La figlia del re (Barrili)/VIII
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VIII.
Finalmente! il noioso periodo dei negoziati era chiuso. Il conte Attilio Spilamberti di San Cesario non aspettava altro, per ricomparire a Mercurano a far la sua prima visita di fidanzato in casa Bertòla. Non metteva alloggio nel castello degli Sferralancia, come aveva già fatto due mesi prima, ospite caro e gradito: faceva apparizioni di mezze giornate, essendo occupatissimo a Modena, per tanti apparecchi che i signori Bertòla potevano indovinare benissimo: quando poi si fermava più a lungo, nelle domeniche, scendeva all’albergo della Fenice, assai vicino alla casa dei grandi Italiani. Così la chiamava egli, con gentile eufemismo, che piaceva al signor Demetrio ed anche alla sua bella figliuola, lieta che il suo fidanzato, alla nobiltà dei natali ed alle grazie della persona, aggiungesse lo spirito ed il buon gusto. Sicuro, anche il buon gusto: infatti, dicendo «la casa dei grandi Italiani» si evitava di dire «il Bottegone» come era l’uso di Mercurano, uso brutto ed antipatico in sommo grado. Povero Bottegone, fondamento e principio di tutto, così cominciavano a trattarti; non si voleva neanche sentire il tuo nome!
Per altro, bisognava passarci, per andar su a riverirne i padroni. Virginio Lorini vide il signor conte apparir di lontano sulla piazza, e con un pretesto si ritirò dal salottino, dove il signor Demetrio stava leggiucchiando i dispacci commerciali del «Sole» di Milano. Sicuramente il signor Demetrio aspettava quella visita, poichè non si era accomodato sul canapè, ma sopra una sedia, accanto alla scrivania. E Virginio lo lasciò solo: e infilate le scale, non si fermò neanche al primo pianerottolo. Se ne andò nella sua cameretta al secondo piano, ci si chiuse dentro e ci rimase almeno un paio d’ore, fino a tanto non ebbe veduto dalla sua finestra il signor conte attraversare la piazza per ritornarsene a casa.
La grande notizia si era sparsa prontamente in paese. Non aveva fatto, a dir vero, tutto quel senso che si sarebbe potuto immaginare. Un gran matrimonio era preveduto da un pezzo, fin da quando la signorina Fulvia era ritornata dal collegio di Lodi. «Chi la sposerà?» si chiedeva, vedendola così elegante, e sapendola così nobilmente educata. «Dov’è l'uomo per lei, da queste parti?» Si era sperato che potesse farsi avanti il figlio del sindaco: ma la speranza aveva fatto poco cammino, e il figlio del sindaco aveva continuato a giuocare al pallone, non alzando neppur gli occhi alle finestre del Bottegone. Altri che ci potessero aspirare, presentarsi candidati, non se ne vedevano in tutta Mercurano nè in alcuno dei borghi vicini: dunque? Dunque il predestinato doveva venir di lontano, ed essere un personaggio di gran signoria: quattrini molti, o gran nobiltà, non si poteva uscire di lì. Il personaggio era venuto, venuto per la via donde potevano venire a Mercurano i gran signori, la via del castello Sferralancia; niente adunque d’inaspettato o di strano. Piuttosto, qualche linguaccia.... Sicuro, ci erano per esempio le signorine Cometti che non la risparmiavano a nessuno, donna Fulvia era una gran dama, e faceva le cose alla grande: imitava il governo, concedendo anche lei la pensione di riposo ai suoi impiegati, dando la sua ricca figlioccia in moglie al predecessore di Possidonio Zocchi. Ah ah, la furba signora!
