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marvi dattorno. Ed è fortuna, perchè non potreste metterli a tavola, insieme cogli Sferralancia, coi Paganuzzi e con tante altre persone di alto bordo, che certamente non mancherebbero all’appello. Quanto ai parenti lontani, peggio che mai: ci sarebbe lo stesso guaio, e senza la scusa per voi di non averlo potuto evitare. Date retta a me, signor Demetrio; niente pranzo magno, niente chiassi; la cosa piacerà anche al vostro futuro genero.
— Ma che? S'hanno da far le cose alla sordina, come se ci vergognassimo di farle? — gridava il signor Demetrio. — Che cosa si dirà in paese? Quanto al mio futuro genero, vorrei ben vedere che si vergognasse lui di venire a pranzo sul Bottegone, poichè dal Bottegone è venuto ogni cosa. —
E tirava via di questo passo, come se davvero avesse già da combattere contro una ripugnanza del suo futuro genero. Virginio lo lasciò dire, e finì poi consigliandogli di domandar parere a donna Fulvia, o al signor Momino, savio, stagionato e navigato quanto la sua nobile consorte.
Maraviglia delle maraviglie! Il signor Momino e donna Fulvia pensavano in ciò come Virginio Lorini. S’intende che non dissero al signor Demetrio le stesse ragioni del suo segretario; parlavano solamente dell’uso invalso oramai nelle grandi città, di non far chiassi, di non far ricevimenti, nè riunioni solenni. L’atto religioso, il civile, una refezione tra parenti strettissimi, aggiunti i testimoni alla doppia cerimonia, e via alla strada ferrata: questo era il costume delle grandi città; tutto il resto era volgarità, roba dell’altro mondo, da far rizzare i capelli sulla testa ai calvi. Il signor Demetrio si persuase tanto facilmente allora, quanto era stato duro dapprima.
Niente pranzo adunque e niente inviti; solo una refezione intima, tra parenti strettissimi e testimoni alla doppia cerimonia. I testimoni, si capisce, erano tutti di casa Sferralancia; Momino, il Paganuzzi, lo Zecchi. I parenti strettissimi si riducevano ad uno, il signor Demetrio; ma a lui