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— Conte! conte! Che cosa sono i conti? — brontolava Luigione, un vecchio Diogene di Mercurano, venuto a chiedere un po’ d’esca pel suo acciarino da accender la pipa.

— Caro il mio Luigione, — gli rispondeva quell’altro che aveva parlato prima, — i conti sono quelli che contano. E tu conti poco, come me, come tutti noi altri. —

Virginio soffriva pazientemente tanti sciocchi discorsi. Quando non ne poteva più di una bottega, passava nell’altra, e via di seguito, dalla prima fino all’ultima, dalla pizzicheria alla cartoleria; ma era da per tutto la stessa musica. E ci si adattò, e prese a sorridere, di quel sorriso ebete che è una così degna maniera di rispondere ai discorsi sciocchi. La sua buona maschera non gli era stata mai così utile come allora, a quel tormento d’ogni giorno, d’ogni ora del giorno.

Ed altri tormenti gli dava il signor Demetrio, senza badarci, senza averne il più lontano sospetto. Una mattina non gli venne in mente di chiamarlo con gran segretezza in salotto, per fargli vedere i doni del fidanzato? C’era l’anello, il monile, il fermaglio, e tant’altre cose ancora, tutte graziose, maravigliose, stupende, da innamorare, da far girare la testa. E da per tutto una corona comitale introdotta come motivo di ornato, che faceva sempre buon giuoco. Non si poteva negare che il signor conte avesse un gusto delicatissimo: e forse si poteva sospettare che al suo gusto mascolino si fosse aggiunto quello di donna Fulvia, che di quei giorni, per l'appunto, aveva fatto una breve corsa a Milano.

Virginio guardò e disse «bello!» ad ogni astuccio di velluto azzurrino, foderato di raso bianco, che il signor Demetrio gli metteva con gran compiacenza sott'occhio.

— Ne ho piacere; — diceva il vecchio, giubilando ad ogni esclamazione, e non badando agli occhi del suo interlocutore, che guardavano sempre una spanna più in là dall'oggetto; — ne ho piacere, perchè tu te ne intendi, d’orerie, e il