Ma queste erano supposizioni, piccole malignità di zitellone rabbiose, e non uscivano dalla cerchia dei salottini di campagna, dove, come nei salotti di città, si bisbigliano tante cose che non si diffondono poi e non s’ingrossano a rumori di piazza. Il buon popolo di Mercurano, fedele al costume d’altri tempi, considerava i signori come altrettanti dèi dell’Olimpo, cioè a dire di una regione altissima, di là dalle nuvole, dove si capisce che ci debba essere molta allegria, molto nettare, molta ambrosia, e molte scenette, gustose, tutta roba da lasciarsi ai poeti, i soli tra i mortali che abbiano acquistato il diritto di salir sulle nuvole. Mercurano guardava al fatto, tale quale si offriva alla vista; e quel fatto non pareva strano a nessuno, tanto erano avvezzi a figurarselo inevitabile. Lei bella, ricca e signorilmente educata, lui conte, ricco e bello; si erano dunque ritrovati.
Bello sopra tutto, quel conte! Su questa bellezza singolare si tesseva da tutta Mercurano un coro di lodi, che giungeva facilmente all’orecchio di Virginio. Il segretario del Bottegone era infatti ai primi posti per godersi la dolce armonia di quel coro.
— Dunque, signor Virginio, mangeremo dei confetti, tra un mese?
— Si aspettava, sa, si aspettava questo gran fatto.
— La signorina Fulvia, è così bella e così cara! Chi la poteva sposare, se non era un gran signore?
— È veramente degno di lei. Quella Fulvia è un bottoncino di rosa, un giglio d'oro, un occhio di sole.
— Anche lo sposo è bello. Dio, come è bello! — dicevano volentieri le donne, trovandosi insieme all’appalto, per comprare un chilogrammo di sale.
— Tanto bello, — soggiungeva una di loro, mentre stava raccogliendo le cocche del suo fazzoletto da spesa, — tanto bello, che se fosse mio lo vorrei mettere sotto una campana di vetro e fargli la guardia, che non me l'avessero una notte o l’altra a rubare.
— Ed è conte; — diceva un avventore, a cui stavano pesando il suo mezzo ettogrammo di trinciato forte. — Il signor conte Spalla di Lamberto!
— Spilamberti; — correggeva un altro. — Spilamberti di San Cesario.
— Spilamberti Spallamberti, è sempre conte, e il signor Demetrio può tenersene, che un conte sia venuto a chiedergli la grazia d’imparentarsi con lui.
— Conte! conte! Che cosa sono i conti? — brontolava Luigione, un vecchio Diogene di Mercurano, venuto a chiedere un po’ d’esca pel suo acciarino da accender la pipa.
— Caro il mio Luigione, — gli rispondeva quell’altro che aveva parlato prima, — i conti sono quelli che contano. E tu conti poco, come me, come tutti noi altri. —
Virginio soffriva pazientemente tanti sciocchi discorsi. Quando non ne poteva più di una bottega, passava nell’altra, e via di seguito, dalla prima fino all’ultima, dalla pizzicheria alla cartoleria; ma era da per tutto la stessa musica. E ci si adattò, e prese a sorridere, di quel sorriso ebete che è una così degna maniera di rispondere ai discorsi sciocchi. La sua buona maschera non gli era stata mai così utile come allora, a quel tormento d’ogni giorno, d’ogni ora del giorno.
Ed altri tormenti gli dava il signor Demetrio, senza badarci, senza averne il più lontano sospetto. Una mattina non gli venne in mente di chiamarlo con gran segretezza in salotto, per fargli vedere i doni del fidanzato? C’era l’anello, il monile, il fermaglio, e tant’altre cose ancora, tutte graziose, maravigliose, stupende, da innamorare, da far girare la testa. E da per tutto una corona comitale introdotta come motivo di ornato, che faceva sempre buon giuoco. Non si poteva negare che il signor conte avesse un gusto delicatissimo: e forse si poteva sospettare che al suo gusto mascolino si fosse aggiunto quello di donna Fulvia, che di quei giorni, per l'appunto, aveva fatto una breve corsa a Milano.
Virginio guardò e disse «bello!» ad ogni astuccio di velluto azzurrino, foderato di raso bianco, che il signor Demetrio gli metteva con gran compiacenza sott'occhio.
