di Salerno, di Aversa, di Caserta, di Chieti e di Atripalda. Si contrattava principalmente in bestiame, e la fiera di Foggia era il gran mercato delle lane di Puglia. I liberali ne approfittavano per riunirsi senza sospetto e per manifestar voti, quasi sempre platonici. Erano le fiere anche uno scambio di conviti e di ospitalità, pericolose occasioni a giuochi d’azzardo, ma fortunate circostanze per annodar matrimonii. In tante famiglie di provincia si ricordava con compiacenza, che il matrimonio del nonno, o quello dei proprii genitori era stato concluso, o n’erano state iniziate le trattative in una fiera, o in una fiera i giovani si erano veduti e innamorati. E si ricordavano pure grosse perdite al giuoco, non essendo raro il caso, che ricchi possidenti, andati alle fiere di Gravina o di Foggia a vender bestiame, ne tornassero senza bestie e senza quattrini, perduti a zecchinetto. Caserta aveva due fiere: una straordinaria il giorno dell’Ascensione, sulla spianata della piazza d’armi, dove erano menati gli animali rimasti invenduti alla fiera di Aversa; e una ordinaria, dal 24 al 31 agosto, oltre il mercato ogni sabato. Il Re interveniva talvolta alle fiere di Caserta e si mescolava ai compratori e venditori, facendo anche degli acquisti. Era intelligente conoscitore di cavalli. Vincenzo Buonfiglio, ricco allevatore di Caivano, portò, una volta, in una delle fiere di Caserta, due puledri molto belli. Il Re conosceva il Buonfiglio ch’era sua guardia d’onore. Osservate le bestie, disse al padrone: "Quanto ne vvò di sti pulidri?„1 Rispose il Buonfiglio, non senza imbarazzo: "Con vostra Maestà non si fa prezzo„. Ma insistendo il Re, il Buonfìglio ne richiese cinquecento ducati. E il Re: "Ssò troppo: te ne dò quattociento, e te faccio no bello regalo„.2 E acquistò i puledri per quel prezzo, e regalò al Buonfiglio un phaeton da caccia, alto e forte, che il Buonfiglio tenne nella sua scuderia per molti anni.
Il risveglio economico si manifestava in altri modi. Nel 1857 veniva approvata l’istituzione di una Società anonima di Assicurazioni marittime, sotto il titolo: La stella polare, "con facoltà di stabilire succursali nel Regno e all’estero„; e, su proposta di Stanislao d’Alce, era approvata una Compagnia industriale agronomica napoletana. Con decreto del 3 febbraio 1858, datato da Gaeta e controfirmato dai ministri Murena e Troja, si autorizzava il Banco a fare ai negozianti prestiti di somme garantite dalle merci, depositate nei magazzini della dogana di Napoli. Le cambiali dovevano portare tre firme e scadevano dopo cinque mesi, ma il Reggente del Banco poteva prorogarle fino a sei.
Altro atto notevole nell’anno 1858 fu quello di permettere per un mese e mezzo, dal primo marzo al quindici aprile, l’esportazione delle fave, col dazio di grana 40 il cantaio, delle minori civaie e del grano con forte dazio. È noto che i prodotti agricoli erano soggetti a dazio di esportazione; anzi, per alcuni, l’esportazione era assolutamente vietata. Il nuovo provvedimento liberale fu a Ferdinando II consigliato dalla commissione per la revisione delle tariffe doganali, da lui istituita nel 1856. La presedeva Murena, e n’era uno dei membri più influenti Raimondo de Liguoro, già direttore generale delle dogane e antico fautore della libertà di commercio. Il Murena era invece protezionista; e quando Francesco II ne accettò più tardi le dimissioni da ministro e da presidente della commissione, ne divenne semplice componente, succedendogli nella presidenza il De Liguoro. Murena scrisse allora al De Liguoro una lunga lettera, scusandosi di non intervenire alle adunanze, perchè vi si sarebbero discussi provvedimenti contrarli ai suoi principii protezionisti. Ed il Re, cui fu mostrata questa lettera, disse, sorridendo: "Murena è persona degnissima e conservatore, ma qualche volta conservatore outré„. In quegli anni, gli olii di oliva oscillarono dai 26 ai 27 ducati: i calabresi di Rossano e di Gioia, più dei pugliesi di Bari e Gallipoli. Le mandorle si tennero tra i 25 e i 26 ducati; i grani, tra 21 e 22 carlini; per i fagioli bianchi non variò il prezzo di 17 carlini e le fave salirono da 11 1/2 a 12. Il cacio di Cotrone si quotava 20 ducati e un carlino il cantaio, e quello di Sicilia, 20 ducati. La rendita 5 % oscillò da 115 a 116 3/4.
