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pari con gli altri, più o meno celebrati nei fasti della storia?
E infine, si doveva egli tenere per certo che quel conte di San Cesario mirasse solo a rifarsi, a ristorare uno stemma un po’ logoro? Non aveva egli ancor tanto da vivere signorilmente del suo? Che fosse savio nella sua scelta, volendo prender moglie, e prendendola un po’ innanzi l’età in cui tutti i grandi scioperati, stanchi di navigare a caso sul mare della vita, s’indirizzano ad un porto per raccoglier le vele, non era poi cosa da fargliene carico. Ed anche poteva benissimo essersi innamorato a buono di Fulvia Bertòla. Nessuno più di Virginio doveva sentirsi disposto ad ammetterlo; nessuno più di lui, poveraccio, che l’amava tanto, da averne continuamente l’amaro alla gola e lo struggimento nel cuore.
E più si sentiva struggere, e più si sentiva amareggiare, quanto più si avvicinava il momento che Fulvia sarebbe uscita per sempre dalla casa paterna. Lontano ancora da quel giorno, gli pareva che tutto non fosse finito, che qualche strano evento, non potuto prevedere, non potuto immaginare, avesse a frapporsi tra lei e il conte Spilamberti, suscitando qualche difficoltà insuperabile. Ma niente; le difficoltà erano tutte superate; un altro evento, il temuto, l’odiato evento, si affrettava a gran passi. Erano settimane ancora; ma poi non furono che giorni; il termine era fissato, e Virginio lo vide sopraggiungere, minaccioso, fatale, inesorabile, come la morte.
Casa Sferralancia e casa Bertòla s’erano accordate in un savio proposito, quello di non far pompe, nè chiassi, tanto usati nei piccoli paesi e tanto antipatici nei grandi. Veramente, il signor Demetrio aveva pensato ad un pranzo magno; ne aveva vagheggiato lungamente il pensiero, domandando anche il parere di Virginio. Per la prima volta, dacchè si erano combinate quelle nozze, Virginio osò manifestare un’opinione contraria al disegno del suo principale.
— Chi inviterete? — gli diceva. — Parenti? Non ne avete di prossimi, che sia necessario chia-