— Ne ho piacere; — diceva il vecchio, giubilando ad ogni esclamazione, e non badando agli occhi del suo interlocutore, che guardavano sempre una spanna più in là dall'oggetto; — ne ho piacere, perchè tu te ne intendi, d’orerie, e il tuo giudizio in questa materia val molto. Gli acquisti per il nostro negozio li fai sempre tu. Capisco che qui è un altro paio di maniche. A queste altezze non si slancia il Bottegone; rischierebbe di saltare in aria. Ah, buona, questa! Mi è venuta così spontanea; ed è nuova di zecca, non ti pare? —
Era in estasi, il signor Demetrio, come uno spirito beato, assorto nella contemplazione di una eterna felicità. Ma non sempre, non sempre; forse perchè non è dato alla creatura, vestita ancora d’ossa e di polpe, il restare a lungo sospesa, fosse pure colla immaginazione, sui cirri e sui cumuli galleggianti del supremo ideale. Qualche volta, scendendo un po’ bruscamente a terra, gli accadeva di ritrovarsi in collera con sè stesso e col mondo. La cosa gli accadeva pur troppo, tutte le volte che pensava alla necessità di snocciolare quella dote così grossa.
— Duecentomila lire! — esclamava. — Duecentomila! Si fa presto a dirlo; ma è più lungo a contarlo, tutto questo denaro; è più lungo a spremerlo, tutto questo sangue delle nostre vene. La cavata è in verità troppo forte. E sei tu, Virginio, sei tu....
— Io! — interrompeva Virginio.
— Tu, sì, tu che me l’hai consigliata. Se tu non mi mettevi quella pulce nell’orecchio, credi pure che non saremmo arrivati a questo punto. Avrei detto cento; mi avrebbero risposto che non basta; e ciò mi avrebbe seccato, e mi sarebbe venuta spontanea la risposta: o cento, o nulla; o prendere o lasciare. Ma con quella pulce nell’orecchio, ero già preparato al colpo; temevo io stesso che centomila lire fossero poche; e mi son lasciato tirare più in là, più in là, fino alle dugentomila. Fortuna che non m’hai detto di più; altrimenti, Dio sa dove mi lasciavo condurre. Intanto, capirai, ci va tutta la rendita che avevamo messa da parte; e dell’altro ancora, dell’altro. Prevedo che resterai al verde, o giù di lì.
— Non temete, non temete; — disse Virginio. — Anche con la «cassa rotta» potrò tirare avanti. C’è molto da riscuotere; c’è credito, e non ho tratte che per la fine dell’altro mese. Non ci sarà da ricorrere a nessuna operazione, per far fronte agl’impegni.
— Tu mi consoli un poco, ragazzo mio. Qualche volta mi pare che la terra sia per mancarci sotto i piedi. —
Così il signor Demetrio finiva le sue nenie. Del resto, erano volate assai brevi, sfoghi di mal umore, sempre seguiti da lunghi riposi e da sogni piacevoli di grandezze, di felicità senza pari. Egli ricordava sempre con ammirazione una lettera del conte Spilamberti, la prima che il conte avesse scritta sull’argomento delle nozze sperate, e che il signor Momino gli aveva fatta leggere il giorno stesso che si erano conchiusi i patti nuziali. Era dunque anteriore a questi; il conte Attilio l’aveva scritta, non sapendo ancora che cosa si dovesse conchiudere, ignorando la sua sorte, che si decideva lontano da lui: la qual cosa ne accresceva il pregio, e il signor Demetrio era pregato a notarla. Era scritta a donna Fulvia; un’altra Fulvia la poteva leggere; e perchè quell’altra Fulvia la leggesse, il signor Momino commetteva volentieri la piccola indiscrezione di lasciare per un giorno il gelosissimo foglio tra le mani del suo buon amico Bertòla.
In quella lettera il conte Attilio ringraziava la sua gentil protettrice con le frasi più infiammate che si potessero immaginare. Dunque il suo bel sogno si avverava? La famiglia Bertòla aveva gradita la sua timida richiesta? Quanto all’interesse, al vile interesse, egli non voleva saperne nulla, non amando guastare con la immagine delle carte bollate il quadro maraviglioso della sua felicità. Anche senza un soldo avrebbe sposata la fanciulla dei Bertòla; tanto gli aveva fatto senso la sua bellezza, la sua grazia, il suo ingegno, la sua educazione veramente principesca.