Si costruivano poche strade, pochi ponti e molte chiese; ma, anche per queste, tutto si faceva stentatamente; anche per i cimiteri, essendo per la sepoltura permesse ancora le chiese. I bisogni del Regno, in fatto di lavori pubblici, erano immensi. Nell’ottobre del 1858, s’inaugurarono i lavori della strada della Sila, alla presenza delle autorità ecclesiastiche e civili e, pochi giorni dopo, il Re con la Regina, i figli maggiori e pochi ufficiali superiori scortati da gendarmi a cavallo, si recarono a visitare il ponte Farnese sul Liri, presso il villaggio d’Isoletta, frazione del comune di Arce. Approvata l’opera, dovuta alla perizia dell’ingegnere direttore, Ferdinando Rocco, il Re volle proseguire per la via che mena ad Arce. Guidava egli stesso il phaeton, in cui era la famiglia. A un certo punto di quella magnifica e ferace campagna, alla quale fan corona le ultime propagini dell’Apennino abruzzese, il Re fermò i cavalli, e, chiamati i sottoprefetti di Gaeta e di Sora, che lo seguivano, Francesco Dentice d’Accadia e Giuseppe Colucci, domandò loro come si chiamassero tutti i ridenti paesi, che sorgevano alle falde di quei monti. Saputo che si chiamavano Fontana, Arce, Rocca d’Arce, Roccasecca, Colle S. Magno, Palazzolo Castrocielo, uscì in queste parole: "Ecco, così dovrebb’essere tutto il Regno: la domenica, suona la campana, e si riunìsce il Decurionato. Si delibera, e poi ciascuno torna alla campagna e al lavoro; mentre nelle città . . . .„ e qui s’interruppe. Proseguendo per Arce, giunse al bivio dove si stacca il tronco che conduce a Ceprano, ed arrivato in quella cittadina, desiderò di salutare il marchese Ferrari, non so se fratello o padre di monsignor Ferrari, ministro delle finanze di Pio IX. Scambiati con lui alcuni complimenti avanti al suo palazzo, tornò indietro, senza scendere dal legno e rientrò a Gaeta a tarda sera.
Altri segni di risveglio non mancavano, e le Società Economiche vi contribuivano, secondo il loro potere. Queste Società, delle quali ogni provincia ne aveva una, erano veramente più accademie che sodalizii diretti a migliorare l’economia del Regno e promuovervi l’industria, l’agricoltura e il commercio. Ma ad esse non era dato fare di più, e tutte gareggiavano a chi contasse maggior numero di socii onorarli e corrispondenti, scelti tra i più alti funzionarli dello Stato e i più noti cultori di studii economici e sociali. Quella di Chieti era tra le più operose, perchè manteneva una scuola di disegno per la figura, dove insegnavano i pittori Marchiani, padre e figlio, che aprirono poi una litografia, la prima ad essere istituita negli Abruzzi, ed ebbero come discepolo un vispo fanciullo di Tocco Casauria, il quale, per aver eseguito un disegno a pastello alla piccola esposizione annua che apriva la stessa società, meritò un sussidio mensile di sei ducati e fu mandato a studiare a Napoli. Quel giovane che divenne, via via, artista sommo, è il Michetti. Nei sussidii e negl’incoraggiamenti artistici quelle Società spendevano di più, e quanti genii incompresi di pittori e di scultori non furono vanamente sussidiati! Certo il risveglio sarebbe stato maggiore, se le comunicazioni interne e quelle tra il Regno e il resto d’Italia, fossero state men disastrose; se l’iniziativa privata non avesse avuto l’obbligo di sottostare al beneplacito del Sovrano, e se nelle mani di lui non si fosse accentrato, non solo il potere politico, ma il principio di ogni benessere economico e sociale. Questo doveva aprirsi faticosamente la via tra prevenzioni, sospetti e lentezze burocratiche e doveva superare le difficoltà del pregiudizio grossolano, dello scetticismo e delle paure immaginarie di un Re senza ingegno.