Sì, proprio principesca; era questo l’aggettivo di cui si serviva il conte Spilamberti di San Cesario, che di queste cose si poteva intendere a puntino. E questo non tralasciava di notare il signor Demetrio leggendo alla sua Fulvia il prezioso documento della gloria di casa Bertòla.
Prevedendo cortesemente le giunte obiezioni che a questo suo disegno si sarebbero mosse, il conte Attilio proseguiva, mostrando bene d’intendere che il dare una dote poteva essere, e forse doveva essere, da parte della famiglia Bertòla, una questione di dignità. E su questo punto non aveva egli a far altro che inchinarsi, accettando ogni cosa. Intendeva ancora che bisognasse collocare la contessa di San Cesario in uno stato conveniente al suo grado, come alla condizione di fortuna in cui era nata e cresciuta. Anch’egli, dal canto suo, avrebbe fatto ogni sforzo maggiore. Non voleva poltrire nell’ozio, come aveva fatto fino a quel giorno, non prevedendo la felicità a cui era destinato. Voleva adoperarsi ad accrescere le sue sostanze, lavorare, insomma, lavorare in un modo conforme al suo grado, entrando negli affari, e per la porta d’oro, come gli era consentito da alcune circostanze favorevoli, non ignote ai signori Sferralancia. Conoscevano la banca «Nuova Esperia», nella quale essi medesimi avevano investito un bel capitale, e ben sapevano come fruttasse. Il principe Andolfi, suo cugino, era presidente del consiglio d’amministrazione: il banchiere Spitzbolzen (da non confondere col suo quasi omonimo Spitzbuben) era il vice presidente, e gli voleva un gran bene. Tutti e due, passando da Modena per recarsi ad una radunanza straordinaria, e prendendolo compagno fino a Bologna nel loro compartimento riservato, gli avevano parlato del magnifico slancio che stava per prendere la banca «Nuova Esperia», assumendo (ma non ne rifiatasse ad anima viva, per carità, trattandosi di una impresa largamente fruttifera, a cui molti avrebbero voluto partecipare) assumendo i lavori del porto di Taramello, donde tanto si riprometteva il governo, per un doppio fine, militare e commerciale. Eccoti una buona occasione per occupare il tuo tempo, gli dicevano a gara il parente e l’amico; entra con noi nella «Nuova Esperia»; le azioni, fra uno o due mesi, quando sarà noto l’affare, aumenteranno almeno di un terzo: potrai rivendere le tue con un largo profitto; potrai far meglio ancora, aumentandole fino al numero che basti per farti entrare nel consiglio d’amministrazione, quando si rifaranno in fin d’anno le nomine.
Tutte queste belle cose narrava il conte Attilio a donna Fulvia, sotto il suggello del più profondo segreto. Ne usasse per suo conto l’amico Momino, se credeva di comprare azioni, o solamente di custodire più gelosamente quelle che già possedeva. Quanto a lui, padrone di terre e non di larghe somme in contanti, non poteva approfittare per allora della buona notizia, nè accogliere la cortese offerta dei due pezzi grossi. E del resto, poco male per lui, se avesse dovuto continuare nel suo stato presemte. Marito di Fulvia, non aveva nient’altro a desiderare nel mondo; ed egli e lei sarebbero vissuti modestamente di quel poco, facendo ancora una discreta figura, e, quel che più importava, amandosi molto. Felicità non val forse più di ricchezza?
— Sì, belle frasi; belle frasi! — diceva il signor Demetrio inuzzolito. — Ma i denari sono i denari. Se avessi pensato come lui quando facevo il cascamorto alla signorina Giuditta Vercellone, mi sarei istupidito lì per tutta la vita, senza uscir mai dalle mezzine di lardo. Audacia vuol essere; gli affari bisogna saperli inventare, o almeno agguantare quando ti si presentano alla mano. Lavori, il mio signor genero, poichè gli si offre di entrare negli affari per la porta d’oro; che dovrebbe essere come l’entrarci, diremmo noi, con gli stivali. Lavori in grosso, come io ho lavorato a minuto. Se lavora, son più contento di arrivare a duecentomila lire di dote. È un collocamento sicuro, quello che farà nella «Nuova Esperia», con un principe per presidente, e seguitando la fortuna d’un banchiere come lo Spitzbolzen. Lo conosco, quello lì, lo conosco bene, ed ha i suoi venti milioni, come è vero che io non sono ancora riuscito a fame uno. Ma già, a Mercurano! fatevi milionarii, se potete, non uscendo di qui! —
Virginio stava a sentire; si sorbiva tacitamente ogni cosa, non mettendo parole sue nella conversazione, se non quando era direttamente richiesto del suo parere. Il suo parere, del resto, riusciva sempre conforme ai desiderii del suo principale. Perchè fargli contro? perchè sostenere, fosse pure per pochi minuti, un’opinione contraria? Si discute mal volentieri con chi non vuol sentire ragioni, con chi non farà niente di ciò che gli si potrebbe consigliare. Virginio, inoltre, aveva veduto quel matrimonio piacer troppo a tutti; alla contessa Sferralancia come al suo savio consorte; a Fulvia come alla sua dolce madrina; al signor Demetrio come alla sua bella figliuola: non aveva da mostrarsene scontento lui, ultimo degli ultimi, mettendo una nota stridente in quel concerto di approvazioni.
Perchè poi l’avrebbe messa? con qual diritto? con quali ragioni? C’era un uomo che piaceva a Fulvia: quell’uomo era giovane e bello, nobile e ricco; ricco almeno quanto bastava per assicurare la dote. Fulvia, figlia unica ed unica erede di una invidiabile sostanza, poteva sempre compensare del suo il difetto o la sproporzione della sostanza maritale. Per questo verso, adunque, le cose andavano lisce, e non c’era niente a ridire.
Certo, Virginio seguitava a pensare che quell’uomo non fosse fatto per Fulvia; che quel conte così ricco di nomi e probabilmente di boria, mirasse a fare un buon contratto, per rimettere in piedi una famiglia andata a male, o in pericolo d’andarci. Ma non era sempre così? Quanti nobilucci spiantati non si appigliavano a quell’unico spediente? Perchè, infine, perchè ci sarebbero le genti nuove e le nuove fortune, se non per ristorare le antiche, in una società che continua ad ammirare le antiche e crede tanto ai nomi vecchi, sian pure meno altamente portati di prima, e che i non intieramente vecchi, purchè accompagnati d’un vecchio titolo decorativo, mette alla pari con gli altri, più o meno celebrati nei fasti della storia?
E infine, si doveva egli tenere per certo che quel conte di San Cesario mirasse solo a rifarsi, a ristorare uno stemma un po’ logoro? Non aveva egli ancor tanto da vivere signorilmente del suo? Che fosse savio nella sua scelta, volendo prender moglie, e prendendola un po’ innanzi l’età in cui tutti i grandi scioperati, stanchi di navigare a caso sul mare della vita, s’indirizzano ad un porto per raccoglier le vele, non era poi cosa da fargliene carico. Ed anche poteva benissimo essersi innamorato a buono di Fulvia Bertòla. Nessuno più di Virginio doveva sentirsi disposto ad ammetterlo; nessuno più di lui, poveraccio, che l’amava tanto, da averne continuamente l’amaro alla gola e lo struggimento nel cuore.
E più si sentiva struggere, e più si sentiva amareggiare, quanto più si avvicinava il momento che Fulvia sarebbe uscita per sempre dalla casa paterna. Lontano ancora da quel giorno, gli pareva che tutto non fosse finito, che qualche strano evento, non potuto prevedere, non potuto immaginare, avesse a frapporsi tra lei e il conte Spilamberti, suscitando qualche difficoltà insuperabile. Ma niente; le difficoltà erano tutte superate; un altro evento, il temuto, l’odiato evento, si affrettava a gran passi. Erano settimane ancora; ma poi non furono che giorni; il termine era fissato, e Virginio lo vide sopraggiungere, minaccioso, fatale, inesorabile, come la morte.