Quel che fosse il commercio, avremo occasione di vedere in uno dei prossimi capitoli. Quanto all’industria, i soli veri centri industriali erano la valle del Liri, la valle dell’Irno e quella del Sabato. Nel circondario di Sora fiorivano quattro cartiere: quella del Fibreno, di proprietà del conte Lefebvre; un’altra, appartenente ad una società napoletana, diretta dal belga Stellingwerf; una terza di Roessinger e una quarta di Courier. Bravi inoltre la grande fabbrica di panni-lana di Enrico Zino, che forniva l’esercito del panno color rubbio per i calzoni della fanteria. Altre fabbriche di pannilana le esercitavano Polsinelli e i fratelli Manna, in Isola del Liri; Pelagalli, Ciccodicola, Sangermano e Bianchi, in Arpino; Lanni, Picano e Cacchione, a Sant’Elia Fiume Rapido. Ricordo inoltre la grande cartiera dei Visocchi in Atina e ricordo pure che il governo esercitava le miniere di ferro in San Donato Val di Comino, e il minerale veniva poi trattato in una magona, espressamente costruita nel territorio di Atina, fra il 1857 e il 1858. Sul Sarno, sull’Irno e sul Sabato erano le fabbriche di cotone, di lino e di lana, fondate da industriali svizzeri, francesi e anche nazionali, le quali prosperavano, unicamente per il sistema protezionista che informava la legislazione doganale del Regno. Il circondario di Sora poteva dirsi la Manchester del napoletano. Insieme alle industrie vi fiorivano i buoni studii, pe’ benefici influssi della storica abbazia di Montecassino e del buon collegio Tulliano di Arpino, che i gesuiti non giunsero mai ad abbattere. Appartenevano a quel circondario Antonio Tari, di Terelle; Ernesto Capocci, di Picinisco; Giustiniano Nicolucci, d’Isola del Liri, oggi professore nell’Università di Napoli, Giuseppe Polsinelli e Angelo Incagnoli, di Arpino, l’ultimo dei quali in gioventù pubblicò alcune lezioni di storia della filosofìa, e fu poi deputato e morì amministratore del Fibreno; Giustino Quadrari, di San Donato Val di Comino, interprete dei papiri ercolanesi, e Giacinto Visocchi, di Atina, morto innanzi tempo per un’infermità contratta in un acquedotto, dove si era dovuto rifugiare, per sottrarsi alle persecuzioni della polizia, della quale era strumento in quel comune un famigerato capo urbano.
Quando con un tratto di penna sotto la dittatura, il protezionismo venne abolito, queste poche fiammelle dell’industria napoletana si vennero via via spegnendo; e solo sopravvissero le poche fabbriche alle porte di Napoli, cioè le concerie di pelli e gli stabilimenti metallurgici, fondati da industriali stranieri, e la fabbrica di vetri al Granatello fondata dal Bruno. Si difesero, anzi qualcuna rifiorì, come la fabbrica di vetri. Pietrarsa invece soggiacque a un destino avverso, e fu vergogna dei nuovi tempi.
Il primo, che scrisse un serio lavoro a Napoli sul taglio dell’istmo di Suez considerato in rapporto ai vantaggi possibili per il commercio napoletano, fu Guglielmo Ludolf. Il Lesseps avea publicato nel 1855 il suo famoso libro: Percement de l’istme de Suez, e nell’anno seguente il Ludolf, che certo avea tenuto presente quella pubblicazione, scrisse nel Museo di scienze e letteratura sullo stesso argomento, quasi con identico titolo. Dopo avere accennato all’idea che gli antichi avevano avuta, di congiungere il Mediterraneo al Mar Rosso, e ricordato il commercio rimasto fiorente per l’Italia fino a quando il Mediterraneo fu la strada esclusiva per le Indie, lo scrittore napoletano passava a considerare sotto quali condizioni quest’antica strada, per il taglio dell’istmo, andava a riattivarsi, e come dovevano per necessità rifiorire in Italia prospera la navigazione ed il commercio. Egli dava una statistica della marina mercantile de’ varii Stati italiani in quegli anni, notando che sopra un totale di 16391 bastimenti italiani, il Regno di Napoli ne contava 9174, e su 486 667 tonnellate, questo ne contava 213 197. Deduceva da ciò che i porti di Messina, di Palermo, di Cagliari e di Napoli, come i più vicini all’Egitto, sarebbero divenuti altrettante cospicue stazioni della strada delle Indie; e Genova e Venezia avrebbero raccolto il commercio della Germania e della Svizzera. Riteneva incalcolabili i frutti, che l’Italia meridionale avrebbe tratto dalla riattivazione dell’antica strada delle Indie; e notando che il Regno delle Due Sicilie era uno Stato essenzialmente produttore e non consumatore, reclamava, in vista del nuovo e vastissimo orizzonte che si apriva agli scambi commerciali del mondo, la massima libertà di commercio. Bellissimo studio che levò molto rumore. Guglielmo Ludolf era, com’è noto, incaricato d’affari in Baviera.
Com’è triste il considerare oggi, dopo più di quarant’anni dai giorni in cui si nutrivano tali speranze, che mancarono nel paese tutte le condizioni per vederle realizzate. Se la posizione geografica del Regno lo metteva, aperto il canale di Suez, in grado di trarne più di ogni altro paese il maggior vantaggio, pur troppo mancava ogni preparazione per divenire più tardi centro di commerci, di scambi, di depositi, di trasporti. Dove trovare la necessaria coltura commerciale, lo sviluppo del credito, l’ordinamento bancario, i docks, i magazzini generali, l’attività dei cittadini? Fin dal 1858, undici anni prima dell’apertura del canale, l’Inghilterra, l’Olanda, la Francia, la Russia, gli Stati Uniti di America avevano ottenuto le grandi agevolezze commerciali col Giappone; e il Re di Napoli non pensava che a costruir chiese e a trovare una moglie al principe ereditario! Nè, dopo il 1860, vi si dimostrò più preparata la nuova Italia. A nulla valsero i lieti augurii che il buon ministro Luigi Torelli trasse dal fatto, che ad attraversare il canale di Suez, i primi due legni furono del mezzogiorno di Italia, anzi pugliesi, due barche peschereccie di Trani, di dieciotto tonnellate ciascuna!
A Napoli i bolli postali furono istituiti da un decreto reale del 9 luglio 1867, controfirmato da Troja e da Murena, decreto che imponeva l’obbligo di affrancare giornali e stampe, ma quanto alle lettere e ai plichi era in facoltà di chi li spediva, pagare lui la spesa, applicandovi i francobolli, o farla pagare al destinatario, inviando la lettera o il plico senza affrancarli.3 Il bollo si annullava con un timbro nero, che portava impressa la parola: Annullato. Furono create sette specie di francobolli, da mezzo grano, da 1, da 2, da 5, da 10, da 20 e 60 grani. Nell’interno del Reame ogni lettera di un foglio era soggetta ad un bollo di due grani; ogni lettera, nella stessa città, ad un grano. Lo stesso decreto stabiliva pure tre spedizioni postali per settimana nell’interno e sei per Terracina. Disponeva, infine, che oltre i procacci attuali (piéton) sarebbe stabilito un piéton en poste, che partirebbe una sola volta la settimana da Napoli a Lecce, da Napoli a Teramo, da Napoli a Campobasso e viceversa.
Prima di adottare definitivamente un tipo di francobollo, furono proposti varii disegni al Governo. Uno dei primi disegni, che gli storici non sono riusciti a determinare se sia stato inciso a Napoli, da un tal Lefebvre in Inghilterra, rappresenta la testa di Ferdinando II, che non si sa, se per caso o ad arte, l’incisore fece simigliantissima al profilo di Tiberio. Comunemente vi erano rappresentati i gigli, il cavallo e la Trinacria. La prima emissione dei francobolli avvenne nel capodanno del 1858. Li incise Luigi Masin di Napoli, e li impresse a colore su carta filigranata Gennaro de Majo. Ma avevano una grandezza da 42 per 29 millimetri e durarono in uso sino al 1° aprile del 1861. Per rispetto alla sacra immagine del Re, il timbro d’annullamento si metteva sulla parte del francobollo, dove si vedeva rappresentata la Sicilia. Erano di vario colore, però esclusi il verde e il rosso, perchè potevano prestarsi a combinazioni e manifestazioni politiche, secondo una lettera ufficiale del ministro delle finanze al luogotenente di Sicilia in data 23 novembre 1867.
Il 28 febbraio 1858, il Re stando a Gaeta, approvò i tipi di francobolli per la Sicilia e l’effigie del Sovrano fu incisa dall’Aloysio Iuvara.
Note
- ↑ Che prezzo vuoi di questi puledri?
- ↑ Son troppi; te ne do quattrocento, e ti fo un bel regalo.
- ↑ I. B. Moens, Timbres de Naples et de Sicile; Bruxelles, au bureau du journal Le Timbre Poste, 1877. Libro raro, perchè tirato in soli 108 esemplari su carta d’Olanda.