Casa Sferralancia e casa Bertòla s’erano accordate in un savio proposito, quello di non far pompe, nè chiassi, tanto usati nei piccoli paesi e tanto antipatici nei grandi. Veramente, il signor Demetrio aveva pensato ad un pranzo magno; ne aveva vagheggiato lungamente il pensiero, domandando anche il parere di Virginio. Per la prima volta, dacchè si erano combinate quelle nozze, Virginio osò manifestare un’opinione contraria al disegno del suo principale.
— Chi inviterete? — gli diceva. — Parenti? Non ne avete di prossimi, che sia necessario chiamarvi dattorno. Ed è fortuna, perchè non potreste metterli a tavola, insieme cogli Sferralancia, coi Paganuzzi e con tante altre persone di alto bordo, che certamente non mancherebbero all’appello. Quanto ai parenti lontani, peggio che mai: ci sarebbe lo stesso guaio, e senza la scusa per voi di non averlo potuto evitare. Date retta a me, signor Demetrio; niente pranzo magno, niente chiassi; la cosa piacerà anche al vostro futuro genero.
— Ma che? S'hanno da far le cose alla sordina, come se ci vergognassimo di farle? — gridava il signor Demetrio. — Che cosa si dirà in paese? Quanto al mio futuro genero, vorrei ben vedere che si vergognasse lui di venire a pranzo sul Bottegone, poichè dal Bottegone è venuto ogni cosa. —
E tirava via di questo passo, come se davvero avesse già da combattere contro una ripugnanza del suo futuro genero. Virginio lo lasciò dire, e finì poi consigliandogli di domandar parere a donna Fulvia, o al signor Momino, savio, stagionato e navigato quanto la sua nobile consorte.
Maraviglia delle maraviglie! Il signor Momino e donna Fulvia pensavano in ciò come Virginio Lorini. S’intende che non dissero al signor Demetrio le stesse ragioni del suo segretario; parlavano solamente dell’uso invalso oramai nelle grandi città, di non far chiassi, di non far ricevimenti, nè riunioni solenni. L’atto religioso, il civile, una refezione tra parenti strettissimi, aggiunti i testimoni alla doppia cerimonia, e via alla strada ferrata: questo era il costume delle grandi città; tutto il resto era volgarità, roba dell’altro mondo, da far rizzare i capelli sulla testa ai calvi. Il signor Demetrio si persuase tanto facilmente allora, quanto era stato duro dapprima.
Niente pranzo adunque e niente inviti; solo una refezione intima, tra parenti strettissimi e testimoni alla doppia cerimonia. I testimoni, si capisce, erano tutti di casa Sferralancia; Momino, il Paganuzzi, lo Zecchi. I parenti strettissimi si riducevano ad uno, il signor Demetrio; ma a lui si poteva aggiungere donna Fulvia, per il suo titolo di madrina della sposa. Ora, poichè la refezione doveva farsi intima e breve, tra la doppia cerimonia e la partenza degli sposi; e perchè la stazione della strada ferrata era a forse mezz’ora di cammino dall’abitato di Mercurano; e perchè, finalmente, il castello degli Sferralancia si trovava a mezza strada fra quest’abitato e quella stazione, l’idea di far la refezione al castello si presentava da sè alla mente di tutti. Così erano presto ordinate le cose: Gli Sferralancia con lo sposo andavano a prendere la fanciulla a casa Bertòla con tre carrozze padronali: di là ritornando muovevano verso la casa comunale e verso la chiesa; e via, compiuto il doppio rito, via da capo al trotto allungato, lasciando i quattromila settecento Mercuranesi con altrettanti palmi di naso.
Questi concerti piacevano molto a Virginio. Il segretario del signor Demetrio non poteva lasciare il Bottegone, specie in una circostanza come quella, di molto concorso nella piazza Vittorio Emanuele e nel corso Garibaldi. Sfuggito il pericolo di trovarsi la comitiva nuziale tra’ piedi, nella casa Bertòla, aveva anche una stupenda occasione per non andare in nessun altro luogo a far numero. Fece i suoi saluti a tempo debito, in compagnia degli altri commessi del negozio. Si umiliava, si mortificava anche in questo suo accomunarsi colla «bassa forza» del Bottegone.
La bella sposa, commossa ma radiosa nel volto, era salita leggera leggera in carrozza, prendendo posto accanto al suo babbo glorioso e trionfante. Virginio era rimasto immobile, ritto a stento, appoggiandosi al banco delle pannine, guardando davanti a sè, ma non vedendo nulla, con un sorriso melenso che gli teneva le labbra contratte e gli occhi semichiusi.
— Che bella cosa, un matrimonio! — gli disse la giovane delle pannine, un fior di ragazza a cui luccicavano gli occhi come due carbonchi. — E Lei, signor Virginio, quando si deciderà? quando li mangeremo i suoi confetti? —
Virginio si scosse, sussultò, come un dormente che sia destato da un rumore improvviso.
— Io? — diss’egli. — Confetti? Ah, capisco; — soggiunse, ricomponendo mentalmente le frasi che lo avevano colpito. — Ma non lo sperate, Maddalena, non ne mangerete, dei miei.
— E perchè, signor Virginio, se è lecito saperlo?
— Perchè? perchè non sono milionario; — rispose Virginio, sforzandosi di mutare in un vero sorriso la contrazione delle labbra.
— Come? — gridò Maddalena. — Ci vuole un milione, per prender moglie?
— Un milione, sì; e diciamo anzi più d’uno.
— A buon conto non deve averlo il signor conte Spilamberti, che si porta via la nostra bella padroncina; e senza il milione che lei dice mi paiono tutti e due molto felici.
— Si contentano; — replicò Virginio. — Ma non potrei contentarmi io, Maddalena. Io la intendo così, che ci volete fare? Perchè si sposa una donna? Perchè si ama; e se si ama, si vorrebbe coprirla di diamanti e di perle. —
Maddalena sorrise, compiacendosi molto della bella idea del signor Virginio. Beata lei, che poteva sorridere così bene, mettendo tutta l’effusione d’un cuor contento sulle sue labbra vermiglie.
— Eh, intesa così, non mi dispiace; — diss’ella. — Ma se tutti gli uomini la pensassero come Lei, signor Virginio, le povere ragazze vorrebbero aspettare un pezzo; e in attesa di tante grandezze, resterebbero a spulciare il gatto. —
Virginio aveva detto ogni cosa, con quella sua sparata principesca. Come gli era venuta? Non lo sapeva neppur lui. Neppure si sentiva di continuare, con così sciocco discorso. Si rinchiuse adunque nella dignità dell’ufficio, e fatto un cenno del capo, che voleva dir basta, si ritirò nel salottino, per rimettersi al libro mastro. Che cosa ci leggesse, e se leggendo c’intendesse qualche cosa, non è poi da cercare.
Quel giorno ebbe la piccola consolazione di desinare da solo; buona occasione per non toccar quasi nulla e restare lungamente con gli occhi fissi sul piatto. La cuoca non se l’ebbe per male, quella volta, e si contentò di sorridere, mentre pur lo esortava a mangiare.
— Almeno per riflessione; — diceva lei, — altrimenti le soffrirà lo stomaco. Capisco bene ancor io che non è giorno da stare allegri. Quella cara signorina che se ne va, così di schianto, da casa sua, e per non ritornarci più!... Creda, signor Virginio, ne sono anch’io sconsolata, che non ho pianto tanto quando è partito il mio Celerino per le Americhe. Ma la prego, mi assaggi almeno di questa frittura bianca. Le è sempre piaciuta tanto! —
Virginio torse le labbra. Quando mai aveva egli mostrato di gradir tanto un piatto, in paragone di un altro?
— Marietta, non posso. Come volete che io faccia onore alla vostra cucina? Son qua tutto solo; non mi sono mai trovato da tanti anni a mangiare da solo. Domani, domani, quando ci sarà il signor Demetrio. A tavola, senza un po’ di chiacchiere, non par buono mai niente. —